“Esperimenti e istituzioni. Corsi di design all’Università Iuav di Venezia” di Medardo Chiapponi

Un’avvertenza iniziale è dovuta ai lettori di questo testo: esso è essenzialmente una riflessione in prima persona su una vicenda, per certi versi straordinaria, a cui l’autore ha avuto la fortuna di partecipare. Va quindi valutata con tutte le cautele che meritano le testimonianze dei protagonisti ai quali è giusto attribuire tutte le responsabilità connesse al loro operato.

A loro resta comunque la convinzione di aver vissuto un’esperienza singolare e la speranza che questa possa essere utile a qualcuno e a qualcosa.

I corsi di laurea triennale e magistrale in design sono nati all’Università Iuav di Venezia in una fase speciale dell’Università italiana e della medesima Università Iuav.
Specifici corsi di studio in design erano stati introdotti da pochi anni (1994) nel sistema universitario italiano. Si trattava in quella fase iniziale di un unico corso di laurea quinquennale al Politecnico di Milano e di diplomi universitari triennali in alcuni Atenei tra cui l’allora Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

L’anno accademico 2001-­2002 segna l’avvento di due importanti innovazioni. A livello nazionale prende avvio una nuova organizzazione dei corsi di studio in design, sostituendo laurea quinquennale e diploma universitario triennale con due corsi di laurea uno triennale e uno biennale pensati in successione, è la nascita del cosiddetto modello 3+2. L’Istituto Universitario veneziano, nel frattempo, si trasforma in Università Iuav di Venezia e affianca alla storica Facoltà di Architettura una Facoltà di Pianificazione e una di Design e Arti in cui trovano posto il corso di laurea triennale in Disegno industriale (trasformazione del preesistente diploma universitario) e, in seguito, il corso di laurea specialistica in Design del prodotto e della comunicazione visiva e multimediale e il dottorato di ricerca in Scienze del design (1).

In quel momento una serie di concomitanti situazioni favorevoli crearono le condizioni per impostare in modo particolarmente innovativo, con riferimento al contesto universitario italiano, i corsi di design. Tra le principali situazioni favorevoli si possono citare il sostegno dell’Ateneo, anche nei riguardi del Ministero, al nascente progetto e la sua collocazione in una Facoltà di Design e Arti comprendente corsi di laurea diversi tra loro (oltre a design, arti visive, scienze e tecniche del teatro e, poco più tardi, moda, ma accomunati dalla condivisione di riferimenti culturali e obiettivi formativi(2).

Altro fattore peculiare, non ultimo per importanza, era un rapporto molto stretto con un tessuto imprenditoriale e produttivo come quello di Treviso di cui era espressione tangibile il supporto della Camera di Commercio(3).

In estrema sintesi si può dire che il principale fattore di innovazione su cui hanno potuto contare la Facoltà di Design e Arti, e i corsi di design al suo interno, è stata la possibilità di creare un sistema formativo articolato prescindendo in buona misura da logiche puramente accademiche, introspettive e, di fatto, autoreferenziali.

Questa condizione testimoniava la lungimiranza di un Ateneo che sapeva guardare alle esigenze di una realtà esterna al contesto accademico per definire i propri progetti e le proprie priorità.
Al tempo stesso, rendeva quell’esperienza rara, se non unica, nel panorama universitario italiano facendone così un punto di riferimento anche a livello internazionale e inserendola a pieno titolo nella migliore tradizione dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

Non c’era, nella storia delle istituzioni formative, un modello unico con cui confrontarsi. Molti di noi prendevano come riferimento la linea di sviluppo che, partendo dal Bauhaus, è proseguita con la Hochschule für Gestaltung Ulm da un lato e, dall’altro, le diverse riedizioni del Bauhaus negli Stati Uniti. Sovente però ognuno di noi aveva in mente fasi e protagonisti differenti della stessa istituzione.

