“D’Annunzio a Fiume” di Giovanni Comisso

Finita la guerra Gabriele D’Annunzio ritornò alla sua casetta rossa su Canal Grande, dove gli era difficile dormire alla notte, perché i suoi cani nel giardino abbaiavano di continuo alle guardie di questura che il governo gli aveva messo di sorveglianza nella calle. Vi era del sospetto contro di lui che aveva scritto: La lettera ai Dalmati, assicurandoli sarebbe stato con loro nel momento del sacrificio. Dopo che la febbre spagnola, una specie di peste polmonare, aveva fatto in pochi mesi più strage della guerra, si era radunata a Versailles la conferenza per la pace. Il Patto di Londra, stipulato prima di entrare in guerra, assegnava all’Italia, a vittoria raggiunta, il confine al Brennero, la Venezia Giulia e la Dalmazia, ma non Fiume.

La città era stata presidiata alla fine della guerra da un corpo di truppe interalleate al comando del generale italiano Grazioli.

Nella primavera del 1919 la conferenza di Versailles volgeva alla fine e i ministri Orlando e Sonnino, che vi erano stati delegati, l’abbandonarono per non compromettere i loro nomi firmando quel trattato. Gabriele D’Annunzio decise allora di lasciare la casetta rossa e di venire a Roma coi suoi compagni aviatori. Salì sul Campidoglio e stese dalla loggia una grande bandiera, che aveva avvolto a salma del maggiore Randaccio, morto alla battaglia del Timavo e sfoderando la spada di Nino Bixio, giurò di fare sventolare quella bandiera in Fiume e in tutte le città della Dalmazia. Verso la fine di giugno il ministro Orlando diede le dimissioni e il governo fu assunto da Nitti.

D’Annunzio, ancora a Roma, diede un ricevimento a pochi intimi nella casa della moglie Donna Maria di Gallese. Tra i paralume rosa e molti fiori dovunque, una pianista suonava per lui Bach, Monteverdi e Schumann. Il poeta belga Leone Kochnitzky approfittò del momento, in cui una principessa romana stava rivelando il destino al poeta, per rubargli i guanti.

La voce di D’Annunzio esultava al vaticinio: «Trionfi, trionfi, trionfi, le carte sono straordinarie ». Egli poi disse che in quella sera aveva deciso di marciare su Fiume. Era la sera del 1° luglio del 1919.

Alla fine di agosto, in conseguenza di una sommossa, gli alleati imposero l’allontanamento dalla città dei granatieri, che partirono tra il pianto della popolazione e furon dislocati a Ronchi. Sette ufficiali del primo battaglione del secondo reggimento granatieri, nel rancore d’essere stati costretti ad abbandonare Fiume, giurarono un patto di ritornarvi coi loro soldati per assicurarne con tutti i mezzi l’annessione. Cercavano un capo per la loro impresa e dopo avere rivolto l’appello a Luigi Federzoni e a Ricciotti Garibaldi ottenendo vane risposte, pensarono di rivolgersi a Gabriele D’Annunzio.

Appena il poeta seppe che questi ufficiali giurati erano in sette, si entusiasmò alla perfezione del numero, si dichiarò pronto a prendere il comando del loro battaglione e a marciare su Fiume.

L’emissario dei granatieri aveva accennato a sole quarantotto ore di tempo per iniziare l’azione, nel timore che tutto venisse scoperto e il battaglione trasferito altrove. Allora D’Annunzio disse: — Vede, io sono un po’ superstizioso. Credo nella fortuna assidua di certe date, che non posso dimenticare. Posdomani è il dieci, bisognerebbe rimandare l’azione all’undici, è un giorno fortunato per me: il giorno di Buccari. E così partì dalla casetta rossa l’undici di settembre sebbene tormentato dalla febbre.

