Arper: la cultura si in-sedia

Sei parole chiave. Sei concetti che definiscono un’azienda in cui la regina è la sedia. Non una sedia qualsiasi, ma un oggetto che è frutto del lavoro di sintesi tra intuito, famiglia, colore, leggerezza, equilibro e gioco.

Intuito: quello primigenio di Luigi Feltrini, fondatore, insieme ai figli Claudio e Mauro, e quello allenato da tutti nel corso degli anni.  Famiglia: che abbraccia tre generazioni e i gruppi di oggetti. Colore: in cui si declina la produzione. Equilibrio: espresso da un design destinato a durare nel tempo. Leggerezza e gioco: ingredienti imprescindibili nella progettazione come nella vita. È questa la ricetta di Arper, azienda di Monastier conosciuta e apprezzata in tutto il mondo per la produzione di sedie e arredi. Una ricetta nata e condivisa dal confronto interno. Un’affinità elettiva che coinvolge imprenditori, collaboratori, designer e fruitori, con grande amore per l’arte e la cultura, come spiega Claudio Feltrin, presidente dell’azienda trevigiana.

Arper nasce agli inizi degli anni Ottanta. Come è stato l’esordio?

Al rientro dalla Svizzera, dove era emigrato e dove aveva conosciuto quella che poi è diventata mia mamma, anche lei italiana emigrata li per lavoro, mio padre intraprese un’attività di rappresentanza di tende e successivamente il commercio di tessuti e pellami. Un giorno, era il 1983, gli commissionarono un ingente quantitativo di pellame. Incuriosito dalla richiesta, scoprì che serviva per la produzione di un modello di sedia che stava riscuotendo un notevole successo. Ci intravvide un’opportunità e si propose di produrre i rivestimenti per le sedute, invece di fornire il pellame. Anzi, ebbe un guizzo e decise di proporsi come terzista.

Lavoravamo già insieme da anni, non avevamo esperienza di produzione, tuttavia fu così che cominciammo a lavorare come terzisti, imparando sul campo, spesso commettendo errori.

Nel volgere di pochi anni decidemmo di proporre modelli nostri. Io disegnavo e mio fratello Mauro si occupava dello sviluppo della rete commerciale. È il 1989 e Arper inizia a muovere i primi passi.

L’azienda era ancora molto diversa da come la conosciamo oggi. Come si è evoluta la produzione nel frattempo?

In effetti Arper è diventata “maggiorenne” da poco. Agli inizi producevamo sedie di gusto moderno, ma non ancora di design. Successivamente, era il 2000, ci trovammo di fronte alla necessità di connotarci in modo più preciso per distinguerci dalla moltitudine di competitors.

Il design era l’unica via percorribile. Inizialmente il design era associato all’oggetto “ben pensato”. Oggi interagisce con lo spazio circostante. Contribuisce a creare un mood, un’atmosfera.

Sedie, tavoli, l’arredo in genere non devono solo assolvere al proprio compito specifico. L’oggetto di design deve trasmettere valori, concetti abitativi che pongano l’uomo al centro dello spazio migliorando la percezione dello stesso.

Una filosofia da applicare non solo all’abitazione ma anche al luogo nel quale si lavora, ci si intrattiene, si sosta o transita.

È il cosiddetto mondo del “contract”, ovvero del contesto diverso dalla propria zona di comfort casalinga. È l’ambiente di lavoro, il ristorante, la sala d’attesa di un aeroporto. Tutti quei luoghi in cui trascorriamo il nostro tempo quando non siamo in casa e nei quali cerchiamo condizioni simili al nostro “cocoon”.

Pensiamo all’importanza di lavorare in uno spazio che metta a proprio agio: sicuramente ne beneficeranno le prestazioni.

Da qui l’importanza di considerare l’uomo come il perno attorno al quale far girare gli oggetti di design.

È la nostra filosofia e si sostanzia in una prima fondamentale domanda: cosa possiamo fare per migliorare l’ambiente nel quale viviamo e lavoriamo? Si tratta di una vera e propria missione che poi si allarga in una dimensione più ampia attraverso una catena di trasmissione di valori che dalla realtà interna ad Arper si trasmettono ai collaboratori, alle loro famiglie, ai clienti e agli acquirenti finali.

Il vostro è un mercato globale con gusti e tradizioni diverse. Come individuate il prodotto più adatto a ciascuna realtà? 

Attraverso un progetto di sintesi. E in questo il design è uno strumento eccezionale. Nella sua accezione più alta, è riconosciuto in tutte le parti del mondo. Parla una lingua universale.

È come un filo rosso che unisce i continenti.