Questa pluralità di modelli di riferimento e la varietà di interpretazioni e preferenze nell’ambito del medesimo modello rendevano pressoché inevitabile una presa di coscienza critica del modo di rapportarsi alle esperienze ispiratrici.

Ciò significava di fatto non inseguire una loro a-­-storica riproposizione integrale bensì prenderne alcuni elementi qualificanti e calarli nel contesto storico (istituzionale, culturale, sociale, economico ecc. ) contemporaneo. (4)

Tra i principali elementi che hanno caratterizzato tanto i modelli storici di riferimento quanto i corsi di design e l’intera Facoltà di Design e Arti vanno certamente ricordati il marcato carattere sperimentale e un’ampia possibilità di scelta, inusuale per la situazione italiana, per ciò che concerneva gli insegnamenti e i rispettivi docenti. Scelta abbastanza eccezionalmente libera di prescindere da logiche tipicamente accademiche e orientata a perseguire obiettivi formativi avanzati. L’insieme di queste condizioni ha costituito un forte fattore di attrazione per importanti studiosi provenienti dal mondo accademico, ma anche per professionisti e artisti esterni.(5) Tanto che il progetto formativo della Facoltà, e in buona misura anche dei corsi di design, era basato più sulla pluralità di contributi e sul confronto di idee, riferimenti culturali e poetiche che non su una rigida struttura organizzativa.

In altre parole, uno dei principali fattori che hanno contribuito a connotare la nascita e lo sviluppo di quella sperimentazione, e a determinarne i risultati positivi che le si possono riconoscere, è stato la presenza di un gruppo di persone che ne condividevano principi ispiratori e obiettivi.(6)

Ciò era vero soprattutto con riferimento alla laurea magistrale. Un maggior numero di principi “strutturali” ha invece connotato fin dall’inizio il corso triennale di design dell’Università Iuav di Venezia. Dal punto di vista dei contenuti l’opzione più innovativa anche rispetto al panorama internazionale è stata quella di non avere corsi di laurea nettamente distinti tra design del prodotto e design della comunicazione bensì un unico corso di laurea integrato. Le ragioni di fondo di tale opzione sono la crescente importanza delle aree tematiche di intersezione tra prodotto e comunicazione e i requisiti delle occasioni di lavoro che ai laureati triennali è in grado di offrire un sistema imprenditoriale caratterizzato da una netta prevalenza di imprese medie, piccole e piccolissime.(7)

Ci si doveva inoltre confrontare con una diretta conseguenza della consapevole assunzione della struttura “seriale” del 3+2 e delle differenze sostanziali che ne derivano rispetto ai percorsi formativi a ciclo unico propri tanto dei modelli di riferimento internazionali quanto della tradizione universitaria italiana.

La necessità di formare allievi che dopo la laurea di primo livello fossero in grado di optare, avendo la preparazione necessaria, sia per entrare nel mondo del lavoro, sia per proseguire gli studi accedendo al secondo ed eventualmente al terzo livello, imponeva una radicale revisione dei contenuti e della struttura organizzativa. La formazione professionalizzante non poteva più essere collocata al termine del percorso ma doveva essere anticipata nel triennio.

A ben vedere, si doveva anche distinguere tra due diversi tipi di professionalità da ottenere in successione. Obiettivo della laurea di primo livello era l’acquisizione di quella che si può definire una “professionalità ristretta”, ossia una cassetta degli attrezzi concettuali, metodologici e tecnico-­-operativi che consentissero, dopo il completamento del ciclo triennale, di inserirsi nel mondo del lavoro con il know-­how di base richiesto. Diverso il discorso della laurea magistrale in cui l’obiettivo era di fornire agli allievi una “professionalità allargata” che comprendesse, oltre alle conoscenze strumentali e operative, anche la consapevolezza delle ragioni del proprio operare e una conoscenza approfondita dei mutamenti in atto nella cultura materiale contemporanea.