A Fiume D’Annunzio scese all’albergo Europa, ripreso dalla febbre e occupò la stanza numero ventidue. Subito gli arditi presidiarono i punti importanti e accerchiarono il palazzo del comando interalleato. Mentre D’Annunzio riposava all’albergo, l’aviatore Keller andò a visitare uno per uno i componenti del Consiglio Nazionale della città, che era il principale organo di governo, incominciando dal presidente Grossich. Fece loro capire che se avessero offerto tutti i poteri civili a D’Annunzio, egli avrebbe costituito con la Dalmazia e con la Croazia dissidente, uno stato confederato, di cui Fiume sarebbe stata la capitale, con non pochi vantaggi economici. Quando poi il presidente radunò i consiglieri per fare loro questa proposta, li trovò già convinti dell’opportunità. Keller accorse da D’Annunzio a riferire la decisione del Consiglio e lo intese stupirsi: — Come, io governatore? — Sembra che la sua intenzione fosse stata di entrare in Fiume e soltanto presidiarla cogli armati al suo seguito. Al suono della campana civica che adunava il popolo per assistere alla consegna di tutti i poteri nelle sue mani, egli si risollevò sfebbrato, pronto ad andare al palazzo del comando. Grida e musiche precedevano la sua automobile; davanti alla gradinata scese per primo il vecchio presidente Grossich che aiutò D’Annunzio a discendere. Appariva debolissimo, ma quando fu sul terrazzo, con una forza inattesa disse che Fiume nel mondo folle e vile rappresentava la libertà. Le case di fronte creavano un’eco fortissima, sicché ogni sua parola veniva come detta due volte ed egli si fermava un attimo per ascoltarla ripetuta.

In quella stessa notte i reparti alleati si imbarcarono nelle loro navi e partirono.

Da quel giorno D’Annunzio divenne il Comandante di Fiume e si insediò nel palazzo che era già stato residenza dei governatori ungheresi i cui ritratti stavano appesi nel grande salone.

Era un palazzo bruttissimo, tra il Casinò e l’albergo termale, ma invece di gente afflitta ospitava arditi agili e irrequieti dai grandi ciuffi e impressi nei volti bruni tutta un’ansia data a loro dalla guerra.

La città di Fiume col suo poco territorio che si estendeva sulle pietrose colline attorno ospitò oltre a suoi abitanti, migliaia di questi giovini volontari folli di una nuova vita e tutti costoro roteavano attorno a un uomo come D Annunzio, che era senza dubbio il più eccezionale dell’epoca. Egli aveva detto una volta nei colloqui coi suoi fedeli nella casetta rossa di Venezia:

L’arte di comandare è di non comandare.

E quei giovani ufficiali compresero che solo a quest’uomo potevano ubbidire e sarebbe stato bello seguirlo. Non era come i capi avuti in guerra i quali davano gli ordini scritti con firma di ricevuta, che esigevano la posizione d’attenti nel riceverli, che non ammettevano discussioni, né partecipazione del subordinato a meglio sviluppare l’esecuzione. Si esigeva l’obbedienza cieca e assoluta a ordini che talvolta assurdi costarono valanghe di morti e di sangue.

D’Annunzio formulava una nuova legge di comando, il comando non imposto con schemi sterili e rigidi, ma preteso dallo stesso subordinato messo dalla chiara esposizione delle circostanze nei limiti di scelta. Era lo stesso subordinato che doveva essere portato nella condizione di comandare a se stesso.

Una delle prime prove del suo sistema di comandare Io diede durante un grande rapporto tenuto a tutti i capi di reparto. Subito dopo la presa di Fiume, da lui denominata: la Santa Entrata, il governo di Roma aveva deciso di bloccare la città da tutte le parti. Il generale Badoglio al comando delle truppe accerchiami, preso il pretesto delle elezioni politiche imminenti, che sarebbero state favorevoli ai partiti di sinistra, i quali, assunto il governo, avrebbero fatto ritirare le truppe sulla linea di confine fissata dalla conferenza di Versailles, lasciando l’esercito fiumano a diretto contatto con quello jugoslavo e con le navi da guerra alleate, scrisse una lettera a D’Annunzio per convincerlo del pericolo di insistere a rimanere in Fiume. D’Annunzio voleva esporre questa nuova circostanza e prendere una decisione. Attendeva i capi di reparto nel suo ufficio, ritto dietro a un tavolo in un angolo della stanza, strinse a tutti la mano e poi applicatosi il monocolo incominciò a leggere la lettera del generale Badoglio.

