Comisso presenta il giovane Parise

Sono lieto di presentare un nuovo scrittore, non solo per sdebitarmi verso il destino, che, anni addietro, fu generoso verso di me dandomi Pietro Pancrazi e Titta Rosa come miei primi presentatori, ma anche, perché sento che questo atto, che rientra nella felice iniziativa di S. Pellegrino, contribuisce alla formazione di quella società letteraria, tanto necessaria alla nostra esistenza di scrittori.

Ogni apparizione di un nuovo scrittore o di una nuova opera di chi già ha rinomanza, devono essere salutati con gioia da noi scrittori, come preziose pietre portate a consistente difesa dell’arte, in questa epoca, in cui troppo spesso sembra dover naufragare nel vuoto mentale. E se non apparissero, sarebbe come per i campioni sportivi, non avere altri campioni con i quali competere in gara.

Il nuovo scrittore che presento è Goffredo Parise, di venticinque anni, da Vicenza, autore di due libri: Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza editi da Neri Pozza e di un terzo: Il prete bello, uscito di recente da Garzanti.

Secondo il mio convincimento, Goffredo Parise, appartiene alla grande tradizione della narrativa veneta che dai primi diaristi e dagli ambasciatori di Venezia scende a Gasparo Gozzi a Carlo Goldoni e a Casanova, fino a Ugo Foscolo, a Ippolito Nievo e a Fogazzaro.

Noi veneti forse per lontana discendenza dal sangue greco o per contrasto alla pacata apparenza del paesaggio della nostra terra, siamo fortemente portati alla testimonianza e alla chiacchiera.

Chiacchiera che, raffinata nelle relazioni degli ambasciatori davanti al Senato, al ritorno dalle loro ambascerie, o nelle conversazioni nei salotti patrizi del Settecento, si tramutò, nel secolo scorso, seguendo la moda del romanzo europeo, in narrativa romanzesca.

Non è una tradizione che in questi ultimi anni abbia dato segno di spegnersi, ma anzi di accrescersi con nuovi contributi, come quello importantissimo di Guido Piovene, dalla stessa terra di Fogazzaro, e di altri come Quarantotti Gambini, Elio Bartolini, da quella di Nievo, e Giuseppe Berto.

Il mio incontro con Goffredo Parise, avvenne con la precisa coincidenza di una fatalità che testimonia la piccolezza del mondo e l’obbligo dei percorsi. Di questo giovane scrittore, posso dire che per me era: l’atteso.

Ai primi di giugno mi trovavo a Milano da Garzanti, quando mi telefonò quel nobilissimo e veritiero critico e amico, che è Giuseppe Ravegnani, annunciandomi questo convegno e chiedendomi quale scrittore avrei voluto presentare.

Non sono un attento lettore di letteratura contemporanea e molti libri vengono editi senza che abbia avuto il tempo di leggerli.

D’altra parte non esercito la funzione di critico e anche tutte le osservazioni che in questa presentazione vado facendo, devono essere prese con le molle. Mentre parlavo con Ravegnani, vidi sul tavolo il libro di Parise e toccandolo chiesi chi fosse questo autore e come fosse il libro. Pietro Bianchi mi suggerì subito di presentarlo tanto più perché narrava una vita veneta come è cara a me.

A occhi chiusi mi impegnai con Ravegnani su questo nome e mi feci dare il libro che avrei letto nell’ andare a Torino e nel ritornare verso il Veneto. Per tre giorni questo libro: Il prete bello, fu il mio caro compagno nello squallore ossessionante di Torino e durante il noioso viaggio di ritorno.

Arrivato all’ultima pagina, a qualche chilometro da Vicenza, non potei trattenermi dal decidere di scendere e sostare in questa città dove il romanzo si svolge.

Girai per le strade incantevoli di una Vicenza domenicale tenendo in mano il libro dalla copertina rossa, come un Baedecker, ma non lo sfogliavo per guida, perché già conoscevo in quella città le tracce e gli ambienti del romanzo. Avevo io pure conosciuto una banda di ragazzi come quella di Cena e di Sergio, subito dopo l’otto settembre, che viveva romanticamente di furti e di sabotaggio contro i tedeschi.

