Dove Marco Polo è divinizzato. Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Canton, marzo

Il porto è costituito da un largo fiume dove grosse giunche a vela e a vapore, barche, barchette e motoscafi sono tutto un andare e venire. La città si estende in grande parte sulle sponde del fiume. E’ un’ampia città cinese, capoluogo del Kuang-tung, provincia di quarantacinque milioni d’abitanti. Centro commerciale, intellettuale e politico importante.

Qui nel 1911 scoppiò la rivoluzione di Sun-Yat-Sen contro il potere imperiale, qui nel 1927 i Russi hanno tentato con Borodin l’esperimento comunista, qui sono nati e si sono segnalati i principali uomini del Kuomintang, o partito nazionalista, oggi predominante.

La vicina Accademia militare di Wampoa, attualmente trasferita a Wai-chow, era una fucina di caporioni politici. Vi è un’Università cinese dedicata a Sun-Yat-Sen, con una Facoltà giuridica assai frequentata e un’Accademia inglese dove i futuri funzionari di S. M. Britannica nell’Estremo Oriente imparano il cinese e s’ambientano.

Il cantonese passa per il tipo più intelligente della Cina.

La città è stata in più punti sventrata, sono stati costruiti lunghe strade asfaltate e bei palazzi moderni: ma ogni quartiere è tagliato da stretti vicoli dove case e vita hanno il più tipico aspetto cinese.

La piccola’ isola di Shameen appartiene parte all’Inghilterra e parte alla Francia. E’ un vero mortorio con la sua continua atmosfera da stato d’assedio: cinta di reticolati, munita di casamatte per mitragliatrici nei punti strategici, congiunta alla riva cinese da due ponti vigilati da gendarmi.

Dopo il tramonto il Cinese non vi può più mettere piede. Grandi alberi danno ombra a queste case dal freddo aspetto inglese.

Passato il ponte, è la Cina autentica che impera con la sua folla polverosa, frettolosa, con gli innumerevoli bambini che giuocano portando i fratellini più piccoli legati sulla schiena, coi suoi soldatacci in babbucce, con le donnine in cappe di seta rosa o celeste.          

Serenità domenicale

Ecco è domenica : ce se n’accorge pure qui, sebbene tutte le botteghe siano aperte. Una piccola isola ridotta a giardino pubblico rasenta la riva: è piena di soldati che si fermano a guardare i monumenti della rivoluzione e una fontana dove un amorino di marmo lancia uno zampillo nella vasca che lo circonda. Uno di questi monumenti, dal tetto appuntito e arricciato alla cinese, porta nella parete, riprodotti in marmo, i gruppi dei cantori di Luca della Robbia.

I soldati si fermano, toccano le figure e ridono, perché nel naso e nel taglio degli occhi non somigliano a loro. Il marmo è tutto ingiallito dalle manate sudicie. Ragazzi sfiniti, orridi, sporchi, con pantaloni ora corti, ora lunghi, fasce e babbucce, berretto calcato sugli orecchi, grigio bluastro del vestito e un cartoncino con iscrizione appiccicato sul petto: ecco come si presenta il soldato cinese.

Se inquadrassero i coolies che tirano le carrozzelle, avrebbero, almeno fisicamente, soldati migliori.

E’ domenica. Un padre, col figlioletto preso per mano, gira tra le aiuole, e alcune servotte fumano orgogliosamente le loro sigarette sedute sulle panchine, impiegatucci o studenti con cappello di feltro e vestito all’europea tengono con vanto infilata al taschino la loro brava penna stilografica. Più in là un vagabondo s’è tolta la camicia e si spulcia. Davanti ad un altro monumento un soldato legge con cantilena agli altri una lunga iscrizione in bronzo.

Tutto attorno all’isoletta non vi sono che sam-pan, queste barchette col felze arcuato, una vicina all’altra, e lungo le rive del fiume pure, a migliaia e a migliaia e tutte piene di donne: giovani, vecchie e bambinelle. Abbandonate o comperate per poco da piccine, vengono messe in questi asili natanti per crescere abili traghettatrici e prostitute nello stesso tempo. Esercito di donne, alla sera, tutte a terra, sulla riva, strepitanti nei richiami. Ma sul fiume vi sono anche grandi giunche fastosamente dipinte a fiorami sui bordi, con lunghe bandiere al vento. Venti anni fa ve n’erano circa cinquecento, — una città galleggiante, — e si passava da una all’altra: un incendio le distrusse tutte e centinaia di ragazze perirono. Ora sono poche giunche.

Festa di luci sul fiume

Dopo il tramonto, quando la nebbia sale leggera e il cielo appare a squarci illuminato d’arancione, in queste giunche incominciano le musiche. Grandi lanterne di carta rossa all’interno: giovanette che cantano accompagnandosi al cembalo e a una specie di mandolino oblungo. Voci lievi e indimenticabili unitamente all’armonia del suono.

Vi sono stanzette tutte foderate di seta bianca ricamata a fiori e a paesaggi: in alcune si mangia o si gioca, altre servono per fumare l’oppio e per l’amore. Grandi vasi con rami fioriti. Figurette strette nelle cappe di seta appaiono nella penombra: i volti incipriati hanno brevi sorrisi, e di sfuggita come spaurito l’occhio riguarda.

