Comisso risponde a Bassani

Giovanni Comisso ci dà questa intervista nel suo rifugio balneare di Bibione, alle foci del Tagliamento, una lunghissima spiaggia che è la propaggine ultima della provincia di Venezia. Il luogo produce invero più l’impressione di un Luna Park in piena attività che di un quieto sito di vacanza quale quello che ci si immagina per uno scrittore come Comisso. Non vi e traccia alcuna, nelle costruzioni nuovissime (bungalows in legno e mattoni a un solo piano e enormi alberghi-grattacielo) di riposanti soggiorni hulottiani. Tutto è automatico, lucente, cementato, le case altissime escono fuori dalle dune come immensi osservatori fortificati e quelle a un piano si intravvedono appena e quasi si scambiano per bunker mimetici.

Domanda: In una intervista concessa a « L’Espresso”, Bassani ha detto testualmente: « La scuola letteraria veneta che va da Fogazzaro a Parise attraverso Piovene, Barolini e Comisso, ha mostrato fino alla nausea la putredine psicologica e morale prodotta dalla controriforma in provincia, esibendo nel mostrare questo delirio, una sorta di compiacimento estetico e metastorico ». Che cosa pensi di queste critiche?

Risposta: Bassani si è comportato da vero untore nell’esprimere quello che non è un giudizio critico, ma un velenoso apprezzamento da corridoio su una schiera di scrittori, vivi e morti, che hanno lavorato e lavorano di coscienza. Lasciamo stare Fogazzaro, ma Piovene, Parise, Barolini ed io, abbiamo sempre lavorato con il presupposto che in arte c’ posto per tutti e che lavorando con coscienza si può onestamente ottenere la considerazione che ci si merita. Non siamo avidi e famelici come Bassani, che sempre ha cercato di arraffare in tutti i modi per ottenere rinomanza e successo. Personalmente considero Bassani un principiante che ha tutto da imparare e niente da insegnare a nessuno. Non ho mai avuto fiducia in una sua intelligenza critica, anche se mi si dice che Il Gattopardo è un suo merito, e nemmeno ho fiducia in lui come narratore (faticoso, stentato, che porta in scena non già dialoghi normali, ma conversazioni telefoniche).

D.: Secondo te Pasolini è religioso?

R.: Pasolini è certamente un poeta e un poeta porta sempre in sé un senso religioso.

D.: Vittorini ultimamente, a proposito di Gadda e del premio Formentor, ha parlato di letteratura venosa e di letteratura arteriosa. Cosa pensi di queste definizioni?

R.: lo vado per le cose semplici e non so cosa si intenda per letteratura arteriosa e venosa, ma tutto quello che Vittorini dice e fa mi ispira sempre grande fiducia e perciò sottoscrivo tranquillamente ogni sua affermazione. Vittorini mi è inoltre caro, perché so quanto mi ama fin da quando, studente al ginnasio di Siracusa, leggeva con Mezio le mie corrispondenze dalla Sicilia pubblicate sul Resto del Carlino.

D.: Per uno scrittore è importante il luogo dove vive, una citta di provincia, ad esempio, o invece una grande città?

R.: Lo scrittore quando è grande e vero è sensibile come un verme e per questo ha estrema importanza l’ambiente dove vive. Ne ho avuto la prova io stesso passando, dopo il mio lungo periodo di viaggi migratori, a un soggiorno di 25 anni in una casa di campagna.

D .: Vuoi parlarci della tua opera «La mia casa di campagna »?

R.: La mia Casa di campagna e il risultato di venticinque anni di vita sofferta in profondità. Ero proprietario di pochi ettari di terra che paragonavo in ampiezza alla PIace de la Concorde, ma soffrivo per essi come un vero contadino, sia al momento delle semine che a quello dei raccolti e quante volte ho provato più soddisfazione che per un premio letterario o per una critica favorevole quando, alla consegna dei bozzoli o del frumento, mi veniva attribuito il primato della qualità. I miei contadini erano per me esseri di prima importanza con i quali scambiavo ogni giorno il mio ragionare. Sono stato tanto profondamente avvinto da quella casa, da quella terra e da quegli esseri e persino dagli animali che ora, staccato oramai da 10 anni, sono ancora perseguitato dalle loro ombre e appunto qui, nel silenzio del mio soggiorno a Bibione, mi si è maturata l’idea di un racconto: Il bovaro della domenica. Farò l’elogio di quell’umile essere che nel pomeriggio della domenica si sacrifica a governare lastalla mentre gli altri vanno all’osteria, alle sagre alla città vicina, ardenti di speranze. Il bovaro della domenica non ha desideri, non ha speranze, non ha pensieri, ma è più felice degli altri, pure sacrificato.

