“‘e nostre Sirie de l’anema”. Silvia De March su un inedito di Fabio Franzin

Vivacissima, a volte pretestuosa, a volte necessaria, oggi la poesia dialettale è un terreno ancora competitivo e complementare rispetto a quella in lingua. La sua tradizione, di lunga data e delineata da antenati illustri, pone una sfida che talvolta è sottovalutata e decisamente persa sul piano delle motivazioni profonde d’ispirazione.

Non è questo il caso di Fabio Franzin, poeta di Motta di Livenza attivo dal 2005, che ha saputo interpretare, rinnovandola nei contenuti, l’attitudine critica e contestatoria della scrittura dialettale, accordandola alle trasformazioni del presente. Per lui potremmo scomodare la categoria di post-neorealismo, indicando così l’abbandono del pauperismo, della retorica moraleggiante, del descrittivismo mimetico:

lo sguardo di Franzin vola a pelo d’acqua sul presente, isolando in modo fotografico, attraverso pochi connotati, circostanze comuni che nel loro insieme restituiscono le caratteristiche della società contemporanea. In poche parole, Come che a va.

E’ questo il titolo dell’inedito che l’autore regala ai lettori del sito del Premio Comisso. In esso si registrano dati apparentemente scontati: da una parte la difficoltà della convivenza civile, cativerie / basse […] conzhàdhe de miseria / e ignoranza, dispèti; dall’altra un individualismo che azzittisce nell’indifferenza il richiamo all’empatia e alla solidarietà e, attraverso l’esibizionismo tipico di una civiltà dell’immagine, culla l’illusione de èsser sicuri in fra ‘e sponde / alte che ‘assafòrael mal. Brutalità e abbruttimento sono inaspriti da un lessico che non usa mezzi termini e che punta sulle proprie sonorità per accentuare gli effetti dei contenuti: zentincarognìdha, se scanénpèdho dee bestie,chelòta / tiistretirezhinti de odio e sospèto. La concretezza espressionistica del linguaggio talvolta raggiunge senza esiti che non possiamo non percepire con estrema vividezza, come nel caso del distico che definisce l’epoca attuale tale da cavàrne via eldomàndaa carne, / speàr ‘a speranza dai òci che sogna.

La giustapposizione con alcuni specifici elementi, tuttavia, dà uno spessore più complesso e riflessivo a ciò che potrebbe apparire il semplice sfogo di una sensibilità un po’polemica. La natura conflittuale dell’uomoche si palesa nei microcosmi locali trova corrispondenza nel secondo attacco con leguère e bruturerestituite da tutto il mondo attraverso gli schermi: Anca qua ven ‘e/ nostre Sirie de l’ànema, ‘e nostre/picoe Apocalisse... L’accostamento amplifica la percezione di una pena universale, a cui l’uomo stesso si autocondanna irrimediabilmente. L’autore non si limita a ribadire il principio hobbesiano homo homini lupus ma pone significativa attenzione al contesto in cui vanno in scena le barbarie / fra poareti: è uno sfondo puntellato di fabriche, ofici, condomini coeonbère e variamente perturbato dall’ansia pa’l mutuo, ‘a machina / da canbiàr, ‘a rata dea paèstra. Viene quindi da chiedersi se sia il nostro egoismo congenito a dare oggi la peggiore prova di sé in una realtà pì cruda, bastarda e busiéra; oppure se sia un insieme di pressioni “ambientali”a sollecitare i nostri istinti peggiori e ad alienarci lo stupore perelmiracoeo de èsser vivi.

L’intreccio di riferimenti alle vite private ed individuali e alle situazioni sociali e collettive è la cifra forse più originale della poetica di Franzin e determina quel respiro niente affatto campanilistico che accentua l’interesse per la rappresentazione di una realtà provinciale in cui si intercettano le grandi trasformazioni delle strutture e delle sovrastutture.

Il dialetto, assimilando questioni trasversali, mette in rilievo quanto lo scarto tra la dimensione locale e quella globale si sia appiattito, quanto pervasivi siano alcuni processi e quante poche o nulle difese abbiano le singole identità. E ci riesce restituendo l’immediatezza dei discorsi privi di giri di parole, di filtri intellettualistici, di astrazioni.