Avevo conosciuto in altri soggiorni donne mistiche e sensuali eminentemente vicentine, già rappresentate nella narrativa di Fogazzaro e di Piovene e considerate ora da Parise con nuova freschezza.

Mi erano noti quei cortili interni a povere e cadenti case innestate a qualche antico palazzo nobiliare. Girando non facevo che controllare i miei ricordi e la realtà delle cose, con la fedeltà rappresentativa di Parise.

Giunsi al punto di vedere sotto al portico della Basilica un ragazzo decenne poveramente vestito, camminare su grosse scarpe che non erano state comperate per lui e di chiamarlo a voce forte col nome di Sergio e quegli si volse, ma proseguì nell’ombra.

E al ponte degli Angeli, alla luce radente del tramonto, vidi sbucare da una strada altri due ragazzi equilibrati sulla stessa bicicletta lucente, che se n’andavano felici come Cena e come Sergio, quando l’ebbero in dono.

In un’ altra strada, incontrata una di quelle signore, che descrive Parise, ricoperte di merletti, di ori e di profumo cattolico, non mancai di salutarla rispettosamente, come fosse la ricca Immacolata del romanzo ed ella corrispose lusingata.

Non è da invocare il vecchio aforisma: la vita imita l’arte, ma è che la realtà della vita di questo paese è stata colta da Parise nelle sue forze essenziali.

È una realtà profondamente drammatica in continua rotazione per invocare sempre nuovi scrittori e nuove opere nutrite da questo clima.

Alla conclusione del mio soggiorno a Vicenza, come se si fossero aggiunte altre pagine al libro di Parise, ho chiesto di una mia amica che abitava in un cortile, simile a quello che è palcoscenico della vicenda del romanzo, con ballatoi e molte porte ognuna delle quali metteva a tristi abitazioni di due camere e mi venne risposto che si teneva chiusa in una stanza e che le passavano il mangiare come una reclusa, tramutata a trentanni, dopo una vita ebbra, in maniaca di solitudine.

Non riepilogo questi romanzi, bisogna leggerli.

I primi due: Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza, sono opere preparatorie del recente: Il prete bello, che risulta già libero da scorie. Citerò soltanto da quest’ultimo libro alcuni saggi che dimostrano la robustezza palladiana delle fondamenta.

Ecco un ritratto di donna che sembra comunicare per certe segrete vie della stirpe veneta a uno di quei penetranti ritratti del Grigoletti:

“La signorina Immacolata era una donnetta con minuscoli occhi che si toccavano e il naso adunco; molto elegante, portava strani cappelli con piume e un occhiolino d’oro cesellato pendeva languidamente dalle sue dita: assicurato con cinque o sei giri di catenella attorno al collo, saltellava come un canarino sulle dita coperte di velo nero”.

Ecco, la presentazione di un ambiente, l’abitazione di una rammendatrice:

“Entrai. Le camere sapevano il suo odore, un misto di odore di sartoria, di ovatta e lo conosce soltanto chi ha frequentato sarti zoppi, a buon mercato: un odore secco e arido, come le dita dei sarti, lucide, nerastre, consunte a furia di palpare stoffe e infilare aghi con cotone da imbastire”.

Ed ecco un’inquadratura caravaggesca:

“Aggirai la catasta di legna con circospezione: Cena era là che dormiva come un tasso, tutt’uno con il grosso sacco dietro di sè. Si era costruito un piccolo muro di ceppi che copriva una specie di minuscola caverna arborea nella quale si era nascosto. Lo svegliai delicatamente, quasi con carezze e pronto a impedirgli qualsiasi movimento. Lentamente trasportammo il sacco dietro il portone e dopo il tramonto scivolammo via con il sacco fino alla casa di Cena, dove fecero gran festa e cominciarono a gettare ceppi sul fuoco uno dietro all’altro. Cena a un certo punto si levò il maglione alla gioia di quel calore e rimase seminudo e con le bretelle penzoloni davanti alle fiamme”.

E si ascolti questo periodo abilissimo nelle saldature che descrive il prete don Gabriele mentre va a confessare:

“Giunto al confessionale, con la mano ancora sollevata a mezzo nell’aria e le guance punteggiate da due fossette d’amore e di simpatia per il prossimo, diede un colpo alla porticina, senza curarsi delle tende e, ancora salutando, ma con un sorriso di soddisfazione, sparì al di là di esse come risucchiato, lasciandosi cadere pesantemente nel sedile in un ansito profondo”.