Siamo partiti dal design scandinavo, poi abbiamo aggiunto la “temperatura” dei colori mediterranei, con i rossi e i gialli, e la pulizia del segno giapponese, votata all’essenzialità. Il design proposto da Arper è di tipo inclusivo.

Lievore, Altherr, Molina

Quali sono i vostri designer di riferimento?

Lo studio di Alberto Lievore a Barcellona. (Lievore Altherr, precedentemente Lievore, Altherr, Molina, dal nome dei designer, ndr). Lavoriamo assieme da vent’anni e ci ha aiutati a individuare e creare la nostra identità. Con lui abbiamo dato vita a una filosofia di consistenza e coerenza. Per noi sviluppa circa il 70% del lavoro. Poi, ci siamo rivolti anche a designer giapponesi, francesi, nordici e inglesi. Collaborazioni mirate e durevoli come le nostre linee.

Puntiamo alla qualità non alla quantità. E alla sintesi del buon prodotto, come non mi stancherò mai di dire. Tutto ciò richiede molto tempo e uno sforzo non da poco. Il prodotto, per farsi portatore di valori, deve prima attraversare e vivere la propria storia.

Una storia che passa attraverso la ricerca, la formazione, la cultura in senso più ampio.

Produttori e designer hanno esigenze diverse e complementari. Serve conoscenza dei materiali, dei colori, delle forme. Serve incuriosire, intrattenere e contribuire e formare il cliente.

Serve il “mettere insieme”?

È fondamentale. Non a caso “Together” è anche il titolo dell’iniziativa che è nata attorno alla figura straordinaria di Lina Bo Bardi. Un’idea stimolata dall’esigenza di offrire al mercato un tema culturale di rilievo e dal desiderio di restituire alla collettività parte dei risultati del nostro lavoro.

Può darci qualche dettaglio in più?

Lina Bo Bardi (1914 – 1992) era una designer italo-brasiliana che abbracciava la nostra stessa filosofia: progettava mettendo l’uomo al centro. Non era l’archistar moderna che crea per sé o, al massimo, per il committente. Lei pensava alle necessità della persona. Era una figura ancora poco conosciuta e ci piaceva l’idea di farla apprezzare fuori dal Brasile (dove era emigrata nel ‘46, a seguito del marito, Pietro Bardi, per ragioni politiche). Fondamentale la collaborazione con l’Istituto a lei intitolato con sede a San Paolo: ci ha supportato con materiali per la mostra – che abbiamo allestito e fatto girare nel mondo per quattro anni,  in musei o in collaborazione con associazioni di architettura e design, nelle principali capitali del design: Milano, Londra, Vienna, Amsterdam, Chicago per citarne alcune.

Grazie a una proficua collaborazione con l’Istituto  abbiamo realizzato un progetto che la designer non era riuscita a produrre per problemi di costi e tecnologia.

È così che è nata la “Bowl Chair”, una sedia con una seduta estremamente avvolgente e innovativa per gli anni in cui fu disegnata.

Scocca e gambe sono componenti indipendenti e questo consente di posizionare la seduta in modi diversi, scegliendo la più confortevole. I proventi derivati dalla vendita dei cinquecento esemplari prodotti in serie limitata e numerata sono andati a supportare le attività svolte dall’”Instituto Lina Bo e Pietro Bardi”. In qualche modo abbiamo dato seguito al suo operato sostenendo economicamente i laboratori che lei stessa organizzava per persone comuni desiderose di accrescere la propria autostima attraverso la realizzazione di oggetti.

Bowl Chair

Cosa ha rappresentato per l’azienda il progetto “Together”?

Ha contribuito a rafforzare un’identità aziendale e a condividere il sistema valoriale. Nei quattro anni di durata, ci siamo sentiti tutti coinvolti: chi visitando la mostra nella sua tappa a Treviso, chi realizzando fisicamente la “Bowl chair”.

Non essendo un prodotto industrializzato, tutti i cinquecento pezzi sono stati realizzati a mano.

Il sostegno all’arte e alla cultura non si è fermato.

Nel 2016 abbiamo sponsorizzato il padiglione Italia alla Biennale di architettura. Nello stesso anno è anche iniziata una collaborazione triennale con il museo Guggenheim di Venezia attraverso il progetto “Intrapresae”. Ci è parso un progetto significativo di dialogo tra imprese che condividono la volontà di supportare arte e cultura. Abbiamo anche una dimensione più locale: a Monastier sosteniamo i concerti in abbazia a luglio.

Anche la letteratura, ovviamente, ci sta a cuore. E il Premio Comisso ne è un esempio.

Claudio Feltrin
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