Subito la prima volta che incontrò le parole: eroe carsico lasciò cadere il monocolo per soggiungere con un sorriso di modestia: — Che sarei io. — Finita la lettura si rivolse all’ammiraglio Luigi Rizzo dicendogli che lo vedeva impaziente di riprendere il suo mas di guerra per respingere l’eventuale blocco marittimo delle navi alleate. Rizzo si dimenava sulla sedia e assentiva col capo nero di pelle e di capelli. Poi D’Annunzio enumerò tutti i mezzi di difesa e di resistenza a sua disposizione: erano molti, ma faceva affidamento più che altro sullo spirito dei legionari. Ora spettava ai presenti dire quello che si doveva fare: rinunciare a Fiume o resistere fino a qualsiasi evento. Un giovane capitano si alzò e con animazione sembrava volesse dire molte cose, ma infine si confuse e D’Annunzio stesso lo tolse dall’imbarazzo: « aveva capito, il suo pensiero era di resistere fino alla morte ». Dopo questa prova infelice nessuno osò esprimere il suo pensiero, singolarmente, ma tutti in coro gridarono che si doveva resistere fino alla morte. D’Annunzio lasciò nuovamente cadere il monocolo e venne in mezzo a loro dirigendosi verso un gruppo di ufficiali più giovani dicendo: — Sta bene, la decisione e presa, ma ho una cosa da dire a voi giovani — e chinò il capo come avesse dovuto arrossire — ed è strano che proprio io ve la debba dire, io che ho subito così potentemente l’imperio della giovinezza: ma posso dirla, perché da quando sono a Fiume, vivo d’una castità francescana, ma voi, voi sorpassate tutti i limiti. — E si schiarì la voce: — Noi siamo accerchiati, la lotta è forse imminente, occorre tenere ben saldi i muscoli, e poi almeno cercate di non andare nei postriboli, quando vi sono i soldati. — Girò su se stesso e passò ad altri argomenti.

Però la castità francescana di D’Annunzio era del tutto immaginaria. Una canzonettista di Pescara, che cantava per i legionari in un caffè concerto e conosceva il poeta da ragazzina, quando andava al Convento per posare a Michetti, certe sere, finito lo spettacolo veniva accompagnata a Palazzo da un ardito, che la faceva entrare nell’appartamento del Comandante, da dove se ne ripartiva all’alba con cinquecento lire nella borsetta. Il rapporto finì colle lusinghe ed egli era invero maestro nel lusingare. Disse che avrebbe istituito una nuova decorazione a forma di stella d’oro massiccio per segnalare i nuovi atti di valore.

La vita quotidiana di D’Annunzio a Fiume era massacrante, ma doveva essere di sua soddisfazione se la sopportava felice. Doveva reggere la città e con essa i legionari che erano oltre ventimila, fronteggiare le truppe del governo di Roma che lo accerchiavano e suscitare adesioni e simpatie in Italia e nel mondo. Il blocco stringeva la città dal mare e da terra, il porto e le fabbriche erano inerti, il popolo non aveva da mangiare. La Croce Rossa sosteneva i più poveri con viveri fatti venire dall’Italia, ma per i legionari doveva egli provvedere il vestire, il mangiare e il soldo. Rimediò in parte confiscando i grandi depositi lasciati a Fiume dall’armata francese d’Oriente, tutto il materiale inservibile fu venduto, mentre i teli da tenda gialli vennero trasformati in divise. In Italia e nelle colonie italiane d’America vi erano simpatizzanti che raccoglievano fondi, l’aiuto più forte venne dato dall’onorevole Giulietti, presidente della Federazione della Gente di Mare, il quale faceva imbarcare di nascosto, a Genova, nei piroscafi diretti in Oriente, manipoli di legionari che, passato lo stretto di Messina, salivano sul ponte di comando con le armi in pugno imponendo di fare rotta per Fiume.

Questi legionari erano chiamati da D’Annunzio: gli Uscocchi, a ricordo di quei pirati del Quarnero che nel Medioevo taglieggiavano le galere veneziane. Quanto si trovava a bordo dei piroscafi catturati veniva utilizzato o venduto.

