Questa è una notizia invero sensazionale per il mondo della cultura, della archeologia e anche della storia: È stata scopertala chiave della lingua Etrusca. Non solo, ma si è allargato la conoscenza degli Etruschi circa la loro origine. la loro civiltà e la drammatica loro oppressione da parte dei Romani.
Il vecchio abate T. N. il quale vuole rimanere ignorato per non essere turbato nella sua quiete, residente in un piccolo villaggio dell’antica Etruria, mi ha mandato segretamente a chiamare. La fortuna gli è stata propizia, ma è stato anche una meritata ricompensa ai suoi studi di lingue orientali antiche e moderne iniziati fino da giovanissimo. Il suo caso è stato un poco come quello di Flemming: il penicillo ha funzionato da solo sotto ai suoi occhi meravigliati.
Terminate le cure dell’abazia. qualche ora prima del tramonto era solito passeggiare col suo breviario aperto sul petto per una stradina lievemente in salita fino al culmine di un poggio circondato da vecchie querce. Giunto lassù si sedeva su di un grosso macigno e dato uno sguardo al paesaggio vasto e ondulato, coi pagliai che splendevano aurei tra il verde cupo del grano e quello cinereo degli olivi, si metteva a pregare. Nelle pause tra una preghiera e l’altra il suo sguardo si posava, come attratto da una calamita verso il culmine del poggio, che un giorno si accorse non avere un finale naturale, ma come elaborato da grandi mani. Risultava composto di tre coni, uno al centro e due laterali e tra questi vi era un’insenatura corrosa dalle piogge che andava diretta al cono centrale. Osservò che questo era rivolto a oriente e che l’insenatura risultava come il principio di un dromo tombale. L’erba fiorita di fiordalisi e di papaveri nell’ondulare al primo venticello della sera sembrava volerlo incantare sempre di più a quello strano culmine, in fine una sera scaturì netta in lui la convinzione che in quel punto vi fosse una tomba etrusca e chiuso il breviario; scese in fretta all’abazia. Fece ricercare in una casa colonica vicina zappe e picconi e all’alba, dopo il mattutino, radunò alcuni dei suoi abati più giovani e più forti e iniziarono lo scavo. Uno scavo traversale dell’insenatura tra i due coni laterali, in modo che se sotto vi era l’inizio del dromo questo sarebbe risultato subito. Difatti scavato per oltre un metro, spuntarono le pietre delle pareti laterali, le quali a un certo punto si biforcarono in due altri dromi diretti verso i due coni estremi, mentre l’altro proseguiva verso quello centrale. Quindi non una tomba, ma tre stavano come una preda umile e offerentesi davanti ai suoi occhi. Il lavoro fu proseguito con una smania crescente fino a quando nella sera giunsero davanti alla grande porta di pietra che dava l’ingresso alla tomba di centro.
Sarcofago, Museo archeologico nazionale – Florence (Sailko, Wikimedia Commons)
L’abate quella sera non osò forzarla, si inginocchiò e con lui tutti i giovani abati e recitarono in coro una preghiera di ringraziamento. Ma il miracolo non era ancora nella sua totale apparizione, solo il giorno dopo forzata la porta e penetrato solo con una lampada elettrica portatile, in quell’aria che da secoli non si congiungeva con l’aria libera, scorto il sarcofago con la statua di un lucumone sdraiato, magrissimo e fiero nello sguardo, si avvide subito che tra le solite suppellettili funebri vi era una cassetta composta in parte di legno, di osso e di metallo. Vi posò le mani, il coperchio cedette facile e dentro vide due rotoli di papiri stipati tra bioccoli di lana imbevuti di un odore acutissimo che lo fece retrocedere in sgomento.
Sarcofago di Laerthia Seianti da Chiusi (Sailko, Wikimedia Commons)
In quel momento come per vincere un’apparizione demoniaca fu istintivo per lui farsi il segno della croce, preso da nuovo coraggio e da nuova ansia, avanzò di nuovo, protese la mano verso il primo papiro, lo sciolse e vide a caratteri neri succedersi una lunga iscrizione egizia, subito seguita da una etrusca a caratteri rossi. Svolse l’altro papiro, era più piccolo e invece l’iscrizione era solo etrusca. La sua vecchia passione per lo studio delle lingue orientali antiche emerse come una febbre. Non cercò più oltre nella tomba, uscì con la cassetta avvolta nel suo mantello, fece chiudere la pesante porta di pietra, diede ordine di coprirla col terriccio scavato e sceso all’abazia si chiuse nella sua cella, dove vegliando per tutta la notte svolse i due papiri che risultarono magnificamente conservati. Conoscitore dell’antica scrittura egizia prese subito a decifrare il primo papiro e gli risultò che si trattava di una lettera del lucumone Lart Pampu di Tarquinia diretta al lucumone Vulco Rotumno che abitava lo stesso paese, dove egli aveva la sua abazia. Passò subito a leggere la iscrizione susseguente in caratteri etruschi e gli fu facile decifrare la stessa intestazione. Il miracolo si era completato, egli si trovava tra le mani una lettera scritta in egizio con la sua traduzione in etrusco.