Ciò ha richiesto un equilibrio mutevole tra insegnamenti teorici e storici, da un lato, ed esercitazioni progettuali dall’altro, nonché un progressivo passaggio da una didattica in cui prevale la trasmissione di conoscenze e competenze a una in cui aumenta il “tasso di ricerca” nell’esperienza degli allievi che diventano sempre più soggetti attivi nella produzione di conoscenze e competenze. Progressivo è anche il grado di responsabilizzazione degli allievi che procedono da una laurea triennale in gran parte etero-­organizzata a una magistrale in cui prevalgono principi di auto-­organizzazione con la possibilità per ognuno di decidere quali insegnamenti seguire prima e quali dopo e di scegliere tra numerose attività opzionali.

Tra le premesse che hanno reso possibile una simile impostazione si deve menzionare il numero contenuto di allievi ammessi che consentiva, tra l’altro, di svolgere al meglio le esercitazioni progettuali grazie anche a un’interazione diretta tra docenti e studenti.

Infine, la consistente presenza di docenti esterni all’università è stata fin dall’inizio una scelta strategica dell’intera Facoltà motivata, nel caso dei corsi di design, da una riflessione sulle modalità e persino sulla possibilità di insegnare a progettare prodotti e artefatti comunicativi. In particolare, le circostanze e i modi in cui si insegnano e si apprendono attività professionali creative, tra cui va incluso a pieno titolo anche il design, pongono questioni di primaria importanza nel momento in cui tale insegnamento viene istituzionalizzato e collocato in un contesto universitario.

È opinione diffusa, in verità supportata dalla storia con esempi piuttosto numerosi e convincenti, che attività di quel tipo si imparino in un luogo in cui altri le pratica (dalla bottega dell’artista o dell’artigiano, allo studio professionale) mediante un apprendistato durante il quale si osserva un maestro, si viene gradualmente resi partecipi delle sue tecniche e dei suoi segreti professionali, si prende parte alla realizzazione di concreti progetti selezionati e svolti con una logica interna a quel preciso posto di lavoro e così facendo si acquisiscono un’autonomia e una professionalità sempre maggiori.

I progetti sviluppati dagli allievi in una bottega o in uno studio professionale diventano dunque lo strumento principale per una iniziazione professionale mediante un processo di learning by doing. Ciò avviene però in un ambiente in cui la formazione non è l’obiettivo prevalente, o almeno non è un’attività autonoma rispetto a quella produttiva.
Al contrario l’una e l’altra sono strettamente connesse, l’allievo impara svolgendo compiti funzionali alla produzione e l’insegnamento è riservato a chi dopo l’apprendistato continuerà a lavorare nella medesima struttura che lo ha formato. In questa situazione gli allievi imparano separatamente aspetti parziali della loro professione svolgendo parti di un progetto la cui visione d’insieme è riservata al maestro. Inoltre, la scelta dei progetti su cui essi si applicano non è funzionale a un disegno formativo pensato appositamente per loro, bensì alle opportunità e alle prospettive di lavoro della struttura in cui stanno operando.

Una novità importante in vista dell’ingresso nell’università della formazione di design è costituita dalle scuole professionali in cui l’insegnamento è reso autonomo dalla pratica professionale quotidiana ed è collocato in strutture ad hoc. La loro presenza significa di fatto che esiste un corpus di conoscenze, di procedure e persino di linguaggi condivisi tra chi opera in diversi luoghi e in diversi settori produttivi. In un certo senso, ciò segna il passaggio da una formazione pensata per un contesto artigianale a un’altra funzionale a processi produttivi industriali e in cui si riconosce il valore di una specifica preparazione precedente all’esperienza professionale.

