7 aprile 1944. Parte prima

Alle 13.24 del 7 aprile 1944 – Venerdì Santo – ebbe inizio il bombardamento di Treviso. Furono sufficienti  7 minuti per radere al suolo la città. Maggiormente colpiti donne, bambini, civili. Le famiglie che si preparavano a santificare la Pasqua, pur in tempo di guerra. Sono notizie che non vorremmo ai sentire, immagini che non vorremmo mai vedere ma delle quali siamo a tutt’oggi testimoni, quotidianamente. Come se la Storia nulla potesse insegnare. Siamo invece convinti che la memoria storica vada interrogata, per capire il presente.

Lo facciamo, con quattro appuntamenti dedicati al bombardamento di Treviso. Nel primo, il racconto del 7 aprile nelle parole di Giovanni Comisso. L’attonita disperazione di un uomo che rientra in città cercando la propria casa sotto le macerie, il rifugiarsi in una campagna che sembra seguire ritmi completamente estranei a quelli della guerra…

La sua casa

La guerra  si era scatenata sulla città. Una alla volta le armoniose città della sua regione erano state colpite. Quel meraviglioso cielo che nei secoli passati aveva inspirato grandi pittori riproducendolo come sfondo a Nozze di Canna, a Crocefissioni, a Concerti campestri, ad Ascensioni tra angeli volanti, a Paradisi con estasi di beati veniva senza tregua attraversato da fitti gruppi di argentei aerei che in pochi minuti sradicavano le belle e antiche città.

Passavano tra le nubi leggere e il sereno limpido variando di luce e di ombra come i volti delle dee assise in alto nei dipinti di quei pittori, ma più dalle città si sollevavano immense fumate di polvere e di incendi tra i crolli, delle case le une frammischiandosi alle altre, mentre turbini di vento disfacevano le chiome alle donne atterrite negli angoli delle case vacillanti e gli uccisi perdevano col sangue il loro tepore.

La sua città non era stata ancora colpita ed egli aveva deciso di ritirarsi in campagna con sua madre, in una piccola casa che aveva, lasciando deserta quella di città. Una vecchia casa dove aveva passato tutta la sua vita, da pochi anni dalla nascita. Qui, vi era la porta a cui suonava di ritorno dai suoi  viaggi, fremente di riabbracciare sua madre, come quando ancora ragazzo ritornando dalla scuola nell’annunciare che gli esami erano andati bene. Qui, vi era la sua stanza dove aveva dormito da ragazzo, dove davanti allo specchio si annodava ambizioso la cravatta quando doveva uscire, e il tinello dei pasti quotidiani e dei banchetti per le feste con inviti di parenti e di amici, e la stanza dei suoi genitori dove vicino a loro aveva dormito da bambino nella culla di stoffa gialla e quando vi si addormentava voleva  tenere nella piccola mano una cordicella che si allungava fino alla mano di sua madre. Vi era la cucina pervasa dagli odori delle vivande che sua madre gli preparava e altre stanze che come e altre nel lungo corso degli anni con l’aspetto dei mobili e degli oggetti, della luce che entrava nel passare delle ore erano oramai per lui elementi inalterabili della sua anima materiati fuori.

In campagna la vita era più tranquilla e si dimenticò della sua casa di città che era rimasta abbandonata alla polvere, ai topi e al buio delle imposte chiuse.

Aveva un orto e aveva preso gusto a seminare, a mondarlo dalle erbacce, ad annaffiarlo. Quello che più gli davano attesa erano le fragole. Constatava che questa pianta abituata a vegetare nei boschi si lascia facilmente sopraffare da innumerevoli altre ed era un continuo pulirla, ma oltre alle erbe estranee vi era un formicaio e dove aveva le sue aperture non radicavano le fragole: ne era indispettito. Una prima volta con la zappa lo sconvolse suscitando un fermento infrenabile tra le formiche che si irradiarono per ogni parte fino a salire sulle sue scarpe alle sue gambe, mordenti in furore. Poi vi gettò delle braci ardenti e cenere, molte ne uccise, ma dalle piccole aperture ne affluivano sempre altre a moltitudine, inestirpabili. Ripeté per diversi giorni con aspro accanimento il getto delle braci e poi attese sperando che emigrassero altrove lasciando il terreno libero al propagarsi delle fragole. Ma il formicaio sopravviveva sempre e le aperture erano state riaccomodate come prima dove vigilavano come scolte nere e lucenti alcune più grosse.

La stagione si era messa al bello con una primavera irruente a ridare in pochi giorni il verde ai prati: intese le prime foglie a stormire e si accorse dell’ombra per terra. Il suo orto avrebbe presto dato i primi raccolti e vi attendeva con passione maggiore.