Cippo di Perugia (III-II secolo a.C.) . Sailko, Wikimedia CommonsVulca – L’Apollo di Veio (Wikimedia Commons)
Quella invece scritta solo in etrusco era diretta a Lart Pumpu da Vulco Rotumno. Proseguendo nello studio comprese che quella inviata da Pumpu era stata da lui stesso spedita solo in egizio, mentre la traduzione era di mano del Rotumno e quella scritta solo in etrusco era la copia di quella spedita a Pumpu, pure in egizio. Per dodici notti, con la pazienza datagli dalla sua vita di religioso egli riesci a decifrare le due lettere, ed è questa strabiliante corrispondenza che egli ebbe la bontà di farmi leggere nella sua cella autorizzandomi a renderla nota. Dal contesto di questo dialogo scritto ha potuto fissare la data della corrispondenza al terzo secolo avanti Cristo, quando già i Romani si erano impadroniti dell’Etruria. Senza dilungarmi oltre riporto integrale la corrispondenza.
La Necropoli di Populonia (AlMare, Wikimedia Commons)
Lettera prima
«Lart Pumpu al delizioso amico e amatissimo compagno della mia serena giovinezza. Ho pensato che queste dure teste di romani non conoscono di certo la sublime lingua egizia, che noi invece abbiamo appreso in quel nostro felice viaggio giovanile quando andammo per nostri studi e per nostro diletto sulle rive del Nilo dopo avere valicato il verde azzurro mare. Così se questa mia lettera dovesse cadere in mano dei nostri implacabili nemici non certo la saprebbero leggere, tu stesso so che potrai rispondermi nella stessa lingua e così daremo sfogo a tutti i nostri pensieri sulla triste sorte del nostro popolo oppresso e di noi con esso. Prima di tutto ti informo che non potendo più vivere nella città, che fu completamente rasa al suolo dopo il saccheggio da parte della soldataglia romana, mi sono ritirato in una capanna dietro al colle dove sono le tombe dei nostri avi e vestito da pastore faccio il pastore di un piccolo gregge che mi dà la possibilità di proseguire ancora in questa vita aspra, ma non ancora ottenebrata del tutto, perché mi regge una estrema speranza, che forse non riescirò di godere ma la godranno i superstiti del nostro popolo e cioè che questi romani trovino a loro volta chi li possa vincere e piegare come essi hanno piegato noi. Sappi che tutti i miei familiari sono stati trucidati il giorno della conquista di Tarquinia e io fui salvo perché mi trovavo in viaggio per il mio commercio, oltre i monti selvosi, nella piana paludosa di Spina, bagnata dall’altro mare che è verde e grigio, perché risente il vento di settentrione. Non ho potuto così deporre la salma della mia cara compagna, né dei miei genitori, né dei miei figli nella grande tomba che avevo fatto scavare sul colle a oriente della città, di dove si vede lucente come uno sguardo amoroso quel mare attraverso il quale i nostri antichi padri sono giunti sulle loro audaci navi dalla Fenicia, dopo che non era più tollerabile la patria coinvolta in tristi guerre di conquista. Tu sai bene che i nostri antichi padri erano i più saggi della Fenicia e stretti nella setta dei Rasenni avevano come principio I‘odio verso la guerra e le armi che suscitano sangue e morte, come simboli perfetti della stupidità. Fu per questo che coloro dai quali si discese fuggirono in cerca di una terra da abitare che non fosse da prendere scacciando altri. Questa terra noi la trovammo portati dal nostro Dio solare, qui dove abbiamo vissuto per dieci secoli ed era al nostro approdo, come appena uscita dalla creazione, vergine e ancora agitata di vulcani e di acque bollenti, ricca di selve impenetrabili, di metalli e di animali selvaggi e domabili. Fu per questa verginità della nuova patria che noi la amammo profondamente creando di essa la sola altra divinità da noi adorata, dopo il Sole, divinità da noi effigiata come una madre che regge il figlio sulle sue ginocchia. Noi non abbiamo tanti Iddìi come gli Egizi o come i Greci, abbiamo solo questi due, essenziali e supremi della vita: il Sole, che ci dona la fecondità e nello stesso tempo misura la nostra vita verso la morte, e la terra che riceve questa fecondità e dolcemente ci riaccoglie, come nel ventre di nostra madre, compiuto il nostro ciclo di vita. Né siamo stati come questi feroci fanciulli, i romani che sono giunti, dopo lungo tempo incapaci di scoprire le vere essenze divine dell’universo e dopo avere scimiottato i Greci, a creare un Dio anche per i ladri e per i guerrieri, e altri ancora per sublimizzare