Giovanni Comisso - Canova nel suo paese natale

Canova nel suo paese natale

Alla base del Grappa, a Possagno, là dove incomincia la mulattiera che porta a Punta Musciè, poco distante da dove tra gli alti boschi di castagni partivano le teleferiche per la montagna della guerra, si alza classico nelle sue linee un tempio che è chiesa parrocchia e sepolcro di Antonio Canova.
Da Punta Musciè, durante la guerra, ci si curava appena di questa specie di Pantheon accanto al quale qualche volta arrivavano le granate nemiche che cercavano di colpire i nostri grossi calibri. Poco prima dell’ultima battaglia S. M. il Re era salito lassù con un muletto, di mattina prestissimo, e i soldati siciliani della territoriale che lavoravano sull’erta della strada si inginocchiavano al suo passaggio, dicendo: «Sa benedica». Per queste strade salirono per l’ultimo assalto quasi a passo di corsa i soldati della Brigata Como, cantando : «Cento basille damme, cento basille a me». E tra questi boschi di castagni venivano deposti all’ombra delle fronde gli ultimi feriti che nella dolcezza della tranquilla natura si assopivano sereni. E gli arditi, prima di farsi trucidare sul Pertica, passarono di qui tra questi paesi, svegliando col sole, col loro canto e col loro passo sonante le famiglie ancora dormienti. «E noi faremo scuola di pugnale – a Cividale. – Uno, due» : cantavano.
Ora tutto è ritornato alla sua pace. Attorno al tempio i collegiali sciamano presi per mano dalle loro madri che sono venute a trovarli, giù in paese i garzoni portano nelle ceste il pane crepitante appena uscito dal forno. Il più delizioso pane del mondo! E nelle osterie, colle cucine odorose di vivande, risuonano i colpi dati nel giuocare alle carte.

Gipsoteca Museo Canoviano – Possagno, Treviso (Wikimedia Commons)

Nella casa che fu di Canova sono raccolti i gessi della maggior parte delle sue opere, e anche molti bozzetti in creta. All’ingresso stanno due enormi piedi che egli si era fatto portare quassù da Roma, due piedi di due statue gigantesche, posati su basamenti che portano incrostati altri pezzi di scavo. E subito si comprese in essi il simbolo di quello che fu l’errore di Canova. Semplice montanaro, dotato di una potenza grandissima, venuto a vivere a Roma, nella Roma dell’Apollo del Belvedere, del Laocoonte, delle Veneri illustri dissepolte, egli fu sbalordito soggiogato, indotto a starsene umile e rispettoso, sempre come un giovane discepolo davanti al maestro. Il temperamento prevalse sul genio; l’aria del piccolo paese gli aveva dato un’anima modesta. Nel vedere le sue opere qui quasi tutte riunite nei gessi, la sua debolezza risalta fortissima. Non vi è una statua che non denunci l’ispirazione dalla scultura che era stata dissepolta in Roma. Persino se ha da ritrarre Cimarosa, ecco che sente il bisogno di farlo a dorso nudo, grasso e mammelluto come un busto di Vitellio. Qui una Grazia dormiente ricorda l’Ermafrodito, là l’ignudo Napoleone un altro ignudo imperatore, e giù giù tutte le altre figure, siano d’uomo o di donna, più che gessi di nuove sculture sembrano copie in gesso delle antiche arcinote. Tuttavia se li suo temperamento provinciale lo ha tradito di fronte alla solennità degli antichi, quel fondo di sanezza e di onestà che è naturale in chi viene umilmente dalla montagna alla città, ha potuto concedergli di creare con armonia, senza arrivare alla banalità della retorica. Mentre compiva l’errore, poteva tuttavia frenarsi e trattenersi nei limiti d’una grazia finissima.