D.: Sei d’accordo su un « allargamento dell’area degli scrittori» o invece pensi che quella dello scrittore debba necessariamente rimanere un’arte “sacerdotale” e una professione per iniziati?

R : L’arte dello scrivere diventa sempre più difficile perché, soprattutto in Italia uno scrittore deve avere sempre la preoccupazione di dare una lingua italiana, tormento che dura da secoli e che non è di facile soluzione. lo ho sempre presente questo problema perché ricordo gli insegnamenti di Leopardi e sdegno di conseguenza la prostituzione linguistica di alcuni nuovi scrittori. Se lo scrittore ha cose da dire che devono superare il tempo, questo superamento si potrà ottenere solo se la forma espressiva sarà curata al millimetro. Per concludere non penso affatto che si debba « chiudere» la professione di scrittore, ma che debbano scrivere soltanto coloro che considerano l’arte dello scrivere un rito.

D.: Che cosa pensi dello Strega in generale e di quello di quest’anno in particolare?

R.: Lo Strega è un premio molto serio e le opere premiate in tutti questi anni ne sono la prova. Il solo difetto di questo premio che subisce, in un certo senso, l’influenza delle correnti romane.

D.: Esiste, secondo te, il « moralismo » degli scrittori?

R.: Proprio alla fine, dopo una soddisfacente colazione sulla riva del mare più placido e disponente alla meditazione, tu, caro Franco, sei venuto da lontano a farmi questa impegnativa domanda, ma proprio per questo ambiente mi sento nell’immediata possibilità di darti una risposta. Questa « moralità» di cui tu parli, è proprio quella tal cosa, misteriosa e maligna, che determina le correnti nelle valutazioni letterarie annuali e che trovo assolutamente detestabile. Trovandomi anch’io a far parte di giurie letterarie, spesso mi sono sentito fare, a mo’ di preambolo, discorsi di questo tipo: i mecenati del premio non saranno soddisfatti se … e qui una sequela di ammonimenti, il Premiato non deve essere uno scrittore di linguaggio « da basso porto», o « progressista », o  « cattolico» o Invece « acattolico » ecc. Sempre ho ribattuto che in un giudizio critico formulato da una giuria di artisti non dovevano esservi limitazioni di sorta, altrimenti persino Dante (e dico persino, ma meglio sarebbe dire certamente) sarebbe escluso da premi letterari di tal fatta.

D.: Quali sono, secondo te, le ragioni per le quali anche uomini noti e valenti non hanno il coraggio di manifestare pubblicamente il loro dissenso dalla  «  ufficialità » anti dannunziana e perché questa del « D’Annunzio non si discute, si ignora» è diventata una parola d’ordine tabù della cultura italiana?

R.: Da 20 anni si continua a confondere D’Annunzio con il fascismo, per ragioni spicciative, carissime agli italiani, che hanno poca attitudine all’indagine controllata. E’ un luogo comune di facile espressione e di facile equivoco. Non si può pensare di condannare con il silenzio D’Annunzio solo perché lo si accusa (e io penso ingiustamente) di essere stato uno dei  «  maestri» del fascismo. D’Annunzio ormai e entrato nella storia della letteratura europea e sarebbe bene incominciare a fare la revisione critica delle sue opere, che per me sono immensamente valide, anche se questo giudizio di un’alta donna relativo a me può lasciar pensare il contrario. Mi disse questa donna: « Se non fosse apparso Lei con i suoi scritti, la gioventù di oggi sarebbe ancora dannunziana »,

D.: Vuoi parlarci del tuo ultimo libro « Cribol » ?

R.: Cribol è un libro che finisce con il dare ragione all’untore Bassani che afferma che io sono uno scrittore cattolico e che mi vanto di uscire dalla redingote di Fogazzaro. Vi è di scena un prete fanatico, che non è un buon prete, ma un prete che fa le crociate (processioni, riconsacrazioni, comunioni generali, ecc.) e che arriva persino all’inquisizione nell’accusare un parrocchiano, pervaso da fantasie erotico-paniche e suggestionato da influenze paracelsiche, di essere il demonio. Infine Cribol (è il nome del protagonista) muore come un santo, facendosi il Segno della Croce, mentre il prete si uccide, ritenendo di avere in se stesso il demonio.

Franco Morcellin

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