Comisso e i danni di guerra

Comisso e i danni di guerra

I miei amici ridono dei miei danni di guerra. Dicono che vi ò scritto sopra tanti articoli da rifarmi a oltranza dei danni subiti. Io invece sostengo che se avessi tempo potrei di certo scrivere sopra un racconto lunghissimo, un racconto fiume, di quei racconti insomma che non finiscono mai e dei quali non è mai prevedibile la conclusione, cioè il giorno in cui dovrei incassare la poca somma che mi spetta. Di recente ero arrivato al punto in cui superata una interpretazione di diritto, sembrava che si fosse arrivati al fatto del pagamento, quando dall’ufficio competente di Roma si volle sapere se una mia parente, partecipe al risarcimento, il cui nome nell’atto di nascita risultava: Claudina e in altri successivi: Claudia, fosse sempre la stessa persona. Dovetti spiegare che appena nata la chiamarono Claudina e in seguito, crescendo, venne chiamata Claudia. Superato questo dubbio, si volle sapere se l’immobile distrutto, la mia cara e preziosa casa paterna, era stato sgravato dalle imposte. Questa richiesta avrebbero potuto farla fino dall’inizio, cioè dieci anni addietro, ma come in uno spettacolo di fuochi artificiali, venne fuori improvvisa: razzo inaspettato quando già tutti gli altri erano stati sparati. Un mio amico nel frattempo era stato elevato a un posto di grandissima importanza in un certo ministero della Repubblica. Scrissi a lui per vedere se poteva sollecitare la chiusura della mia pratica. Egli mi rispose, in una bella carta da lettere impressa dell’azzurro stemma della Repubblica col nome del ministero, che sollecitassi l’Intendenza di Finanza della mia città a dare la risposta alla richiesta di Roma e dopo sarebbe giunto il pagamento.

Andai all’Intendenza ed entrai nell’ufficio relativo tenendo distrattamente in mano la lettera del mio amico con lo stemma della Repubblica e con la dizione: Capo di Gabinetto del Ministro eccetera eccetera. Appena davanti al direttore dell’ufficio, questi con estrema gentilezza si scusò di non avermi subito riconosciuto, mi fece sedere in una comoda poltrona ed esposta la mia richiesta telefonò in diversi uffici, infine fece venire un impiegato, il quale nell’entrare la prima cosa che vide fu la carta da lettera del ministero, che tenevo sempre distrattamente fra le mani. Mi accorsi che questo impiegato tremava e balbettava come uno scolaretto all’esame, forse credendo che la lettera ministeriale lo riguardasse, infine spiegato cosa desideravo mi venne promesso immediatamente il documento da spedire a Roma. Stabilii di andarlo a ritirare il giorno dopo per spedirlo io stesso. Il giorno dopo ritornai all’Intendenza dimenticando di portarmi la lettera miracolosa.

Adesso siccome la storia à sempre delle varianti si potrebbe raccontare che non tenendo più distrattamente in mano la lettera con lo stemma della Repubblica, gli impiegati ai quali mi ero rivolto per chiedere il mio documento, parve non mi avessero mai visto prima e tutto fosse ripiombato in alto mare. L’altra variante invece fu questa.

Andato nell’ufficio che doveva avere già preparato il documento chiesi dell’impiegato incaricato, quegli che aveva tremato come uno scolaretto all’esame. Il direttore del suo ufficio mi disse tranquillamente che non vi era e che avrei dovuto ritornare entro mezz’ora, perché quello era il momento cruciale del caffè, a cui tutti gli impiegati avevano diritto per la costrizione pesante delle pratiche. Rimasi un poco male, questa mezz’ora di attesa era proprio quella che mancava per allungare ancora di oltre dieci anni il tempo impiegato nello svolgimento della mia pratica. Il direttore vedendomi contrariato volle sapere quale era la mia pratica e il nome delia ditta. Dissi subito il mio nome. Allora mi chiese se ero parente dello scrittore, soggiunsi modestamente che ero io in persona. Più ancora che la lettera con lo stemma della Repubblica e la dizione Capo Gabinetto del Ministro eccetera eccetera, il mio nome fece alzare in piedi quel direttore dicendosi felice di potermi stringere la mano. Tutti gli altri impiegati sembravano strabiliati dalla mia presenza e mi guardavano come una bestia rara. Il direttore non sapeva quale titolo darmi, se professore, maestro o scrittore nazionale e si rivolse a un distinto signore, seduto al suo tavolo e rimasto allibito non riuscendo a capire cosa era avvenuto con la mia presenza e gli gridò che io ero eccetera eccetera. Questo signore si alzò, appoggiandosi al bastone di ebano con il manico d’argento, per stringermi la mano. Il direttore mi disse che era un generale, ne aveva infatti tutta la taglia ed era piemontese. Questi mi fece capire che era sordo, aveva inteso ancora il mio nome, ma non aveva mai potuto leggere nulla di mio, perché vedeva poco. L’altro continuava a elencare i miei meriti, intanto uno degli impiegati, che forse aveva già bevuto il suo caffè di obbligo, trovato il documento venne a portarmelo.