L’esperienza sul campo tuttavia conserva un ruolo formativo fondamentale in quanto serve per la trasmissione delle cosiddette conoscenze implicite, ossia di quelle conoscenze non formalizzabili e comunicabili sedimentate in un’azienda o in uno studio professionale e che ne costituiscono uno dei patrimoni più preziosi.
Rappresenta anche il momento cruciale in cui le conoscenze acquisite in precedenza vengono messe a confronto con una specifica realtà e per ciò stesso sottoposte a verifica e integrate dal know-­how specifico del luogo di lavoro, impresa o studio professionale che sia.

Nei corsi di design dell’Università Iuav di Venezia dunque si è attribuito fin dall’inizio un valore strategico alle esercitazioni progettuali e al contributo di professionisti che portano all’interno dell’università e offrono agli studenti la loro esperienza e la loro rete di relazioni. Altrettanto strategica si è considerata una formazione teorica ampia, approfondita e articolata, capace di fornire elementi di giudizio e punti di riferimento agli studenti, in una fase di mutamenti rapidi e profondi della cultura materiale in cui saranno chiamati ad affrontare in modo euristico temi progettuali che soltanto in parte avranno sperimentato nel corso della formazione universitaria. Illuminanti a questo proposito sono le caratteristiche della formazione dell’architetto individuate da Vitruvio:

“l’architetto è un professionista completo[… ] che abbia una istruzione letteraria, che sia esperto nel disegno, preparato in geometria, che conosca un buon numero di racconti storici, che abbia seguito con attenzione lezioni di filosofia, che conosca la musica, che abbia qualche nozione di medicina, che conosca i pareri dei giuristi, che abbia acquisito le leggi dell’astronomia”.(9)

Se una formazione che include una grande varietà di conoscenze, non tutte immediatamente impiegabili nell’attività professionale, era ritenuta necessaria per un architetto del I secolo A.C. certo, e a maggior ragione, è indispensabile per un designer chiamato a operare più di venti secoli dopo su una realtà che gli richiede una professionalità ampia.
Il sostanziale disinteresse per una diretta e circoscritta applicabilità professionale delle conoscenze acquisite differenzia peraltro il modello formativo che, almeno per un decennio, ha informato la scelta delle discipline teoriche offerte nella magistrale di design anche rispetto agli insegnamenti di base impartiti nei primi anni dei corsi quinquennali a ciclo unico.
Questi ultimi infatti consistevano in un preludio necessario alla formazione professionale che sarebbe seguita.

Col trascorrere degli anni sono inesorabilmente mutate le condizioni che avevano favorito la nascita e consentito lo sviluppo dei progetti originari, strettamente intrecciati tra di loro, della Facoltà di Design e Arti e dei corsi di laurea di design. I principali mutamenti, di fatto responsabili del venir meno della possibilità di proseguire sulla via della sperimentazione, sono da individuare principalmente negli effetti indotti all’interno dell’Università Iuav di Venezia da cambiamenti che hanno interessato il sistema universitario e l’intero Paese.
Non si intende con ciò disconoscere le responsabilità del gruppo che ha gestito la fase di transizione.

Non vi è dubbio però che la drastica riduzione delle risorse, finanziarie ma soprattutto umane, che ha afflitto l’università italiana e l’inasprirsi di vincoli normativi di ordine generale particolarmente dannosi per le peculiari esigenze di corsi di studio come quelli di design (esemplari in questo senso le normative che intendono ridurre al minimo indispensabile l’offerta formativa e specialmente diminuire la presenza essenziale di professionisti esterni) hanno comportato conseguenze pesanti.

Per esempio, hanno incentivato in tutta l’università italiana l’impegno intensivo dei pochi docenti interni rimasti anche prescindendo, seppure parzialmente, dalle loro competenze, dai loro interessi scientifici e dalla rispettiva congruenza con un progetto formativo che abbia al centro dei propri interessi gli studenti e la loro capacità di rispondere, grazie al processo formativo di cui sono stati protagonisti, alle presenti e future richieste della società. A questo si aggiunga la progressiva burocratizzazione non soltanto dell’università ma anche di molte altre articolazioni istituzionali della nostra organizzazione sociale, tanto da lasciare intravedere una generale linea di tendenza, per cui gli adempimenti prevalgono nettamente sui progetti e sulle visioni.