Una volta gli Uscocchi che battevano coi mas anche l’Adriatico, presa d’assalto una nave che da Venezia andava in Albania, vi trovarono due casse pesanti cerchiate di ferro, nella notte le portarono a Palazzo e forzate le solide serrature, apparvero mucchi di monete d’oro e migliaia di biglietti di banca, tra lo stupore di D’Annunzio che vedeva la vita gareggiare con la sua fantasia. A un certo momento fu necessario non più accogliere i volontari che continuavano ad affluire dall’Italia. Il numero degli ufficiali era sproporzionato a quello dei soldati. Questi ufficiali presi da diverse idee politiche, formavano gruppi che cercavano di influire su D’Annunzio. I repubblicani volevano egli denominasse lo stato di Fiume: repubblica; i comunisti insistevano di farlo intervenire in favore degli scaricatori cinesi del porto di Shangai retribuiti con un pugno di riso; vi erano due ufficiali che ritenevano di essere, l’uno cugino del Re Vittorio Emanuele, l’altro addirittura fratello, e speravano che D’Annunzio conquistasse anche l’Italia e li elevasse al trono. Avevano una certa somiglianza coi Savoia; quello che pretendeva di essere fratello del Re distribuiva sovente delle monete dicendo: — Ecco mio fratello — e usava tenere la testa di profilo per convincere meglio.

Nella concorrenza, naturalmente si odiavano, in fine il presunto cugino del Re, più elevato di grado, riesci a fare espellere da Fiume l’altro. Altri volevano venissero abolite le carceri, le banche e la moneta, riformato l’esercito sullo schema delle antiche compagnie di ventura. A tutti costoro si frammischiavano traditori, approfittatori, lestofanti e inviati apertamente dal governo di Roma per creare disordini. Più d’uno, ottenuta la fiducia del Comando, avuto l’incarico di andare in Italia per ricevere in consegna fondi raccolti per l’impresa, non fece più ritorno.

Uno, impadronitosi d’una forte somma, fuggì a Nizza e aperta una trattoria fu così fedele da chiamarla: Alla città di Fiume. In verità nessun legionario osò infastidire D’Annunzio sottoponendogli al giudizio sue opere letterarie. Terribile era la gelosia degli ufficiali e dei reparti, appena il Comandante dimostrava minimamente di preferire gli uni agli altri. Il reparto che si credeva il meno favorito andava a bloccare l’altro nella sua caserma puntando le mitragliatrici e gli ufficiali si battevano a duello, dopo essersi battuti colle calunnie.

D’Annunzio aveva la sua guardia, una compagnia chiamata: La Disperata, che era stata creata dal suo segretario d’azione Guido Keller.

Questa compagnia montava di continuo la guardia a Palazzo, ma in seguito D’Annunzio dovette concedere tale onore anche agli altri reparti che ingelositi volevano accoltellare i disperati. Dovette pure concedere l’onore una volta alla settimana di cenare alla mensa degli ufficiali dei vari reparti e avere per ogni ufficiale una parola o un sorriso come suscitati espressamente per lui. Ma non era mai stanco di questo continuo concedersi, anzi sembrava che tutta questa giovinezza convenuta ai suoi ordini, a lui sempre vicina, lo ringiovanisse e diceva: — La sorte mi ha fatto principe della giovinezza sulla fine della mia vita.

Gli ufficiali dannunzieggiavano. Egli aveva lanciato la moda dei guanti bianchi e tutti li portavano uguali, molti scrivevano su larghi fogli e con una calligrafia grande e irruente come lui. Certi aggettivi usati da lui divennero correnti, come: squisito, dolente, maraviglioso; si diceva: cotidiano, olocausto, maleficio, me medesimo; qualcuno arrivò a dire: per centoventi giorni e centoventi notti, volendo dire: da quattro mesi.