Foto di TravelingTart da Pexels

Quando scesi al traghetto vidi subito un uomo trasandato che mi guardò come per farsi riconoscere e nello stesso tempo sembrava mi volesse chiedere l’elemosina. Lo riconobbi subito, era l’uomo che durante la guerra procurava a De Pisis e al suo fantastico segretario e barone tutto quanto si poteva avere a borsa nera, compreso le sigarette americane e il tè. Volli sapere di lui: la tisi lo tarlava, avrebbe potuto andare in un sanatorio o in una casa di ricovero ma non vi voleva andare perché era imminente la stagione dei forestieri a Venezia e in qualche modo con un servizio o con un altro, sostando ai traghetti, ai pontili dei vaporetti, alle piazze o ai crocicchi, a Venezia, vi è sempre qualcosa da guadagnare anche soltanto per indicare la strada a quelli che vengono dal di fuori. Mi chiese notizie del segretario barone, il signor Edy.

Quel titolo di barone glielo aveva dato De Pisis, ma a Venezia non attaccava, a Venezia sono tutti conti o gondolieri e le vie di mezzo o di sopra non servono o non si accettano. Il signor Edy aveva sempre avuto qualcosa di predestinato verso lo strabiliante e l’eccezionale. Ogni giorno pure con quei terribili anni di guerra oppure si dovrebbe dire: col favore di quegli anni egli aveva sempre grandi sorprese, grandi avventure, grandi incidenti. Sembrava fosse una calamita potente e che si attirasse quei fatti che non possono capitare a tutti. Ovvero sembrava che egli stesso andasse proprio a cercarli, spinto da uno spirito diabolico, ma sempre ne usciva trionfante. Era un grande nocchiero, da ligure quale era amava i mari tempestosi e sapeva vincerli. Sopportabilissimo, anzi desideratissimo sempre, in tutte le occasioni in cui non avesse bevuto troppo, quando era ubriaco risultava invece insopportabile per il temperamento violento e aggressivo che veniva a emergere in lui contemporaneamente al suo aspro dialetto ligure a cui interponeva le più terribili offese genovesi. Raccontai al suo servitore ancora sopravvivente miserabile e ammalato, la tremenda fine del signor Edy.

Era andato nell’America del Sud e favorito dalla sua conoscenza di molte lingue, dirigeva un grande ristorante in una città di mare. Una notte girando per le taverne del porto, come faceva a Venezia nelle osterie dei quartieri popolari, attaccò lite con un mulatto. Solo appena ubriaco, doveva avergli detto offese fra le più irritanti per un sangue misto, fino a farlo scattare nei suoi pugni. Vennero messi di fuori sulla strada e continuarono a colpirsi, sopraggiunse la polizia, una polizia sud-americana, e arrestati entrambi li portarono in prigione e rinchiudendoli in fretta nella stessa cella perché finissero la colluttazione, isolati, fino all’ultimo fiato. E questo fu per il signor Edy, che non potendo più resistere ai pugni del mulatto si accasciò a terra e morì.

Il suo servitore che mi aveva accompagnato strascicando il passo fino al Ponte di Rialto non si era meravigliato a quanto gli avevo raccontato, egli viveva in continua colluttazione con la vita, a pugni giornalieri con la fame e con la malattia e la sua sorte finale non sarebbe stata lontana e diversa da quella del suo padrone. Mi guardò languido con occhi da cane, sembrava dovesse dargli fatica fare il primo gradino del ponte e sulla mano tesa a metà gli posi del denaro perché ritornasse al traghetto a seguire il giro della sua giornata. Io invece nel fare quei gradini del ponte pensavo all’ostinazione di Edy a proseguire nella lotta con uno più forte di lui, credendo di avere dalla sua parte lo spirito diabolico che sempre lo aveva sostenuto nelle sue avventure.

Giovanni Comisso

Pubblicato a pag. 9 de “Il Mondo” del giorno 12 Giugno 1962
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale

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