“L’impresario di Varietà” di Giovanni Comisso

Il mio amico Venerio conobbe il mio amico Giorgio al tempo in cui si andava da un paesotto all’altro della provincia con alcuni «numeri di varietà» per organizzare qualche spettacolo d’attrazione, che poteva rompere la pesante noia della vita di campagna.

Qualche volta andava bene, altre volte si lasciavano debiti con fuga dell’impresario e i vari numeri facevano la fame.

L’amico Giorgio era appunto impresario di un complesso di numeri tra i quali vi era il fine dicitore che recitava la morte del Conte Ugolino presentandosi sulla scena con le gambe tremanti e le braccia protese nel buio della torre.

Poi vi era il prestigiatore in frac e tuba dalla quale faceva scaturire fazzoletti di seta e colombi, vi era anche un sollevatore di pesi o un acrobata e immancabile una canzonettista con vestiti di lamé per le canzoni movimentate e di velluto per quelle romantiche.

Il mio amico Venerio si era appena diplomato in ragioneria e aveva avuto l’incarico di curare il fallimento di un signore di un grosso paese dove il mio amico Giorgio era arrivato con la sua compagnia. Tra i beni di quel signore fallito vi era anche un piccolo teatro con palchetti e loggione.

L’amico Giorgio non si presentava con il suo biglietto da visita, ma nel tendere la mano metteva bene in mostra l’anello con diamante che portava  all’anulare. Disse subito al curatore che gli occorreva il teatro per la sera dovendo presentare la sua compagnia di varietà.

« Lei non si preoccupi, gli disse, mi faccia trovare il teatro pulito e illuminato, alla cassa ci penso io e penso anche a fare attaccare i manifesti ».

Ma purtroppo Giorgio ebbe poco da pensare alla cassa, perché più di dieci persone non si presentarono allo spettacolo e una sola chiese un palchetto vicino alla scena. Stava in attesa con l’occhio pietoso e facendo inutilmente scintillare il suo diamante mentre fumava una sigarette dietro l’altra: uno spettacolo fallimentare dentro un teatro fallito.

Il mattino dopo Giorgio stava seduto a un tavolino fuori del caffè e si poneva il problema se sciogliere la compagnia o insistere, quando un giovane signore lo salutò con molta deferenza e gli chiese il permesso di sedersi  vicino. Con la sua abituale gentilezza annui e si chiedeva chi potesse essere e dove lo avesse già visto, ma non riesciva a rispondersi. A un certo momento questo giovane signore gli propose di andare a vedere il mercato del bestiame che era un grande avvenimento della giornata e volle offrirgli il caffè che aveva bevuto. Giorgio pensò di essere scambiato per un mercante di bestiame ed ebbe un lieve sorriso che sorvolò il cupo dei suoi problemi.

Al mercato vi era folla di contadini, di mediatori, di padroni di terre e Giorgio già pensava di rimanere ancora una sera in quel paese, perché con i buoni affari che vedeva concludere avrebbe potuto avere un vantaggio nello spettacolo della serata ormai annunciato dai manifesti attaccati alle pareti.

Il giovine signore gli camminava accanto e ogni tanto gli indicava o un paio di buoi o un paio di vitelli chiedendogli se li trovava belli e soggiungendo con modestia che erano suoi.

Giorgio, convinto che lo avesse scambiato per un mercante di bestiame, gli disse che era contento di averlo conosciuto, ma non si interessava a quella merce: egli era l’impresario della compagnia di varietà che si esibiva nel teatro del paese. Il giovane signore lo sapeva bene, perché appunto era stato allo spettacolo, aveva preso un palchetto e si era molto divertito e particolarmente interessato alla canzonettista che avrebbe voluto conoscere.

Lo pregava di presentargliela e visto l’insuccesso gli fece capire che sarebbe stato un piacere per lui associarsi, aiutarlo se si trovava in una penosa situazione, sostenere le spese e viaggiare con la compagnia, sempre se non dava disturbo, verso altri paesi.

Il gioco di prestigio che quella volta faceva scaturire dalla tuba non un colombo, ma questo miracoloso finanziatore, lo fece la canzonettista. Disgraziatamente il gusto per lo spettacolo di varietà, in quel tempo, andava scemando di fronte all’incalzare galoppante del cinema  e la compagnia del mio amico Giorgio fu costretta a sciogliere i suoi componenti, ognuno verso il suo destino.

Però essendo appunto il l 1921, l’anno centenario della morte di Dante, il mio amico pensò di trattenere il fine dicitore, che sapeva a memoria tutta la Divina Commedia.

Avrebbe girato per le città d’Italia celebrando Dante con le recite dei canti del Conte I Ugolino, di Francesca da Rimini e di Farinata degli Uberti. Lo spettacolo avrebbe interessato le scolaresche.

Pensava già ad accordi forfettari con i vari Provveditori agli studi, ma in quel tempo Dante Alighieri era divenuto nuovamente vittima delle fazioni politiche.

Da una parte lo sbandieravano come un emblema nazionale, dall’altra, quella dei comunisti, come un borghese schiavista, e il mio amico non poté avere quella adesione che sperava dagli enti pubblici, allora in massima parte, in mano dei bolscevici. Così si trovò completamente solo.

Giovanni Comisso

Il Gazzettino, Domenica 17 maggio 1964

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