Senza indulgere al vittimismo e senza quel nostalgico rimpianto che troppo spesso contraddistingue gli atteggiamenti di chi è stato protagonista di un’esperienza terminata, non resta ora che confrontarsi con la situazione attuale e cercare di capire quali aspetti del progetto originario siano da considerare irrinunciabili e quali nuovi siano da integrare per impostare al meglio corsi di laurea in design che devono ormai rinunciare al loro carattere spiccatamente sperimentale. La laurea triennale non passa indenne questa fase ma, partendo da un’impostazione più strutturata, ha meno difficoltà ad adattarsi a un ingresso nell’alveo dell’istituzione universitaria.

La trasformazione più incisiva riguarda certamente la laurea magistrale che non può più affidarsi all’azione del suo gruppo originario di docenti interni e di professionisti per interpretare i bisogni della società e trasformarli in una didattica e una ricerca che vedano gli studenti come protagonisti attivi ma deve basarsi anch’essa su una maggiore formalizzazione istituzionale.
Ciò a cui non si vuole rinunciare è la differente caratterizzazione della laurea triennale e di quella magistrale distinguendo, per quanto riguarda quest’ultima, tra il limitato numero di laboratori progettuali e di corsi teorici caratterizzanti concessi dalla normativa e un’ampia offerta di insegnamenti che gli studenti possono scegliere liberamente attingendoli anche da altri corsi di studio al fine di assicurare nell’insieme un’offerta formativa equilibrata tra laboratori progettuali e corsi “professionalizzanti” da un lato e, dall’altro, una visione “vitruviana” della formazione dei futuri designer. Altre caratteristiche che si intende conservare sono una struttura della laurea magistrale che responsabilizzi gli studenti e li addestri all’auto-­organizzazione e, soprattutto, il ruolo strategico dei professionisti esterni. Determinante continua ad essere anche il rapporto tra didattica e ricerca. Rapporto inteso non tanto in un’ottica monodirezionale di trasmissione agli studenti nella didattica dei risultati della ricerca svolta dai docenti, bensì come piena realizzazione dei compiti peculiari di un’università, ossia trasmissione, messa in discussione e creazione di sapere grazie all’interazione tra docenti e studenti.

In pratica, il nuovo corso di laurea magistrale in design si articola ancora in due curricula: Design del prodotto e Design della comunicazione. Ciascuno dei due curricula offre una formazione specialistica ma, anche in continuità con la laurea triennale, assumono una notevole rilevanza le aree tematiche di intersezione, anche al fine di affrontare con strumenti adeguati le innovazioni indotte nella cultura materiale dall’applicazione delle tecnologie emergenti. Un ulteriore fattore di caratterizzazione è costituito da una particolare enfasi su un design attento ai contenuti sociali (per esempio, salute benessere e sport; nuovi sviluppi della domotica; mobilità sostenibile) della progettazione.

Ad altri spetterà decidere se queste scelte debbano essere confermate o riviste, ma soprattutto se esse siano efficaci e congruenti con la nuova fase che si è aperta. Una fase importante perché segna il passaggio dalla sperimentazione, per sua natura destinata ad avere una fine, alla piena istituzionalizzazione universitaria dei corsi di studio in design. Tale passaggio si è già verificato in altri settori come medicina, giurisprudenza, lettere, ingegneria, architettura e ha sancito, al termine di un processo più o meno lungo, il loro consolidamento disciplinare definendone in modo stabile obiettivi, contenuti e metodologie. (10) In questo modo si rende anche esplicito e riconoscibile all’esterno dell’università il contributo che il design può offrire, anche in collaborazione con altri settori disciplinari, all’interpretazione e alla soluzione delle più importanti questioni della cultura materiale contemporanea. In altri termini, si definisce socialmente l’identità del design come ambito disciplinare.

