Domenica Bolscevica. Impressioni di viaggio in Russia di Giovanni Comisso

Mosca, agosto

Oggi è domenica. Mosca ha circa duemila chiese; ogni chiesa ha cinque celle campanarie, ma le campane non suonano. Sibilano nella limpida mattina le sirene e sventolano sul tetto degli edifici pubblici le bandiere rosse. La domenica non è più riconosciuta. I cittadini dell’U.R.S.S. fanno festa per turno ogni cinque giorni: in questo modo si vuole che il lavoro si svolga ininterrottamente. Per vecchie strade sconnesse, dove ogni tanto alle case in pietra ne seguono altre tutte in legno, scende una folla sparsa.

Al di là d’una strada polverosa, giù da uno spalto erboso vi è la Moscova, lenta, nerastra, quasi ferma. Tremuli gran pavesi stanno alzati su da stabilimenti di bagni o da posti di noleggio di sandolini. La città s’inquadra tra la cattedrale di San Salvatore dorata nelle cupole e un enorme edificio in costruzione, rosso di mattoni tra il giallo delle impalcature, sulla sponda dell’isola di fronte. Due ponti sorpassano le acque, verdeggiano le rive, si odono voci di uomini, seduti ignudi sulle gradinate. Più lontano si eleva la massa del Kremlino rosa e bianco, verde nelle acute cime di rame delle torri e d’oro nelle cupole delle piccole chiese e nelle aquile imperiali che sovrastano i tetti.

Lavoro e ozio

Il noleggiatore di barchette a cui si dà come garanzia il nostro passaporto vistane la nazionalità, domanda amabilmente di Venezia e di Napoli. Egli sa qualcosa dell’Italia come il paese del sud e della bellezza. Si parte a lunghi colpi di remo con tutta l’intenzione d’arrivare sino alla Collina dei Passeri, da dove Napoleone assistette all’incendio della città. La giornata è luminosa. Mosca, allontanandosi, palesa tutto l’oro delle sue cupole che brilla nel cielo sopra alla sua miseria e al suo tormento come un’aureola. Su una sponda e sull’altra si distinguono uomini ignudi che prendono il sole a gruppi o isolati e accanto svelti ragazzi che nuotano. Altre barchette filano nella nostra direzione fuggendo la città.

I bagnanti si fanno sempre più numerosi gaudenti di sole e di acqua, di natura e di ozio. Dietro al monumento ai martiri della rivoluzione sta scritto: « Chi non lavora non mangia ». Tutta questa gente che ozia non può avere per coincidenza il proprio turno di riposo giusto oggi. La verità è che il popolo russo non è mai stato un popolo di lavoratori ené la fame, né la legge possono fare il miracolo. Sei mesi all’anno dorme il suo letargo accanto alla stufa e gli altri sei mesi gode del sole per sgranchirsi. Al colmo delle sue forze chiacchiera, discute einsegue fantasie allucinanti.

Repubblica di operai! Mentre le altre nazioni d’Europa hanno questo nuovo elemento sociale da oltre mezzo secolo, la Russia solo ora col piano d’industrializzazione dello Stato comincia ad avere degli operai autentici. Prima dove erano le fabbriche?

E nel medesimo tempo ecco formarsi accanite centurie di sportivi: tutti aspetti europei che solo ora arrivano a questi confini della vecchia Europa. Nella sola Mosca vi sono attualmente settantamila giuocatori di tennis. Falce, martello e racchetta di tennis, dunque, nell’emblema dello Stato. E assolutamente cinquantamila bagnanti.

Per dieci chilometri lungo la Moscova non si sono visti che uomini e uomini distesi al sole; e barche, barchette e motoscafi pieni di gente, con orchestrine d’armoniche e di violini, sempre più numerosi andare e venire col progredire del giorno.

La bella giornata, il sole domenicale, il verde dei boschi, il tepore delle acque distolgono ogni pensiero opprimente. Più non si pensa alle code, alle nauseanti trattorie di Stato, ai sei metri di camera, al pigia-pigia del tranvai.

Vivere d’aria

Il sostentamento riproviene dalla libera natura. Si mangia luce e aria, il corpo assorbe l’atmosfera lieve, l’acqua ritempra. Nessuno porta seco cestini o cartocci di pane e companatico.

Molti stanno distesi sulla sabbia, come per farsi abbracciare dalla terra e riplasmare. Non sono corpi sfiniti, la bellezza e il vigore non mancano; ma pare quasi li domini un segreto calcolo sulle proprio forze.

Questi che hanno resistito ai duri anni della carestia sanno che vuol dire morire di fame. Al vedere questi esseri validi ancora si pensa che le risorse di vita nella specie umana sono superiori ad ogni calcolo sapiente. La gaiezza di tanto in tanto prorompe dai gruppi raccolti nelle grandi barche trainate da motoscafi. Gli altri lungo le rive stanno generalmente muti e fermi, come veramente intenti in un assorbimento d’alimenti diffusi nell’aria.

Ma da una piccola valle al di là d’un grande ponte ferroviario, dove tra il verde del bosco biancheggia l’ampio caseggiato d’un convento adibito ad abitazioni per il popolo, ecco un gruppo d’uomini e di cavalli scendere verso la riva. I cavalli annusano le acque, vi sbattono gli zoccoli, e lasciandosi a momenti prendere da brividi d’ebrezza, risollevano le teste o accennano a nitriti. D’un subito gli stallieri si denudano e balzati in groppa aizzano i cavalli verso il fiume. Uomini e cavalli godono dei movimenti contro le acque, arrivano ad immergersi sino ai fianchi: gli occhi viola dei cavalli fremono gaudiosi. Ravvicinano alla nostra barca: uno stalliere sorride e pensando a un nostro desiderio ci offre per giuoco l’altro cavallo che tiene alla briglia.