Si profumavano con ricercatezza, bruciavano l’incenso nella loro stanza, tutto osavano nei piaceri e nei peccati, l’unico escluso era quello del giuoco alle carte, ritenuto estraneo ai sensi, ma gli altri erano tutti presenti nel largo margine concesso dalle opere dannunziane. Durante la guerra certi nostri aviatori per sostenersi nei voli senza tregua e snervanti che avrebbero potuto addormentarli e perderli, usavano fiutare la cocaina. Questa abitudine fu diffusa a Fiume da alcuni aviatori, molti ufficiali portavano nel taschino della giubba una piccola scatola d’oro con la droga ravvivante. D’Annunzio non poteva che fingere di non vedere. Ma un giorno dalla finestra del suo ufficio, vedendo gli arditi che se ne andavano a due a due presi per mano verso la collina, li indicò e disse: — Guardate i miei soldati che se ne vanno a coppia come i soldati di Pericle. — E si accontentava di intervenire presso gli ufficiali della sua segreteria quando gli presentavano dei rapporti scritti, per dire a loro non gli piaceva usassero il doppio genitivo. Interveniva quando poteva. Conversando di letteratura, uno dei suoi ufficiali, forse non da molto lasciato il liceo, lo interpellò chiamandolo sbadatamente: — professore. — D’Annunzio gli si rivolse ammonendolo: Si ricordi bene che a Napoli ’o professore è quello che fa il giuoco dei bussolotti. — Un’altra sera mentre al teatro si recitava male La fiaccola sotto il moggio, fece sentire la sua voce: — Interrompiamo questa noiosissima tragedia e cantiamo le nostre canzoni. — Volle che gli arditi provassero un inno musicato da Mario Castelnuovo Tedesco, ma non gli fu possibile, essi irruppero a cantare la canzone napoletana : ‘A tazza ‘r cafè, da loro stessi adattata nelle parole all’impresa fiumana.

Gli alleati lasciarono al governo italiano di regolare il problema adriatico direttamente colla Jugoslavia. In conseguenza di questa situazione, il presidente dei ministri Nitti tentò col mezzo del generale Badoglio di risolvere la questione. Il generale Badoglio fece sapere al Consiglio Nazionale di Fiume, che il governo si impegnava a garantire l’esistenza di Fiume in stato separato, ma in contatto territoriale con l’Italia e avrebbe mutato la moneta austriaca, ancora circolante, alla pari con la lira italiana; però D’Annunzio e i legionari dovevano lasciare la città. Gli ufficiali del Comando incaricati di discutere con Badoglio queste proposte furono convinti che era opportuno cedere. D’Annunzio non era di questo parere, egli voleva che il governo di Roma proclamasse l’annessione di Fiume e della Dalmazia. Alcuni ufficiali si schierarono contro D’Annunzio in una congiura alla quale non erano estranei i maggiorenti fiumani lusingati dal cambio della moneta. Si seppero subito i nomi degli ufficiali che avevano aderito alle proposte del generale Badoglio e vennero arrestati; il Comandante radunò gli ufficiali fedeli per decidere quello che si doveva fare. L’adunata avvenne nella sala da ballo del Palazzo, gli ufficiali erano numerosi e tutti irritati per il tradimento. Il Comandante tardava a comparire, intanto un malcauto ufficiale cercò di giustificare razione dei congiurati, non fu lasciato proseguire, stretto da più parti stava per essere finito a colpi di pugnale, ma nel pieno del tumulto venne annunciato l’arrivo del Comandante e subito ritornò la calma. Espose la situazione: si voleva fare di Fiume uno staterello assurdo, si rinunciava alla Dalmazia, non per questo si era fatta la Marcia di Ronchi. Soggiunse che se qualcuno era stato ottenebrato dalle lusinghe, i migliori rimanevano pronti a tutto osare sino a quando Fiume e la Dalmazia fossero state annesse all’Italia. E se il blocco si fosse fatto più stretto per costringerli con la fame a cedere, gli Uscocchi avrebbero raddoppiato i loro colpi di mano. Per gli ufficiali congiurati propose l’allontanamento dalla città, ma prima voleva invitarli a discolparsi e subito vennero fatti entrare uno alla volta. Uno disse si era convinto di aderire alle proposte del governo di Roma credendo che il proseguire nella resistenza avrebbe portato a condizioni estremamente pericolose per la vita del Comandante.