La giunca va su e giù per il fiume: nella notte, attorno i lumicini dei sampan e tutte le luminarie sulle facciate delle case lungo il porto.

Si ha l’impressione di una continua vita di baldoria. Sfarzo di luci davanti ai teatri, agli alberghi e ai cinematografi. Fracasso di musiche dai «restaurants» e per la strada. Negozi, bazar sempre aperti, pieni di gente che compera, di gente che guarda, di gente che vende. Vi è tutto un palazzo di cinque piani che funziona da grande magazzino: ascenseurs, magnifico scalone e merci di primo ordine. Frotte di miserabili circolano frammisti alla folla, perché vogliono vedere i lussuosi prodotti europei. Folla, folla innumerevole sotto ai portici, nelle automobili, negli autobus, in carrozzella, e altra che si scarica dai battelli in arrivo da Hong-Kong o da Macao e dalle giunche a vapore da Wu-chow e da Wai-chow. A cinquecento chilometri da qui la guerra ondeggia, a dieci chilometri si possono incontrare i banditi: con tutto questo la vita si svolge! frenetica nel commercio e nel divertimento.

Negli autobus s’incontrano rappresentanti di ditte tedesche con la busta di cuoio sotto al braccio chiusi e impettiti come dominati da un solo pensiero: diffondere la produzione del loro Paese. Ai crocicchi i poliziotti che danno la direzione alle vetture portano ad armacollo il fucile con la baionetta inastata. Passano pattuglie di soldati svogliati e lividi, e altre di annunciatori di spettacoli fiere e impettite con bandiere e trombette. Di tanto in tanto un aeroplano sorvola la città a bassa quota con arditi volteggi: viene dal vicino campo militare. Sono di fabbrica francese o tedesca; ma i piloti sono cinesi e disprezzantissimi della morte.

«Mussolini, Mussolini»

Nella strada delle banche tintinnano le monete: i ragazzi le fanno saltare nei panieri, come se pulissero il grano dal loglio. Vi sono vicoletti che avvincono col loro aspetto. Le pareti delle casette di nitidi mattoni grigi; le porte lasciano intravvedere la sala d’entrata con l’altare agli avi illuminato. Due suonatori ambulanti sono fermi su d’una soglia: uno suona un violino a due corde con la cassa fatta di mezza noce di cocco, l’altro, un piffero. Più avanti un incisore di timbri curvo sul lavoro minuto, un venditore di uccelli e poi, uno di seguito all’altro, quelli di anticaglie: hanno appeso alle mura delle case vecchi dipinti gualciti; per terra piattini di porcellane, giade e oggetti indefiniti.

Uno fuma l’oppio in un’ingiallita pipa di bambù e brucia la pasta alla brace d’un bastoncino di sandalo.

In un negozio alcuni ragazzi preparano con gravità enormi teste di drago di cartone. Un sarto lavora accanito. Diffidano al sentirsi osservare, ma al sorriso corrispondono col sorriso. Nessuno mendica. Nessuno importuna. Nelle vendite richiedono prezzi esagerati, ma accettano sempre la controfferta al disotto della metà.

Nel ricercare il tempio dei Trecento Geni, dove il nostro Marco Polo sta lì divinizzato, sbaglio e penetro in un tempio occupato da un circolo politico nazionalista. Grandi bandiere blù col sole a raggi appuntiti. Vi sono alcuni studenti che impacchettano opuscoli. Mi ricevono gentilmente: dico che sono italiano, mi fanno vedere la sala delle riunioni.

Davanti a un ritratto di Sun-Yat-Sen pronuncio con rispetto questo nome e loro come per ricambiare mi ripetono animosi: «Mussolini, Mussolini». Poi loro stessi mi accompagnano fino al tempio.

L’offerta a Marco Polo

Sembra fatto di pietra serena, un po’ impolverata: due grandi divinità dorate e dipinte di verde e di rosso stanno elevate tra le colonnine della tettoia a guardia della porta.

Il bonzo apre. Nella fresca penombra appaiono allineati e seduti su sopraelevature di pietra lungo le pareti innumerevoli gli iddii dorati o rossastri dalle larghe facce sorridenti, dai ventri ampi, segno di saggezza, in attitudini estatiche, affabili o minacciose. Marco Polo è un po’ dietro all’altare, il primo d’una fila.

Eccolo, tarchiato, col cappello di feltro all’europea e mantello sulle spalle, le mani in atto di spiegare. Un bel volto massiccio di viaggiatore a piedi, con la barba ricciuta che gli circonda il collo come un collarino. Gli hanno orientalizzato naso e orecchi.

Davanti a lui bruciano i bastoncini di sandalo offerti dai fedeli. Come non compiere con devozione pure noi quest’offerta? Ma come non sentir pena? Nessun commerciante italiano in questa Canton famelica di merci europee: solo lui della nostra razza, qui da secoli ad attendere nella sua serena, sorridente, dorata immagine di iddio.

Egli il primo europeo in Cina, amato per le sue opere, viceré imperiale, maestro di pazienza e di sicurezza nelle sue marce infinite, pare che dica: « Venite, la strada è dura, ma vi farò da guida».

Giovanni Comisso

Pubblicato sul Corriere della sera il 9 aprile 1930

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