ogni sbadiglio umano e terreno. Col mio povero gregge vado talvolta vicino alla mia villa che tu conosci, per essere stato mio ospite, costruita per il mio ozio, simile all’ombra di vasta quercia, rimasta ancora intatta, perché gli ufficiali romani se ne servono come albergo. Sento le loro canzoni fatte di parole che minacciano morte in nome di una grande missione da compiere per apportare dovunque sia terra la loro civiltà che è solo di predare. Tu vedessi di che si cibano questi apportatori di civiltà, il loro cibo preferito consiste in una vescica di bue piena di sangue e di grasso che arrostiscono alla brace e sopra vi bevono senza misura il vino, non con la nostra moderazione per essere poi nella lieve ebbrezza partecipi dei piaceri, ma per vomitare quello che hanno mangiato e cadere prostrati in terra. Credo che questo ti basti per ora per conoscere come è la nostra vita qui, anche i fiori della nostra terra sembrano intristiti dall’oltraggio. Se vivi ancora rispondimi subito a mezzo di questo ragazzo che ti porta la mia lettera e dimmi di te della situazione della tua città confederata. La mia mano fedele e amica si posa sulla tua spalla destra».
Necropoli del Crocifisso del Tufo, Orvieto (Paperoastro, Wikimedia Commons)
Lettera seconda
«Vulco Rotumno all’amico mai dimenticato e che nei miei sogni mi riappare confortevole come nella nostra giovinezza. Tu mi dici i tuoi dolori e io ti dico i miei che non sono meno forti. Beata la tua compagna che è stata uccisa, almeno essa nell’al di là continua a godere le gioie che ebbe da te in questa vita, la mia e le mie due figlie, quando questi figli di cinghiali hanno occupato la mia città, sono state trascinate a Roma, schiave della loro insensata violenza. I miei due figli sono riusciti a fuggire sulle montagne del settentrione, dove vivono nascosti facendo carbone, delle nostre antiche elci che sono state per il nostro popolo carezzevoli mani materne fino dal nostro arrivo in questa terra. Io, dopo che la città fu rasa al suolo coi suoi templi, la sua biblioteca, il suo teatro, le sue belle case ospitali, mi sono ridotto a fare il guardiano alla fonte di quelle acque termali che dalla nostra Dea, la Madre Terra, escono come latte dal suo seno, curando le infermità del fegato e degli intestini. Sono pochi i superstiti che vengono ora a questa fonte, ma il loro obolo mi basta per vivere. I romani quando passano vicino alla fonte ci sghignazzano dietro nella loro ignoranza, perché si beve di questa acqua. Ti dirò subito che la nostra bella imagine della generosa Dea, la Madre Terra, quella fatta dal Ramno, il maestro di Vulca, è stata dalle mie stesse mani, tolta dal tempio prima dell’arrivo dei romani e nascosta sotto la terra, che è la sua stessa carne, nei pressi del piccolo cratere ribollente di fango aspro e fumante. Il tempio è stato abbattuto e incendiato, ricordi come era bello sull’alto del colle circondato di querce dove gli usignoli, le volpi, i cinghiali vivevano indisturbati come nel giorno in cui i nostri antichi giunsero a questa terra. Il comportamento dei nostri dominatori nella mia regione perdura bestiale e feroce come dal primo giorno dell’invasione. Hanno lasciato sul posto solo i contadini per lavorare la terra di cui requisiscono la maggior parte dei prodotti che portano a Roma, gli altri: i nostri nobili, i nostri sacerdoti, i nostri indovini del futuro, i nostri medici, i nostri saggi, i nostri artisti e artigiani sono stati o uccisi o trascinati a Roma, insieme alle donne, in schiavitù perpetua. Tutte le iscrizioni nella nostra lingua sono state cancellate e colla pena di cento vergate ci colpiscono se ci sentono parlare nella lingua che fu di nostra madre. Vogliono annientare qualsiasi ricordo della nostra civiltà, per imporci la loro inesistente, sicché noi e il ricordo della nostra perfezione nella vita sarà tramandato solo dalle nostre tombe segrete. Tu sai come è ben diversa dalla nostra la origine della loro compagine sociale. Tu sai che i nostri antichi smaniosi soltanto di un onesto e pacifico commercio coi popoli percorrevano la strada da noi costruita che scende lungo il mare fino a Pesto, dove si incontravano coi Greci e là si scambiavano i rispettivi prodotti. Costretti a valicare il fiume, che ora chiamano Tevere, nel punto più facile, dove vi è la piccola isola, qui trovavano quei primi romani, discesi dai monti vicini dove si cibavano di ghiande, irsuti e cagneschi, nell’imporre