Antonio Canova – Orfeo ed Euridice (Wikimedia Commons)

Ma chi ha visto le due statue giovanili di Canova, Euridice e Orfeo, create tra i sedici e i diciannove anni, nella seconda metà del Settecento, quando egli non era ancora stato a Roma, ed era soltanto figlio di questi mitici colli ombrosi di castagni o rosei di meli in fiore, può gridare dalla meraviglia e chiedersi cosa egli avrebbe fatto se non fosse stato spaventato e impietrito dalla scultura . antica accumulata in Roma. Sono queste due statue nella vecchia villa Falier ai Pradazzi, non molto lontano da Asolo. Qui da giovanetto egli era d’aiuto al nonno Pasino Canova che lavorava nella villa come capomastro e giardiniere. Un giorno vi era un grande pranzo di nobili veneziani ospiti di Zuane Falier, e Canova d’accordo col cuoco preparò un leone di San Marco di burro. Portato in tavola tutti ne rimasero stupiti, vollero conoscere l’autore e l’applaudirono. Zuane Falier lo prese sotto alla sua protezione e lo mise a lavorare prima nella bottega dello scultore Giuseppe Bernardi e poi lo mandò a studiare a Venezia.

Le due prime statue che fece furono per il patrizio protettore. Su una di queste due statue, sull’Orfeo, Zuane Falier che doveva essere un acutissimo intelletto, scrisse a lapis: «Ecce Canova,», convinto pure lui che quella sua scultura giovanile fosse superiore alla seguente. Orfeo è colto nell’attimo di rivoltarsi a guardare la sua Euridice per l’ultima volta: piena di movimento, questa scultura non si raffredda nella forma, ma si muove bellissima dalle dita dei piedi alle punte dei capelli; ed Euridice tutta ebbrezza per ritornare alla vita è rappresentata nel momento che le svanisce la speranza. Persiste la sua gioia mentre sopraggiunge il dolore. Formosa e stupenda, la modella era una serva che gli fu lasciata posare nuda, solo in presenza di testimoni e dietro intervento, presso il rigidissimo nonno, del molto umano arciprete locale.

Nell’uno e nell’altra, Canova è tutto fantasia, poesia, meraviglia di fronte a tanta bellezza di creature senza nessun ostacolo di preconcetta cultura. Egli era una vera grazia di Dio, e creava con lo stesso estro della natura. Di fronte a quello che è già avvenuto, vana cosa è chiedersi cosa avrebbe fatto se non fosse stato a Roma e se non avesse subito per la modestia del suo temperamento l’influsso congelante del gusto del tempo che in parte determinato da Winckelmann, si sforzava, fuori stagione, di rinnovare un Rinascimento, riscoprendo per la seconda volta la scultura antica. Indubbiamente da queste statue si può dire che Canova nella scultura europea avrebbe preso il posto di Houdon e di Rodin, affrettandone lo sviluppo.

Antonio Canova – Dirce (Wikimedia Commons)

Nella raccolta dei Gessi, mentre si attende che venga presto riordinata ed esposta anche la raccolta dei disegni, vi è una sala dove sono state messe le opere rovinate dalla guerra. Questo museo è stato colpito da granate in più punti. Alcune statue sono state danneggiate dai proiettili, ma altre purtroppo dalla voracità di sconosciuti. Una Naiade ha il fianco sventrato, a Dirce e a Paolina Borghese è stata mozzata la testa, e queste mutilazioni, con acerba ironia, su questa scultura rifatta sugli schemi dell’antica, finiscono col rilevarne ancora più la derivazione col favore delle stesse condizioni di quella, pure mutilata da barbari saccheggiatori.

Come tutti gli uomini discesi dalla montagna, anche Canova volle ritornare ad essa, come a sua madre; e costruito il tempio sulla prima pendice del Grappa, qui volle essere sepolto. Questo suo ritorno al suo piccolo paese natale dopo essere vissuto al servizio di Papi, di cardinali e di Napoleone, è tanto in armonia col suo semplice temperamento, ed è tanto significativo. Molto probabilmente sul declino della vita gli si sarà rivelato il suo errore, e abbandonando la città che lo aveva stregato, avrà ricercato in questa terra boscosa di castagni il primo impulso, quello che aveva fatto scaturire dalle mani adolescenti Orfeo ed Euridice. Ma nella vita non è concesso di nascere due volte.

Giovanni Comisso

Pubblicato su “La Gazzetta del Popolo” del 19/06/1937.

Tutte le immagini: fonte Wikimedia Commons.

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