Anche quest’altro passo dimostra la schietta consistenza delle saldature narrative di Parise:

“La signorina Immacolata mi guardava con quegli occhi sorridenti che non le avevo mai visto da quando la conoscevo. Non sapevo che in essi c’era amore e fuoco; non me ne intendevo, ma c’era infatti qualche cosa di molto simile a quella luce che brillava negli occhi della mamma, quando guardava di nascosto certe fotografie di un uomo”.

Vorrei, per testimoniare l’appartenenza dell’ arte narrativa di Parise alla tradizione veneta, che si raffrontassero due episodi, quello di Carlino di Nievo quando si scontra con Napoleone e quello del piccolo Sergio di Parise, quando deve salire sull’automobile di Mussolini per abbracciarlo nel suo ingresso a Vicenza. Diverso il peso dei dittatori, ma uguale fra i due narratori la misuratezza dei rapporti e il giudizio storico emergente senza presumere di dimostrarlo.

Raffronto solo il finale degli episodi. Questo è di Parise:

“Subito dopo il Duce riprese a gesticolare con dei cenni di saluto e allora compresi veramente, del tutto, per la prima volta, che anch’egli non avrebbe potuto far niente, che anch’egli era come quei signori dei bar a Padova che ci davano l’elemosina, sorridenti, ben vestiti, ma senza ascoltare niente”.

(Sergio invece di abbracciarlo come gli avevano ordinato gli aveva chiesto che liberasse il suo amico Cena rinchiuso in un riformatorio, come Carlino di Nievo aveva chiesto a Napoleone che venisse fatta giustizia contro i soldati francesi che avevano assassinato la vecchia Badoera). Ed ecco il finale dell’analogo episodio in Nievo.

“Quel cittadino Bonaparte mi pareva un po’ aspro, un po’ più sordo, un po’ anche senza cuore, ma lo scusai pensando che il suo mestiere lo voleva pel momento così”.

Se a Giuseppe Berto abbiamo perdonato il dialogare americano dei suoi personaggi, a Goffredo Parise perdoniamo il suo realismo con certe crudezze immonde lasciate scoperte, perché entrambi finiscono col darci una vicenda umana e sentimentale. Certo che tanto i ragazzi di Berto, quanto quelli di Parise non sono i ragazzi di De Amicis, ma ci commuovono assai ben oltre.

Questo libro contiene non una vicenda fantasticata tra personaggi col presupposto di renderli eminenti esemplari umani, i quali riuscirebbero falsi e statuari anche se Parise vi mettesse più arte di quella che è a sua disposizione. È una cronaca personale tra fatti ed esseri autentici, vivi e viventi ancora per le strade di Vicenza, bene indagati e bene testimoniati, con un tono corale che invece che a statue, fa pensare a un bassorilievo completo e seducente.

Ma per finire, voglio chiudere col finale di questo libro, quando viene descritta la morte del piccolo Cena, scappato dal riformatorio, maciullato nella fuga da un autocarro, amputato di una gamba e aggredito dalla cancrena:

“Nei suoi occhi a un certo momento apparve una Legnano da corsa, nuova e fiammante, guardava e pregava anche per avere una vita migliore in questo mondo e in mezzo agli uomini più grandi e più fortunati di lui, e proprio mentre stava passando in rassegna tutte queste cose sulla sua nuova bicicletta, questa si alzò, e Cena, rifiuto di riformatorio, ladro e miserabile a dodici anni, abbandonò con essa le strade di questa terra”.

Fu a questo punto della lettura che sentii vivo il desiderio di fermarmi a Vicenza e di calcare le strade di questa città che erano state di Cena e di Sergio, e allontanando il sospetto che questo finale fosse derivato da certe caduche invenzioni cinematografiche, mi convinsi che semmai poteva derivare con più connaturata sostanza dalla morte di TarasBulba di Gogol.

Ben venuto Goffredo Parise tra noi, puoi essere certo della tua arte e proseguire.

Giovanni Comisso

San Pellegrino Terme, 1954

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