Quella compiuta da Franzin non è dunque una scelta per un amarcord un po’ revisionista riconoscibile in alcuni suoi colleghi: essa esprime un’intenzione mimetica che riproduce non soltanto il mezzo espressivo ma anche il processo, sintetico e associativo, che quel mezzo favorisce.

Il linguaggio de l’amigo o de eldotòrche si incontrano drio un cantòn dea vita, o del paese è sottoposto a un lavorio formale dissimulato. I versi si assestano su una misura omogenea, approssimata all’endecasillabo, come un tempo predeterminato che riconfigura il discorso quotidiano sottraendolo all’informalità. L’andamento è volutamente piano e continuativo, riproducendo un atteggiamento riflessivo. Tuttavia, per un apprezzamento integrale del ritmo e delle sonorità, attendiamo presto un’interpretazione dal vivo da parte dell’autore.

Il dialetto quindi viene maneggiato come uno strumento modernissimo. Se c’è uno sguardo al passato, è quello che vaglia criticamente quale eredità ci è rimasta dal nostro sforzo di costruire la Storia.

Fabio Franzin

 (Nel dialetto Trevigiano dell’Opitergino-Mottense)

 Come che ‘a va

I

Come che se ‘o dise squasi sotvose

(a denti strenti, poc convinti e forse

parfin un fià colpévoi?) chel “ben”

in risposta al sòito “come che ‘a va”

de l’amigo incontrà al bar, dal dotór,

drio un cantón dea vita, o del paese.

Sì, ‘a saéute ‘a ‘é. ‘i schèi no’ manca,

epùra par che nianca questo baste pì

a vèrderne un sorìso sincero, a farne

gustàr intièro el mìracoeo de èsser vivi.

E po’ chel “dài” zontà in coda, che lo

fa ‘ncora pì pìcoeo, senza màiuscoea,

schinzhà da ‘na realtà che se scòea via

dae man, altra da quea strendùdha fin

qua, pì cruda, bastarda e busièra, tant

da cavàrne via el domàn daa carne,

speàr ‘a speranza dai òci che sogna,

spuàrghe dòss al sest che no’ cede

a l’andazo, che ‘l modhèa gropi sacri.

 I

 Come lo diciamo quasi in un sussurro / (a denti stretti, poco convinti e forse / persino un po’ colpevoli) quel “bene” / in risposta al consueto “come va” / dell’amico incontrato al bar, dal medico, / dietro un angolo della vita, o del paese. // Sì, la salute c’è, i soldi non mancano, / eppure sembra che neanche questo basti più / a far sbocciare un sorriso sincero, a farci / gustare intero il miracolo di essere vivi. // E poi quel “dai” aggiunto in coda, che lo rende / ancora più esile, senza maiuscola, / schiacciato da un realtà che si scolla via / dalle mani, altra da quella stretta sinora, / più cruda (e crudele), bastarda e menzognera, tanto / da estirparci il futuro dalla carne, / spellare la speranza dagli occhi sognanti, / sputare addosso al gesto che non cede / all’andazzo, che modella sacri legami.

II

Che no’ le ‘é sol figure distante,

guère e bruture. Anca qua ven ‘e

nostre Sirie de l’ànema, ‘e nostre

pìcoe Apocaisse… zherte cativerie

basse de zent incarognìdha, poc pì

de dispèti in fondo, se no’e fusse

a gratis, conzhàdhe de miseria

e ignoranza. ‘Ste nostre barbarie

fra poareti, drento fabriche e ofìci,

drento condomini coeonbère ‘ndo’

che se scanén pèdho dee bestie,

corpi de zhigo e onge che lòta

tii streti rezhinti de odio e sospèto.

‘A va cussì, e cussì va in maeóra

el ben, e se par caso el ne zhigna,

passando, no’ savén pì riconosserlo,

se sta, baùchi, come statue de cristàl

che casca tel cimento, senza cussìn

a ciapàrne, senza fiducia in nissùni.