Per incorporare in questa identità socialmente riconosciuta la capacità di reagire ai mutamenti di contesto è necessario che si trovi un equilibrio tra istituzionalizzazione e mantenimento della propensione a sperimentare connaturata a corsi di formazione come quelli di design. È questa oggi, a mio parere, una sfida essenziale che deve cogliere chi ha la responsabilità di programmare e gestire i corsi di studio in design all’Università Iuav di Venezia e altrove.


NOTE

(1 )Nel corso degli anni sono cambiate le denominazioni, per esempio, disposizioni legislative hanno modificato il precedente termine “laurea specialistica” in “laurea magistrale” e si è passati da due lauree magistrali a una sola con due curricula. Tutto ciò non modifica però in modo sostanziale le considerazioni che stiamo facendo sul progetto formativo complessivo.
(2) Ritengo doveroso citare alcune persone con cui abbiamo condiviso quell’esperienza e che, per il loro ruolo, hanno contribuito in modo determinante alla realizzazione del progetto della Facoltà di Design e Arti e dei corsi di Design, dottorato di ricerca incluso: Marino Folin, Oberdan Forlenza, Marco De Michelis, Sergio Polano, Walter Le Moli, Angela Vettese, Giovanni Anceschi, Raimonda Riccini e Maria Luisa Frisa.
(3) Pieno sostegno ai corsi di design e poi di moda è stato assicurato da Federico Tessari per tutto il periodo della sua Presidenza della Camera di Commercio di Treviso. Mi fa piacere inoltre menzionare l’appoggio convinto, nell’esercizio delle rispettive funzioni, di esponenti del mondo imprenditoriale come Ennio Bianco, Katia Da Ros e Giuseppe Milan.
(4) Per alcuni di noi questo modo di rapportarsi a modelli di riferimento aveva un importante precedente esplicito: il dibattito sull’interpretazione storica del Bauhaus che, nella Hochschule für Gestaltung Ulm, aveva visto come protagonista Tomás Maldonado e aveva contribuito a modificare la linea “continuista” di Max Bill e al cambio di direzione della Scuola. Si veda, a proposito del riesame critico del Bauhaus elaborato a Ulm, la documentazione contenuta in Maldonado, Tomás, Avanguardia e razionalità, Einaudi, Torino 1974.
(5) Queste caratteristiche hanno connotato, in Italia, le fasi iniziali di pochi altri percorsi formativi. Tra questi si può citare il primo DAMS attivato negli anni settanta del secolo scorso presso l’Università di Bologna.
(6) Per contro, una tale “dipendenza” dai protagonisti aveva in sé le radici di una scadenza temporale. Al sopraggiungere di quella scadenza e al mutare delle condizioni di contesto sarebbe terminata, e in effetti è terminata, quella esperienza sperimentale.
(7) Le imprese di questo tipo, che caratterizzano il panorama italiano, hanno potuto valutare ed apprezzare con ritardo rispetto a quelle di altri Paesi il contributo di designer con una specifica formazione universitaria, semplicemente perché questa formazione non esisteva. Si è cercato di trasformare questa circostanza in un vantaggio strutturando il corso di laurea per rispondere nel modo migliore alle esigenze, anche inespresse, di queste tipologie di imprese.
(8) Parliamo qui di numero contenuto pensando all’università di massa italiana. Gli allievi di scuole di Design di altri Paesi, per non parlare dei modelli storici di riferimento, sono mediamente inferiori di un ordine di grandezza.
(9) Vitruvio, De Architectura (16-­-15 a. C. ), Einaudi, Torino 1997, p. 15
(10) Per esempio, è ormai generalmente riconosciuto che la medicina si è costituita come corpus disciplinare autonomo nel medioevo, quando ha cominciato a essere insegnata a Salerno e Montpellier.

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