Si monta in groppa: è un senso d’inattesa libertà umana che prendo. Le acque si sommuovono arate dalla corporatura fremente della bestia: ci si sente investire dall’onda alla schiena.

Tutto lo stormo pare padrone del fiume e del mondo: si vede l’oro di altre cupole splendere alla periferia della città; i boschi racchiudono pendii illuminati dal sole; l’umanità segna col bianco dei suoi corpi le sponde sabbiose. Il cavallo ci trasporta inebriato tra le acque olivigne: non sente la briglia; bisogna seguire il suo estro.

I dorsi svolti degli stallieri si bilanciano con la frenesia d’un galoppo, i volti si rivolgono sorridenti e le voci assumono toni di canto.

Più non si crede d’essere tra uno dei più tragici e tormentati popoli del mondo. Oh, natura, la tua potenza è senza limiti!

Ritorniamo alla spiaggia; dalla barchetta si prende una scatola di sigarette: « Papiros? » Tutti si fanno attorno, come i loro cavalli se si offrisse dello zucchero. E’ il massimo dono che si possa fare. I corpi bagnati si ricoprono dei vestiti luridi, la carne e la gioia si rinascondono sotto ai cenci e alla miseria. Le sigarette tengono tuttavia desto nello sguardo un sommerso piacere: gli stallieri assaporano il fumo con lentezza, e al saluto con la mano nell’allontanarci rispondono come presi dall’incanto d’un sogno.

Si prosegue e il panorama è tutto un comporsi di boschi in declivio con la luce radente sulle alte cime degli alberi; biancheggiano i corpi e scendono lente le acque. Tra i boschi ogni tanto sul cocuzzolo d’un colle appaiono ville neoclassiche trasformate in sedi di colonie estive per i bambini. Su una delle rive vi è una torpediniera in legno per la propaganda marinara e accanto una tribuna con bandiere rosso al vento. piena di marinai chiassosi che assistono alle gare di voga dei loro compagni. Le orchestrine serpeggiano per la Moscova, ma non si odono canti; in qualche barchetta innamorati romantici.

Sogno e allucinazione

D’improvviso ci si trova davanti ad un recinto, mal chiuso, di tavole dalla parte di terra, e qui grandi donne formose stanno al sole coperte soltanto ai naso da una foglia o da un pezzetto di carta. E’ solo qui che il sole può fare danno. Al di là delle tavole vi sono uomini miserabili che spiano tra le fessure. Si passa vicino e grandi grida di protesta s’alzano da alcune delle bagnanti, che nulla dovrebbero temere perchè immerse nell’acqua, mentre quelle esposte al sole per niente si turbano.

Ma più avanti non vi è alcun recinto che le separi dagli uomini; godono del sole e nè gli uni nè le altre pare se ne preoccupino.

E’ solo molto più avanti che la natura conclude in slanci amorosi l’influsso della magnifica estate. Una guardia rossa discesa da cavallo sta ferma su di un rialzo, rivolgendo con molta malinconia lo sguardo verso certe buche scavate nella sabbia. Essa deve impedire il passaggio attraverso il terreno retrostante dove fischiano i proiettili da un vicino tiro a segno. E dentro alle buche vi sono innamorati che ridono. Il sole diffonde sulla ondulata ampiezza, ora bruna di boschi, ora chiara di prati in declivio, una luce limpida di riflessi come tra specchi. Si scende a terra e si pensa d’attraversare un ponte fatto di tronchi d’albero galleggianti e assieme connessi, che limita il passare delle barche; ma quale non è la nostra sorpresa quando da un uomo che tiene in mano dei biglietti ci si sente invitare a pagar il pedaggio. Erano i nostri comunisti che infierivano contro i pedaggi: sfruttamento del popolo! Qui dopo dodici anni di comunismo, ora più assoluto che mai, ecco che vive ed impera questa forma tirannica di balzello. Sono amare delusioni per gli spiriti puri. Ma il bello fu quando certi comunisti italiani appena arrivati a Mosca, credendosi liberi di cantare per le strade Bandiera rossa, prontamente si videro arrestare perché era bene avere dei sentimenti comunisti, ma non si potevano manifestare quando non ci fosse l’ordine.

Accanto al ponte vi sono dei campi di grano e ci si appressa: si toccano le spighe, ma sono unte inesorabilmente prive di chicchi. Pare che la terra si rifiuti di ubbidire qui dove tutte le leggi s’innestano non nell’uomo e nell’armonia della natura, ma in astratte concezioni figlie del sogno e dell’allucinazione.

« Come è triste la nostra Russia », diceva Puskin a Gogol. Anche in questa domenica viva di sole, la tristezza cova su questa terra come un serpe pronto all’agguato.

La Collina dei Passeri è davanti a noi; il Piccolo Uomo da lì sopra, al vertice della sua potenza, calcati i confini dell’Europa, guardò l’incendio della città santa. Tra i lecci, le betulle e gli abeti vi è gente che cammina solitaria; qualcuno sta intento a leggere; vi sono ragazzi che si divertono ad arrampicarsi sugli alberi con un istinto da primitivi. Dalla cinta si vede la Moscova tortuosa, coi suoi pontili; davanti si distende la pianura; delle chiese s’alzano isolate nella loro costruzione complessa di cupole e di archi, e lontano appare la macchia grigia e biancastra della città.

Non s’alzano le fiamme dell’incendio, ma lo sfavillio delle cupole dorate delle chiese come disperati richiami.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul Corriere della Sera del 19 settembre 1930

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