D’Annunzio lo riprese con un aspro sorriso: —Tu, gentil sangue latino, pensi che io abbia timore di dare la mia vita. Gli altri si susseguirono borbottando scuse che facevano gridare da ogni parte: a morte. D’Annunzio impose la calma e soggiunse che il governo di Roma, credendolo vanitoso, in cambio di rinnegare l’impresa gli aveva promesso di farlo conte di Fiume e gli aveva assicurato con ricercatafantasia un solenne trionfo attraverso la Via Sacra. Ci rise sopra e tutti gli ufficiali risero con lui. Nei giorni seguenti decise di non opporsi al tentativo fatto dal governo di Roma di staccare i cittadini fiumani da lui con le promesse monetarie, anzi fece sua l’iniziativa e li chiamò a una votazione. La sera del comizio stava ad attendere l’esito nella trattoria del Cervo d’Oro, dove conveniva coi suoi intimi una volta alla settimana a mangiare gli scampi. D’Annunzio raccontava agli ufficiali suoi progetti futuri col tono di favole per bambini: — Al museo Grévin, a Parigi vi è la mia statua in cera, un Gabriele D’Annunzio perfettissimo, con la caramella, il pizzetto, i baffetti in su. Ora ho un’idea: quando sarà finita l’impresa, voglio farmi dare questa statua e la metterò nella mia casa a Venezia, accanto alla finestra e così i gondolieri nel passare per il Canal Grande, potranno dire ai forestieri: Quella è la casa del poeta, eccolo, ora è proprio alla finestra. — Un ufficiale portò le prime notizie del comizio: si svolgeva in modo confuso, i fiumani tratti in inganno da mestatori avevano votato in maggioranza per il sì, credendo confermasse il rimanere del Comandante e dei legionari, mentre corrispondeva al contrario. Molti però avevano votato per il sì sapendo esattamente cosa significava. Gli ufficiali si alzarono inferociti, D’Annunzio taceva, uno intervenne eccitato a proporre che si imbarcasse in quella stessa notte su di una torpediniera e lasciasse la città ingrata. Altri proposero di fare accerchiare il luogo del comizio dagli arditi e di affidare ai loro pugnali i mestatori che avevano ingannato i fiumani. Dopo che tutti ebbero parlato, egli si alzò per ritornare a Palazzo e disse sorridendo con una compiacente ironia verso se stesso: — Mi sembra di essere Leon Bourgeois in attesa dei voti dell’Accademia.

Dopo il fallimento di questo tentativo di risolvere il problema di Fiume, il blocco si fece sempre più chiuso e vigilante: non mancarono gli incidenti di frontiera per provocazioni avvenute da una parte e dall’altra, che finivano quasi sempre in sparatorie anche mortali. Una volta fece rapire in una rada vicina ad Abbazia, quarantasei cavalli che gli occorrevano per la sua artiglieria. Per riaverli il comando delle truppe regolari come rappresaglia non lasciò passare la farina necessaria per il pane dei cittadini. D’Annunzio si divertì su questo ratto dei cavalli con un discorso: Il cavallo dell’Apocalisse. In cui tra le minacce e gli scherni riaffiorò tutto un suo estro poetico forse suscitato da questo animale sempre prediletto: — La preda odorava di salsedine. Veramente veniva da una caverna marina. La inazzurravano l’ombra e la mia imaginazione. Quando feci il gesto del commiato e diedi l’alalà della mossa, le pariglie di vario manto discesero in lunga ordinanza verso il mare che palpitava dolcemente come le ciglia dei cavalli bianchi nel chinarsi all’abbeveratoio. Egli metteva la sua poesia ancora germogliarne in questi discorsi di governo e in momenti disperati. Una sera a una cena in una mensa di ufficiali al momento degli alalà ne gridò uno: — Per la mia musa, colla quale non arrizzo da quando sono a Fiume — facendo un bisticcio con allusione all’ammiraglio Rizzo presente. Ma anche quest’altra castità era immaginaria.

Al generale Badoglio nel comando delle truppe che accerchiavano Fiume era succeduto il generale Caviglia, un uomo squadrato sul codice di disciplina, suo compito era di domare questo groviglio di serpenti che era Fiume. D’Annunzio lo chiamava: — Chiunque il quale —, perché un giorno fece lanciare da un aeroplano un manifestino intimidatorio che incominciava con questa frase disarmoniosa. Tuttavia era un uomo ferreo, D’Annunzio riesciva a deriderlo, a irritarlo, a pungerlo di sorpresa, a beffarlo, ma il generale Caviglia comandava comandando e la stretta da lui imposta si fece sempre più aspramente sensibile. Per opera sua non fu più possibile che nuovi volontari affluissero e che gli emissari di D’Annunzio oltrepassassero la linea. Inoltre era riescito coi propri emissari penetrati in Fiume a lavorare negli ambienti legionari provocando defezioni e in quelli fiumani determinandoli nell’impazienza per il protrarsi della situazione incerta. D’Annunzio per impedire la putrefazione dell’impresa volle superare l’impresa stessa evadendo dalla città contesa: — Trapassato è chi non si rinnovella, chi non sa inventare ogni giorno la sua virtù e proporsi ogni giorno la sua ragione di vivere. — Aveva fletto e per rinnovare la fede ideò di trasportare l’impresa sul piano della rivolta mondiale. Il suo gesto armato contro le decisioni di Versailles fu la prima ribellione agli alleati vittoriosi, e tutti i popoli oppressi da quel trattato e dagli alleati presero a guardare a D’Annunzio. Al congresso della terza internazionale a Mosca, un socialista italiano che prometteva imminente la rivoluzione socialista in Italia, venne così interrotto da Lenin:

