"Estate sul fiume". Racconto di Giovanni Comisso

“Estate sul fiume”. Racconto di Giovanni Comisso

La tanto desiderata estate in fine ossessiona, non per il caldo, per la sete o per l’insonnia, ma per l’orgasmo precipitoso della folla che vuole muoversi in tutte le direzioni per bruciarsi di sole, per intridersi di polvere, per insozzare l’acqua del mare, per spargere carte unte sull’erba dei prati montani.

Nella giornata pesante di caldo il mio amico Giovanni era tranquillamente rassegnato a passarla nel suo negozio di fotografo, dove nella camera oscura, come in una fresca grotta, sviluppa le pellicole dei suoi clienti in gite al monte o al mare, estraneo alla loro traboccante follia che gli si rivelava nel giuoco degli acidi, come visioni di un altro mondo. Anche il mio amico Marco, nella casa attigua, stava con la moglie Gina e col piccolo Diego completamente deciso a sciogliersi in sudore nella bassa stanza, tutti e tre distesi sul letto, in parte discinti e stretti tra loro come naufraghi su un relitto di nave tra un mare stagnante, dopo una tempesta irruente. L’orgasmo estivo degli altri non era avvertito da loro; per un erroneo giudizio, ispiratomi, come spesso avviene, dalla facile compassione mi parvero questi amici condannati a un sacrificio inumano e tanto feci con lusinghevoli promesse che convinsi Giovanni a lasciare la sua camera oscura e Marco, con la sua famiglia, lasciare il suo letto per venire con me sulla riva del Piave.

L’automobile era pronta, mentre si preparavano, presi in fretta le provviste per la colazione e partimmo. Subito credemmo si preparasse per noi un’allegra giornata anche perchè Giovanni, esperto raccontatore di barzellette cominciò a farci ridere fino ad incagliarci la mascella raccontandoci quella della scimmia che ricevuta una ciliegia, invece di mangiarla, fece una sua prova, perchè non le rimanesse nello stomaco, come le era toccato il giorno prima, quando aveva mangiato una pesca assieme all’osso. Sembrava anche il piccolo Diego, che aveva da poco suturato l’anno, l’avesse compresa, perchè si unì alle nostre risa, e già ci si avvicinava al Piave. La giornata era afosa, un denso vapore copriva il cielo, le foglie sui campi stavano afflosciate, eravamo prossimi ai monti, ma non si potevano vedere tanto erano velati dalla foschia accaldata, nessun contadino era al lavoro, e quando si giunse al ponte di Vidor, il Piave apparve ridotto a pochi filoni d’acqua tra l’accecante distesa dei ghiaioni. Si mise la macchina all’ombra di alcune acacie e trovato uno spazio verde si fece subito colazione. Quasi ogni attimo era rallegrato da Giovanni che se non raccontava altre barzellette, col suo gestire da finto assonnato e con le sue battute sempre ironiche ai nostri discorsi riusciva deliziosamente comico. Anche Gina rideva fino ad impacciarsi nel mangiare, ma più che fame sentivamo sete e dopo consumato tutto il vino, cercammo di spegnerla con la frutta.

Il Piave dal Ponte di Vidor (Google Maps)

Finita la colazione Marco si mise il bambino a cavalcioni sul collo e partì con la moglie attraverso l’ampia distesa dei ghiaioni per cercare un filone d’acqua dove godere un po’ di freschezza. Giovanni invece si sistemò con me in uno spiazzo erboso, sotto un ombrellone rosso da carrettieri, che avevo portato, e cercammo di dormire un poco. Il nostro riposo non fu lungo, mosche e formiche ci venivano ad assillare, rialzandomi non riescivo sapere quale ora fosse, il sole era nascosto dalla fumea di calore, i ghiaioni si stendevano deserti, non si intendevano suoni, nè voci dal paese vicino, un’oppressione prendeva insieme a una sete amara. Pensai di andare al corso d’acqua più vicino per bagnarmi e togliermi l’arsura. Il mio amico assonnolito non volle seguirmi. Portai con me il cannocchiale per rintracciare Marco e sua moglie.

I sassi affioravano come ossa dissepolte, altri appuntiti ostacolavano il passo, qualche ciuffo di arida erba spuntava raro. Sassi rotondi, piatti o accuminati, bianchi, verdastri, rossastri, ma più spesso bianchi, d’un bianco che senza il sole pur faceva socchiudere lo sguardo. Giunsi all’acqua, era limpida e corrente, immersi le mani, mi bagnai la testa, il petto e mi avvolsi di essa come in un mantello magicamente ristoratore, quando uscii ero lieve e tramutato: felice. Ma risalita la riva, subito mi sentii asciugato e lentamente riprendere dall’oppressione dell’aria. Il Montello, pur essendo quasi vicino appariva lontano, cinereo nella nebbia di caldo, lungo nella sua bassa curva, simile a un enorme cetaceo morente in secca. Le colline dell’altra sponda, spente nel verdeggiare dei boschi e dei vigneti dalla stessa nebbia, apparivano come attraverso un velo che fosse teso nell’aria. Presi il cannocchiale, ma le lenti non servirono a rendermi più chiara la visione, anzi questa divenne stranamente irreale. Tutto era visto come stando immerso in una calda acqua.

