Canova e Napoleone: la solitudine dei grandi

Un romanzo che evoca il processo creativo canoviano: la parola, sempre calibrata, si fa prima disegno, poi bozzetto in terracotta e infine scultura marmorea.

“L’ultima notte di Antonio Canova” di Gabriele Dadati  per Baldini&Castoldi è una narrazione appassionata e appassionante nella quale i personaggi disvelano lentamente una tridimensionalità esaltata da un sensibile uso della luce e delle ombre, tanto caro al maestro del Neoclassicismo. Sono le ultime ore di vita dell’artista e un segreto lo affligge: quello delle notti in cui, nel 1810, la sua vita si intrecciò a quella di Napoleone e di Maria Luisa d’Austria.

Un peso che in punto di morte confida a Giambattista Sartori, premuroso confessore e amatissimo fratellastro.

Antonio Canova e Napoleone Bonaparte: come ha gestito l’equilibrio tra verità storica e finzione letteraria per questi due uomini monumenti dell’arte e della storia?

In maniera topografica. Nel senso che l’invenzione romanzesca trova luogo nelle private stanze, anzi privatissime, mentre quello che succede a livello pubblico è – per quanto possibile – afferente alla verità storica. Si potrebbe dire anche così: ho preso un certo numero di eventi che coinvolgono Antonio Canova, Napoleone Bonaparte, la sua seconda moglie, Maria Luisa d’Austria, e alcune altre figure, e ho costruito delle connessioni tra quegli eventi. Connessioni che nei libri di storia non si trovano, ma che sono compatibili.

È un po’ come fa chi compie un’investigazione e cerca di attribuire significato a elementi apparentemente slegati raccontando una storia ipotetica che li ricomprenda.

Nel romanzo hanno un ruolo determinante altre due figure storiche: Maria Luisa, seconda moglie di Bonaparte, e Giambattista Sartori, fratellastro di Canova. Rispettivamente servitori del potere temporale e di quello divino. Cosa li unisce e cosa li allontana?

Maria Luisa è una figura molto controversa. Le dobbiamo riconoscere forza d’animo per come poco più che diciottenne, trovandosi sposata a un uomo che era sempre stato il nemico da odiare e sola in Francia, assunse il ruolo non facile che era stato di Giuseppina. Le dobbiamo riconoscere anche una certa attitudine alle arti, una volta arrivata a Parma.

Ma ugualmente la sua tempra ha il contrappasso in una sprezzatura quasi da anaffettiva per come di fatto non si occupa del figlio avuto da Napoleone né mostra coinvolgimento nei rapporti umani in genere. Dall’altra parte Sartori, il fratello di Canova che sarà vescovo di Mindo, fu un uomo molto addentro alle dinamiche vaticane: seppe trovare il suo equilibrio tra carriera in proprio e sostegno affettuoso a un artista così importante.

Proprio in questo, forse, i due si somigliano: capaci di stare a fianco, a modo loro, a due grandi, trovarono lo stesso la loro strada e l’affermazione personale.

Cosa li allontana? Sartori era amato nel privato, da vicino; Maria Luisa – dopo l’approdo a Parma – dai cittadini, ma da distante.

Una scena molto forte del romanzo, dal punto di vista simbolico, è il matrimonio per procura.

Da un punto di vista storico, il matrimonio avvenne come lo racconto: si costruirono tre ambienti a Braunau – uno per la Francia, uno per l’Austria e quello centrale deputato a rappresentare il luogo di “trasformazione”, detto “Terra di Nessuno” – e si accolsero le due corti. Maria Luisa avanzò, si sposò per procura con Berthier che interpretava Napoleone e quando si girò alle sue spalle non c’era più nessuno. Non aveva più una corte. O meglio: non aveva più una corte austriaca, i cui membri si erano dovuti allontanare in silenzio e andarsene, e a quel punto la sua corte era quella francese. Ne era imperatrice e prigioniera insieme. Il simbolismo è doppio: quello cerimoniale, voluto dall’ordinamento francese nel 1810. E quello che io automaticamente attribuisco con il fatto di ri-raccontare l’episodio.

Lì Maria Luisa inizia una sua trasformazione. Che richiede un assoluto bagno nella solitudine.

La solitudine come condizione dei protagonisti. Quanto è funzionale e quanto conseguenza della loro missione?

Molti dei protagonisti del romanzo – non solo Canova e Napoleone – sono quel che diremmo dei “grandi della storia”. Immagino che questo e la solitudine siano due cose che si parlano.

Nel libro Napoleone dice più volte di essere il primo e più umile servitore di Francia. Ecco: io credo che la grandezza, ammesso che arrivi, sia l’esito estremo del mettersi a servizio (di una certa idea, di una pratica artistica, di una determinata opportunità ecc.).

Il mettersi a servizio, la dedizione, si fa massimamente nella solitudine. Almeno così mi sembra.

Canova nel 1810 è a corte per ritrarre Maria Luisa. Come aveva fatto con tanti membri della famiglia dell’Imperatore.

E come in altri casi, anche Maria Luisa assume una valenza mitica: in questo caso è la dea Concordia, visto che il matrimonio con Napoleone avrebbe dovuto pacificare il fronte tra Francia e Austria.

Lui stesso era divenuto Marte nella statua che si trova oggi a Brera e sua sorella Paolina è la sensualissima Venere vincitrice che stringe in mano la mela a Galleria Borghese.

Tra Napoleone e Canova c’è una tensione continua. Il primo pronto a sradicare dalla propria terra il secondo. Un legame che Canova non recise mai.

Canova aveva già scelto la sua patria approdando a Roma – una volta completata la sua formazione a Venezia – e lì allestendo uno studio molto attivo, con aiutanti scelti e complici del suo percorso, e ancor più stringendo legami amicali che gli furono sempre molto cari. Napoleone l’avrebbe voluto presso di sé in Francia: dal suo punto di vista Roma era il passato, al più una città periferica, mentre il futuro era Parigi capitale dell’Impero e quindi anche dell’arte occidentale. Avrebbe posto Canova ai vertici di quello che oggi chiameremmo il diniego dello scultore. Il che non era scontato: si pensi al trattamento riservato a Pio VII…

Canova non ebbe figli, ma la sua “discendenza” è custodita nei migliori musei del mondo.

È per certi versi il cuore del libro. Immagino che – sulla scorta delle Metamorfosi di Ovidio, che si faceva leggere al pari degli altri classici mentre lavorava dal fratello, da Melchiorre Missirini e da altri ancora – Canova potesse vedersi come un moderno Deucalione, che dalla pietra trae creature viventi. E così consolarsi di una mancata discendenza di carne.

Nell’immaginario comune la notte cela misteri, nel romanzo li svela gradatamente. È la mano di uno scultore che porta alla luce la forma custodita nel marmo?

Non l’avevo mai pensata così, ma mi sembra un’ottima intuizione.

Del resto anche Michelangelo, in alcune occasioni, lavorava la notte, perché la luce radente delle candele gli rivelasse verità sulla materia che la piena luce, paradossalmente, avrebbe reso non intellegibili. Sì, mi piace molto questa chiave di lettura.

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