il diritto di passo sulle nostre merci variabile secondo la loro fame. E i nostri mercanti inermi sottostavano come alla fatalità di un naufragio in mare. Fu da questo sfruttamento ignobile che sorse la loro prima ricchezza, il loro orgoglio e la loro sete di potenza e di dominio. Sopraffare gli inermi; questa è la loro prima legge. Non posso dire che nella occupazione della nostra città essi abbiano subito tutto distrutto. Alcuni di loro sono uomini curiosi e entrati nella nostra biblioteca coi loro interpreti hanno fatto una scelta dei nostri libri che trattano di agricoltura, di meccanica, di architettura, di studio della natura e di arte e li hanno tradotti nella loro lingua e poi arsero gli originali. Tutto quello che poteva loro servire utile per le comodità del vivere è stato copiato e poi distrutto, pensa persino i rasoi per la barba sono stati osservati come rare invenzioni e mandati a Roma per imitarli. Sono più selvaggi dei Sardi. Sono stati stupiti molto, quasi cadessero dal cielo, di non avere trovato alcun carcere nella nostra città. Essi non sanno come noi con la affissione pubblica in tutte le nostre città confederate dei nomi di coloro che si sono resi colpevoli verso la società li rendevamo infami e reietti costringendoli a emigrare dalle terre della nostra confederazione oltre i monti di settentrione. Giudicando noi ridicolo che una punizione carceraria potesse mutare la natura umana, se perversa. Noi invece siamo stati molto stupiti nel vedere che questi romani non sorridono mai come invece era nostra abitudine. Ricordi il nostro largo eppure lieve sorriso, simile a quello che attribuiamo al nostro Dio Solare. Oggi per noi questo sorriso si è spento. Noi sorridevamo, perché la nostra vita era perfetta nella credenza di dovere faticare nel lavoro della terra e nel nostro commercio cogli altri popoli senza oltrepassare una eccessiva misura e il resto della nostra vita dedicarlo all’ozio contemplativo di danze, di giuochi, di spettacoli teatrali e alla partecipazione dei piaceri amorosi non limitati da alcuna prevenzione. Compiuto il nostro dovere di tramandare i nostri eredi, la nostra compagna diventava la nostra madre e ci concedeva, senza rancore di ritornare ragazzi e di dilettarci come il nostro sangue richiedeva, paga di allevare i figli e di non esaurirsi in nuovi concepimenti. Nonostante l’invasione di questi figli di cinghiali sono riescito a farmi con le mie mani la mia tomba in un poggio isolato, ho fatto già scolpire il sarcofago con la mia imagine dal nostro grande Mecna, che vive ancora, nascosto nei boschi dove si svaga nella caccia, purtroppo in questo sarcofago non verrà deposto anche il corpo della mia compagna, né so se nei due tumulti laterali potranno essere sepolti i miei figli. Ho fatto anche dipingere da Volunnio, poco prima che venisse preso dai sanguinari invasori e ucciso, perché si rifiutò di insegnare a loro il segreto della composizione dei suoi colori, scene di danza e di amori che allietarono la mia vita e allieteranno ancora quella nell’al di là. Spero presto di morire e di essere quivi sepolto, su questo colle di dove ancora potrò vedere il luminoso splendore della nostra terra E due leonesse scolpite nella dura pietra mi custodiranno dalle mani sacrileghe con la stessa ferocia come per un loro figlio. E ti dico io pure che un’estrema speranza mi regge, di vedere, se non io, i miei futuri discendenti che questa Roma prepotente sia a sua volta piegata e distrutta come essa fece delle nostre sublimi città. Noi oramai non ci vedremo più respiranti l’aria, ma dopo la nostra morte, che ci consentirà tuttavia di poterci abbracciare ancora, come ti abbraccio in questo istante con tutta la tenera amicizia dei nostri giorni migliori».
Questo è il testo delle due lettere come mi venne riferito dall’abate T. N.
Non ho però potuto vedere i due papiri, perché quando giunsi all’abazia. svanito l’influsso dell’acido acutissimo che li aveva fino allora conservati, come mi disse l’abate, si erano ridotti in cenere. Ma egli aveva oramai nelle sue mani la chiave per decifrare qualsiasi altra iscrizione etrusca. Giovanni Comisso
da Il Mondo del 09/08/1955 Immagine in evidenza: Etruscan Boccanera Plaques from Cerveteri with the judgement of Paris From left to right Elcsantre (Paris Alexandros); Turms (Hermes); Menrva (Athena); Uni (Hera); Turan (Aphrodite), fonte: Wikimedia Commons
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