In Italia c’è un rivoluzionario solo: Gabriele D’Annunzio.

Il Comandante volle che da Fiume incominciasse e si sostenesse la rivolta di tutti i popoli oppressi dalle potenze capitalistiche.

Prese contatto con l’irlandese ShantyO’Ceallaigh, offrendo armi per la rivolta, con l’egiziano Saad Zagloul e fece sventolare in Fiume la bandiera dell’Egitto libero, incoraggiò Kemal Pascià, mandò denaro alle bande montenegrine per continuare la lotta contro gli oppressori serbi, denunciò i mezzi di esecuzione usati dall’Inghilterra in India sostenendone la liberazione. Alla Lega dei popoli oppressori che si nascondeva sotto l’istituto della Società delle Nazioni contrappose la Lega dei popoli oppressi. — L’orizzonte della spiritualità di Fiume è vasto come la terra, va dalla Dalmazia alla Persia, dal Montenegro all’Egitto, dalla Catalogna alle Indie, dall’Iran alla Cina, dalla Mesopotamia alla California. Abbraccia tutte le stirpi oppresse, tutte le credenze contrastate, tutte le aspirazioni soffocate, tutti i sacrifizi delusi.

I discorsi del Comandante tenuti ai legionari, al popolo, nei rapporti, nelle adunate, nelle feste, nelle cene, nelle esercitazioni furono tutti sempre improvvisati, dopo egli li trascriveva per darli alla stampa, mettendovi qualche variante e aggiustando anche i cosiddetti colloqui con la folla. In questa revisione ritornava il letterato; lavorandoli a freddo li incrinava tanto da fare pensare, a dialoghi delle sue tragedie meno felici. Come questo:
Il Comandante: — Con chi siete voi oggi? Col martirio contro il misfatto? Col sacrificio contro il mercato?
Il popolo: — Col Comandante.
Il Comandante: — Sino all’ultimo?
Il popolo: — Fino all’ultimo. (Si osservi come voleva dare prova di esatta trascrizione del dialogo, riservando per se il prezioso: sino, e per il popolo, il trasandato: fino).
Il Comandante: — Di là da ogni ingombro? Di là da ogni ostacolo?
Il popolo: — Sì.
Il Comandante: — Vedremo. Ma voglio svelarvi qualcosa di più orribile ancora.

Oggi, lontano da quel tempo si sorride, ma allora spontanei o elaborati quei discorsi finivano coll’essere compresi nelle allusioni difficili anche dalle menti più dure.

La vita di Fiume era una continua serie di feste, gli anniversari o avvenimenti nuovi ne erano il motivo, D’Annunzio teneva il suo discorso che dava la scintilla e poi si sviluppava l’incendio. Alla sera nella piazza tutte le lampade a gas venivano accese a fiamma libera e i legionari ballavano con le amanti vestite con la stessa stoffa delle loro divise. Ma alla mattina i legionari erano pronti a seguire il Comandante che a piedi saliva le colline deserte per esercitarli nel combattimento, ritornavano cantando con rami rforiti infissi nei moschetti. Vi erano poi i grandi arrivi, le visite di amici illustri e pure questi davano occasione a nuove feste.