II

 Che non sono solo immagini lontane, / guerre e tragedie. Anche qui scontiamo le / nostre Sirie dell’anima, le nostre piccole Apocalissi… Certe basse crudeltà / di gente incarognita, poco più / che soprusi in fondo, non fossero / gratuite, infarcite di miseria / e ignoranza. Queste nostre barbarie / fra poveri, dentro fabbriche e uffici, / all’interno di condomini colombaie dove / ci scanniamo peggio delle bestie, / corpi di grida e unghie che lottano / entro l’angusto ring dell’odio e del sospetto.  // Va così, e così va in malora / il bene, e se per caso ci ammiccasse, / passando, non sapremo più riconoscerlo, // si sta, inebetiti, come statue di cristallo / gettate sul cemento, senza cuscino / ad attutire, senza fiducia in nessuno.

III

Opùra saràeo sol ‘na mé fisima,

parlée par mì, par come che vive

mì ‘sto tenpo senza pì creanzha?

Che ai pì ‘e tragedie de cheàltri

‘e ghe passa parsora che l’atimo

‘e dopo ‘e se siòlde via, tanto

no’ li riguarda, e ‘lora resta sol

l’ansia pa’l mutuo, ‘a machina

da canbiàr, ‘a rata dea paèstra…

Che ai pì basta che ‘a ròdha

continue a giràr, qua, continue

a contàr ‘e sòite ròbe, costesse

anca svénder ‘a dignità, darla

via in saldo, cussì da far cassa

e ‘vanti, tel circo de mostrarse,

farse ‘a foto davanti ‘a pissìna.

Che i pì ghe risponde “benon”

a l’amìgo, e l’amìgo dise “anca

mì”. Cussì i se saeùda contenti

de èsser sicuri in fra ‘e sponde

alte che ‘assa fòra el mal, cussì

senpio mì che contento no’ son?

III

Oppure sarà solo una mia fisima, / parlavo per me, per come vivo / io questa epoca senza più creanza? // Che ai più le tragedie altrui / gli passano sopra quell’attimo / e poi si disciolgono, tanto / non riguardano loro, e allora rimane solo / l’ansia per il mutuo, l’auto / da cambiare, la rata della palestra… // Che ai più basta che la ruota / continui a girare, qui, continuino / a contare le solite cose, costasse / anche svendere la dignità, darla / via in saldo, così da far cassa / e avanti, nel circo dell’esibire, / farsi il selfie di fronte alla piscina. // Che i più rispondono “benone” / all’amico, ed esso aggiunge “anche / io”. Così si salutano lieti / sentendosi al riparo fra le sponde / alte che chiudono oltre il male, così / stolto io che lieto non riesco più ad esserlo?

NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE

Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. E’ redattore della rivista di civiltà poetiche “Smerilliana”.

Ha pubblicato le seguenti opere di poesia

Il groviglio delle virgole, Stamperia dell’arancio, 2005 (premio “Sandro Penna”), Pare (padre) Helvetia, 2006, Mus.cio e roe (Muschio e spine), Le voci della luna, 2007 (premio “San Pellegrino”, premio “Insula Romana” e premio “Guido Gozzano”) , Fabrica, Atelier, 2009 (Premio “Pascoli”, Premio “Baghetta”), Rosario de siénzhi (Rosario di silenzi – Rožni venec iz tišine) Postaja Topolove, 2010, edizione trilingue con traduzione in sloveno di Marko Kravos, Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera) Edizioni Prioritarie, 2010, Co’e man monche (Con le mani mozzate) Le voci della luna, 2011 (premio “Achille Marazza”, finalista al premio “Antonio Fogazzaro”, Canti dell’offesa, Il Vicolo, 2011, Margini e rive, Città Nuova, 2012, Bestie e stranbi, Di Felice (I poeti di Smerilliana), 2013, Fabrica e altre poesie, Ladolfi editore, 2013, “Sesti/Gesti” Puntoacapo, 2015, Erba e aria”, Vydia, 2017.

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