Ma nello scrutare la distesa dei ghiaioni scorsi Marco seguito da sua moglie in vestaglia rosa col bambino in braccio. Mi diressi loro incontro e non essendovi alcun punto di riferimento, mentre sembravano lontanissimi, subito dopo intesi le loro voci e li trovai a pochi passi. Il bambino era arrossato in volto e alle spalle, ignudo tra le braccia della madre che pareva stravolta, Marco teneva i suoi capelli, sempre ravviati, sciolti e pendenti sulla fronte fino a nascondere lo sguardo: come un’ombra li oscurava. Pensai si sentissero male, chiesi cosa avessero, ella deformando il volto in lagrime strillò come una bambina che non ne voleva più sapere di suo marito. che aveva sempre sospettato non le fosse fedele, ma ora ne aveva la certezza, perchè lo aveva visto coi suoi occhi. Marco stava muto e furente, non comprendevo cosa fosse avvenuto, mi rivolsi a lui ed egli scostandola con una spinta le impose di tacere, chè era pazza. Poi mi disse che ella si era addormentata sui sassi e improvvisamente svegliata si era scagliata contro di lui disteso al sole, gridando che aveva visto tutto quello che egli aveva fatto con una donna passata vicino a loro. Egli pensava avesse sognato quello che credeva di avere visto e che il caldo le avesse dato alla testa.

Sua moglie si era incamminata col bambino in braccio verso il centro del ghiaione di dove erano venuti. La raggiunsi e tentai persuaderla che in quel deserto non vi era nessun altro oltre noi, che tante volte un sogno può sembrare vero, ma ella non voleva capire, piangeva e disciolti i capelli come una tela stracciata continuava a camminare esasperata. Marco ci raggiunse accanito, lo sguardo fermo, socchiuso e fisso come un cacciatore che punti il fucile, mi accorsi teneva in mano un sasso e avanzava verso sua moglie che se ne andava col bambino appoggiato alla spalla verso le ghiaie accecanti. Lo affrontai stringendolo con una mano al collo e con l’altra al polso, perchè lasciasse cadere il sasso e gli imposi di andare subito alla macchina, lo avrei raggiunto e si sarebbe ripartiti. Non pensasse a sua moglie, l’avrei convinta a calmarsi. Egli parve ubbidire e si diresse verso l’ombrellone rosso che si vedeva lontano sotto al quale dormiva Giovanni. Sua moglie intanto era quasi scomparsa dall’orizzonte, il rosa della sua vestaglia impicciolito come un fiore cresciuto incredibile tra quel sassame arido, si fondeva con la fumea accaldata. Cercavo nell’inseguirla di posare i piedi scalzi sui pochi sassi piatti o sulle rare interposizioni sabbiose, ma più d’una volta mi dolorarono su sassi accuminati. Il rosa della vestaglia era appena visibile in quella lugubre distesa che andava oscurandosi forse per la sera imminente. Puntai il cannocchiale: ella apparve col bambino sulla spalla e andava a grandi passi come per disperdersi in quell’immensità angosciosa.

Camminai più presto possibile sicuro cercasse di raggiungere l’acqua per buttarsi dentro e morire. D’improvviso mi accorsi che era sparita, gridai più volte il suo nome che non penetrava quell’aria pesante, avanzai ancora, scrutai col cannocchiale, ma vedevo solo sassi e ciuffi di secca erba. Mi volsi e sotto un solitario cespuglio di salici ella stava seduta accanto al bambino. Piangeva rivoltando le labbra, arrossata in volto, imbizzarrita nello sguardo ceruleo, i capelli sparsi come sfilacciature di una tela stracciata dal vento. L’invitai ad alzarsi e ritornare alla macchina, si sarebbe ripartiti subito perchè era sera e il bambino ne avrebbe sofferto. Ella disse non sarebbe più ripartita con noi, avrebbe passato la notte tra quelle ghiaie, avrebbe trovato da arrangiarsi, non ne voleva più sapere di suo marito. E con tutto l’estro di una bambina dispettosa, ripreso il suo piccolo tra le braccia si incamminò di nuovo per le ghiaie. La raggiunsi, la presi ad una mano e le ordinai severamente di ritornare e di non farmi perdere tempo. Intanto Marco stava per sopraggiungere, accigliato e le gridò di smettere, ella gli si rivolse gridando non sarebbe più ritornata a casa e la lasciasse per sempre. Egli inferocì bestemmiando, afferrò un sasso, mi interposi tra loro, il sasso passò oltre, ma altri sassi erano dovunque a sua disposizione, ella urlava con la bava alla bocca, sudante, lagrimante, discinta e il bambino tra le sue braccia piangeva con lei.