Venne Guglielmo Marconi con la nave Elettra e fu portato sulle spalle nude degli arditi della Disperata dalla nave a Palazzo. Venne Arturo Toscanini con la sua orchestra che diresse per i legionari in una specie di anfiteatro naturale tra le colline e il mare. Finito il concerto D’Annunzio disse gli avrebbe fatto sentire la sua musica, e preso il comando dei legionari presenti li scagliò all’assalto su per la collina tra scoppi di bombe a mano; tutti gli orchestranti di Toscanini trascinati dall’entusiasmo lasciarono gli strumenti e si unirono anch’essi all’assalto. Poi vi erano le visite degli ignoti, dei fanatici che venivano anche di lontano, ma questi erano la festa particolare del Comandante che non rifiutava di riceverli anche se si sentiva proporre di creare una magistratura universale e imperiale per ridare la felicità agli uomini, o declamare un’ode di cinquecento versi in suo onore. Una donna frenetica gli recitò: A una torpediniera sull’Adriatico e ottenne tuttavia da lui, che paziente l’aveva ascoltata, un pensoso calcolo del tempo: — Sono passati trent’anni – disse D’Annunzio e pareva trasognato. Continuo fu il pellegrinaggio a Fiume per vedere, per consigliare, per influire, per confortare, per arruffare, per ammirare, tutto un afflusso di nomi i più disparati: dalla Duchessa D’Aosta al chirurgo Bastianelli, dal poeta Marinetti a Maffeo Pantaleoni, dal poeta Richard a Mussolini, dal poeta ungherese SzandorGarvay alla vedova di Cesare Battisti, da Padre Giuliani al senatore Borletti, dall’ammiraglio Cagni a Nicola Sisa ungherese, ex commissario del popolo con Bela Kun. Anche Misiano deputato comunista voleva venire a Fiume, ma per essere stato disertore in guerra, D’Annunzio diede quest’ordine agli arditi: — Dategli la caccia e infliggetegli il castigo immediato a ferro freddo.

E non venne. Infine tra tutte queste visite illustri e ignote, ve ne fu una delle più inattese, quella della peste bubbonica, ma fu presto cacciata. D’Annunzio, memore di Napoleone tra gli appestati di Giaffa, volle impavido entrare nel lazzaretto, vedere le piaghe e dare la mano agli infermi dopo essersi tolto il solito guanto bianco.

Nell’anniversario della Santa Entrata il Comandante promulgò la nuova costituzione chiamata: La Carta del Camaro. Voleva risolvere le necessità della vita sociale secondo antiche tradizioni italiane adattale al nostro tempo. Non ammetteva i partiti, ma le corporazioni. Non riconosceva l’uomo come cittadino, ma come lavoratore: — Soltanto i produttori assidui della ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune sono i compiuti cittadini. — Inoltre stabiliva: —      Lo stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. — E ancora: — Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. — A queste vaghe risoluzioni dei problemi sociali contemporanei frammischiava la Corte della Ragione, il Consiglio degli Ottimi e i Giudici del Maleficio come vecchi scenari tolti a certe sue tragedie che talvolta in Fiume diceva di disprezzare. Lo stendardo dello Stato era vermiglio col serpente che si morde la coda: — L’antico emblema dell’eternità —      racchiudente: — Le sette stelle fatali della costellazione dell’Orsa che dalla notte dei tempi conducono la navigazione della gente mediterranea. — Davanti a lui a cavallo, sfilarono tutti i legionari al suono continuo delle fanfare e la giornata si chiuse in una festa notturna per le strade e le piazze, tra balli e canti. AI chiudersi di quel giorno disse agli intimi che: — incominciava la vita nuova con la celebrazione dell’uomo libero. — Veramente con le venti tavole di quella costituzione egli era riescito a soddisfare tanto il comunista Nicola Sisa, compagno di Bela Kun, che vi aveva trovato: ammirevoli elementi quanto il senatore Borletti che ne fu oltremodo entusiasta.

Ma come le stagioni volgono alla loro fine, anche l’impresa di Fiume che egli chiamava: — La quinta stagione — volgeva verso la sua fine.

A Saverio Nitti nella presidenza dei ministri del governo di Roma era succeduto Giovanni Giolitti che D’Annunzio aveva soprannominato: — il vecchio boia labbrone. — Firmato con la Jugoslavia il trattato di Rapallo che creava lo Stato libero di Fiume, con l’obbligo da parte dell’Italia di cacciarvi D’Annunzio e i legionari, fu dato al generale Caviglia l’ordine di impiegare la forza. E con la forza ebbe fine l’impresa.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul Settimanale Il Mondo il 7 giugno 1955, pagg 13/14

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