Un giorno mentre stava curvo sulle gombine a trapiantare intese il segnale di allarme dalla sua città e poco dopo il rombo degli aerei che sopraggiungevano. I contadini accanto ai pagliai seguivano le squadriglie. Alzò lo sguardo: apparivano e sparivano altissime e scintillanti tra le nubi leggere di primavera. Gli riescirono belle nello splendore del cielo e non pensò alla loro possibilità di morte e di distruzione. Erano appena passate che in direzione della città intese cupe esplosioni susseguirsi e i contadini gridarono che la città bruciava. Corse fuori dall’erto e su dai campi verso la città vide alte colonne di fumo nero alzarsi e altre esplosioni si ripetevano. Sua madre da una finestra domandava cosa succedeva. Si era fatto cupo, rispose che avevano gettato alcune bombe sulla città. Prese la bicicletta e disse che andava a vedere.

Avvicinandosi trovò gente scappata rintanata nei fossati, già erano arrivate confuse le prime notizie, la città distrutta, innumerevoli morti. Ad una svolta su dal verde di un campo vide la torre e i campanili della città, fumo e fiamme si alzavano vicino alla torre.

Accelerò la corsa, alle prime case tutto era intatto, le strade erano deserte, poi incontrò gente che fuggiva spingendo carretti con accatastata sopra roba di casa. La strada era sbarrata da macerie, deviò per un’altra, tutto un gruppo di case era abbattuto e si vedevano gli interni delle stanze. Un rifugio era stato colpito e dei soldati vi scavavano lenti. Vide dei corpi inerti stesi per terra, coperti al volto da stracci e donne piangevano strette le une alle altre.

Andò avanti, voleva arrivare alla sua casa. La strada era nuovamente bloccata da macerie, si mise la bicicletta sulle spalle e passò oltre, una casa bruciava, alcuni soldati gli impedirono di proseguire: — Vado alla mia casa — gridò con furore.

Lo lasciarono passare. Intere case non esistevano più; giunse alla piazza dove era la sua casa, non vi erano che mattoni a occuparla interamente e dove era la sua casa vide gli alberi del giardino che stavano dietro. Salì sul cumulo di pietrame, barcollò, cadde, non era possibile proseguire, vicino stavano scavando, sembrava che qualcuno vivo ancora fosse sotto le macerie.

La sua casa non esisteva più.

Riprese la bicicletta, attraversò un ponte, le acque erano torbide di detriti, tutte le case lungo il fiume erano diroccate, la stessa strada era rotta da buche enormi entro cui rigurgitava l’acqua del fiume. Passò ancora per strade squarciate tra case a terra o che scoprivano i loro interni.

La sua città non la riconosceva più. Fu di nuovo in campagna, tra il verde immutabile, tutto era tranquillo, sereno nel sole primaverile.

A sua madre che Io attendeva ansiosa, disse che la casa era inabitabile. Nella notte non poté prendere sonno, quello che aveva visto, lo rivedeva nitidamente e – non poteva  credere che fosse lealtà. Tutto era finito, la sua casa non esisteva più, la sua città era irriconoscibile. Al mattino non poté tollerare la serenità della campagna, era festa e i contadini andavano tranquillamente alla messa. D’improvviso decise di ritornare in città.

Si accorse di molte più case distrutte, giunse dove esisteva la sua casa, valicò le macerie, solo il piccolo giardino era intatto: gli alberi che vedeva dalla sua stanza. I passeri che cinguettavano tra i lauri e le grondaie, cinguettavano ancora tra quelli e le macerie. Scorse la testiera del letto dove aveva  dormito dalla sua adolescenza. Poi schiacciata la poltrona, di sua madre, e frammenti di piatti di quelli che si usavano nei giorni di festa, di sotto una trave trovò l’aquilone della sua infanzia che era stato messo sopra un armadio e non rivedeva da tempo.

Il vento gli portò l’odore acre del disinfettante che gettavano sopra i morti.

Alcuni gradini della scala erano scoperti tra i rottami si risovvenne dell’ansia a salirli quando ritornava da ragazzo dalla scuola pieno di fame. Tutto il resto era informe rovina, andò via barcollando sulle pietre e ritornò in campagna. Appena fuori dalla città il suo sguardo si protese sul verde dei campi. Fu presso sua madre. — E allora? — ella gli chiese. — La casa è inabitabile — le rispose mestamente e andò verso il suo orto a mondare le fragole dalle erbe estranee.

Le sue mani giunsero presso il formicaio, nere e lucenti le scolte stavano di guardia all’ingresso, per un attimo riebbe l’impeto di sconvolgere tutto, ma si trattenne: — Per due fragole — pensò — non vale che distrugga la loro casa. — E passò oltre.

Giovanni Comisso

Corriere della sera, 14 giugno 1944

Share