A un certo momento fummo tutto un gruppo avvinghiato, egli voleva percuoterla, ella si divincolava, io li costringevo, torcendo loro i polsi, a placarsi. Infine mentre l’afferravo per un braccio per indurla a retrocedere ed egli la batteva alle spalle, la sentii cedere pesante per accasciarsi sui sassi borbottando: «Sangue, sangue». E chiuse gli occhi. Marco diceva che non era stata per nulla ferita, si rammaricava non averle spaccato la testa, ma subito le ridistese premuroso la vestaglia sulle gambe che aveva discoperte. Era svenuta, il bambino ignudo si era seduto sul suo petto e rideva. Proposi di rialzarla, di provare a farla camminare, presi il bambino, Marco cercò di sollevarla, ma non riesciva, sembrava egli avesse perduto tutta la sua forza ed ella avesse raddoppiato il suo peso. «Prendila in braccio e portala vicino all’acqua». Gli dissi, ma come la sollevò un poco ella tenne le gambe piegate per non posarle in terra ed egli ricadde con lei.

Vicino a noi mi accorsi di un contadino con la zappa sulle spalle, fermo a guardare, come fosse scaturito da sotto le ghiaie. Lo pregai di aiutarci a sollevarla, era svenuta e si voleva portarla vicino all’acqua. Spaurito nello sguardo grigio non si muoveva. «Lo aiuti, poi andrete a zappare le patate», dissi, e allora si mosse come se l’accenno al suo lavoro lo avesse riportato a una realtà meno paurosa. Diede una mano a Marco e sollevatala, ella rinvenne, la fecero camminare un poco ed ella ubbidiva. Ma appena il contadino se ne andò, ella ricadde di nuovo battendo la testa sui sassi. Marco esasperato la minacciava, la malediceva e ancora le ricopriva le gambe con la vestaglia. Dissi assolutamente occorreva dell’acqua, mi sentivo ardente la bocca, come avessi mangiato fuoco, egli andasse fino all’acqua, si bagnasse, si calmasse, si rinforzasse e ne portasse un fazzoletto intriso, non ne aveva, non avevamo nulla da potere bagnare d’acqua. Partì ugualmente. Deposi il bambino, subito camminò verso la madre distesa che respirava con la bocca socchiusa. Il suo corpo era ridotto a nulla, appiattito sotto la vestaglia. Il bambino si accovacciò tra la sua spalla e la testa e le accarezzava le guancie arrossate, poi strappò con le piccole dita alcuni fiorellini bianchi e li mise tra le labbra di sua madre. Le sollevai le palpebre: il suo sguardo ceruleo vacillò alla luce. Marco era di ritorno, tutto bagnato al corpo, gli chiesi se l’acqua era distante. Non mi rispose, aveva la bocca piena d’acqua si reclinò sopra sua moglie congiungendo la bocca a quella di lei e con un bacio le immise l’acqua che le aveva portato.

Ella rinvenne e si rialzò. Le parlai pacato: usasse a me la cortesia di ritornare subito alla macchina, avevo creduto quella giornata avesse potuto riescirla gradita, invece per la sciocchezza di un sogno, ogni piacere era stato guastato. Ancora come una bambina parlava di volersene andare col figlio via per i ghiaioni, le dissi che se lo faceva avrei avvertito i carabinieri e l’avrei fatta prendere da loro. Proprio come per i bambini occorreva questa minaccia, non disse più nulla, non pianse più. Dissi che non poteva ripresentarsi disfatta al mio amico che ci aspettava e raggiunta l’acqua tutti andammo a lavarci e a rinfrescarci. Marco ed io prendemmo il bambino ed egli felice guazzò tra la limpidezza dell’acqua.

Mi sentivo come ridestare. La fumea si addensava oscurando come per un incendio la chiesa e le case di un paese sull’altra sponda, ma di qua invece l’aria si schiariva e il sole prima filtrò tra i vapori e poi apparve ancora alto. Il giorno era senza fine. Ritrovammo Giovanni che ancora dormiva sotto l’ombrellone rosso, ormai abituato all’assillo delle formiche e delle mosche. Lo svegliai, subito riprese il suo tono comico e tutti ridemmo di nuovo fino ad incagliarci le mascelle. Eravamo come ridestati allora, ma la sete ci tormentava.

Partimmo subito alla ricerca della prima osteria dove ordinammo tutto quello che vi era da bere: vino, aranciate, caffè, acquavite e persino acqua, ma questa era disgustosa. Mentre si beveva Giovanni riprese a raccontarci altre barzellette. Una ci fece ridere subito violentemente, ebbi una breve sosta e subito ridemmo ancora. Gina rideva più di tutti noi con la sua bocca che era stata esasperata nel pianto tra le bave. Intanto che noi si ascoltava, si beveva e si rideva, il piccolo Diego, aveva trovato da giuocare con la bambina della padrona dell’osteria, che era della sua stessa età. La stringeva e la baciava, ma subito la bambina si era messa a piangere e Diego con le sue piccole mani prese a batterla sulla schiena, come aveva fatto sua padre.

Giovanni Comisso

"Estate sul fiume". Racconto di Giovanni Comisso

Pubblicato alle pag 10 de Il Mondo del 20 agosto 1949.
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale.
Immagine in evidenza: Photo by Daria Sannikova from Pexels (dettaglio)

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