Francesco Permunian. Non sarò mai uno scrittore metropolitano

La voce di Francesco Permunian ha un tono fermo. Lapidario. Uno alla volta, sgrana concetti che appaiono subito in tutta la loro disarmante semplicità e crudezza.

A dispetto delle nebbie nelle quali l’autore è nato e ha a lungo vissuto. A dispetto degli abissi, delle follie, degli incubi che costellano le sue narrazioni. O proprio per quello. Perché per dare voce alle paure e alle ossessioni, l’unica arma è l’uso mirabile della lingua.

Del controllo che sola può esercitare sulla materia caotica di cui sono fatti gli incubi. Anche di quelli vissuti in pieno giorno. Proprio come accade ai protagonisti di Costellazioni del crepuscolo.

“Sono figlio di una piccola patria che è il Veneto. È lì che affondano le mie radici. È da lì che ho tratto il mio humus. Di questa terra condivido la lingua, la storia, il sentire. Quella in cui sono nato nel 1951, è una civiltà contadina, brutale e spietata, dominata dai grandi proprietari terrieri, che finisce nei primi anni Sessanta. Quando finisce la civiltà contadina, finisce anche la civiltà veneta. Come diceva Pier Paolo Pasolini,

“quando scompaiono le lucciole dal Friuli “, e dal Veneto aggiungo io, “scompare una lingua, scompare una civiltà”.

Sono nato nel sud del Veneto, nel Polesine. Nei miei primi anni di vita ho fatto a tempo ad ascoltare ancora le storie dei grandi proprietari terrieri. Ho studiato e lavorato a Padova, infine mi sono trasferito dall’altra parte del Veneto, sulla sponda del Garda. Ma non mi sono mai mosso da questa area che considero una sorta di Catalogna. E che mi va benissimo. Per questo non mi sento spersonalizzato. Non parlo un italiano standard, parlo una lingua legata alla terra in cui ho sempre vissuto e che ha sfornato autori che potrebbero fare la storia della letteratura italiana, basandosi solo sul Veneto.

Come è successo in Sicilia, ad esempio.

“Certamente. Basti pensare a Pirandello, Sciascia e agli altri. Ma anche qui abbiamo una grandissima ricchezza di autori veneti del Novecento con una robusta tradizione che, nel mio piccolo, vorrei poter continuare, soprattutto perché mi sento veneto, ne condivido la lingua, e sono legatissimo alla loro lezione. E non è, ovviamente, una questione regionalistica. Mi ricordo, ad esempio, quando telefonavo a Meneghello: pur vivendo da diversi anni all’estero, rimaneva venetissimo nelle radici e nella parlata. Lo è sempre stato. È stato così per Giovanni Comisso. È così per Camon.

Di Comisso ho sempre apprezzato la totale anarchia, sia sentimentale che stilistica. E poi quel suo aspetto per nulla da “fighetto” intellettuale, bensì da “sensale del bestiame” (così lo dipinse, en passant, il suo “figlioccio” Parise) che lo faceva assomigliare a certi personaggi o figure della campagna veneta.

Nella quale anche Parise, quando si sentì la morte addosso, alla fine ha voluto riportare le sue ossa. Quasi un richiamo “ctonio”, emanato dalle viscere della terra veneta, come a suo tempo ebbe a dire Contini a proposito della poesia di Zanzotto. Per gli autori nati dopo la fine della civiltà contadina, invece, le cose sono cambiate. Hanno voltato pagina. Non hanno nel sangue le radici contadine degli anni Cinquanta. Infatti hanno subito una spersonalizzazione della lingua, hanno iniziato a scrivere in un italiano standard. Senza offesa per nessuno, s’intende. Perché poi diventa una questione di maggiore o minore ispirazione e bravura.”

In Costellazioni del crepuscolo, composto da Cronaca di un servo felice e da Camminando nell’aria della sera, si trovano tutti i temi appena toccati.

“Certamente, anche se rispetto agli autori appena nominati, la mia prosa è più allucinata e grottesca. Ma io provengo da un sottosuolo che è il Polesine poverissimo degli anni Cinquanta. Quello della devastante alluvione del ’51, del fenomeno dell’immigrazione, dei proprietari terrieri terribili che vivevano tra Venezia e Padova e che lasciavano le loro terre in mano ai gastaldi. Le condizioni di vita erano estremamente dure.”

Condizioni crude, rese attraverso un linguaggio che si fa testimone.

“La parola è lo specchio dei tempi. Quando cambio ambiente e mi trasferisco sul Garda, la mia prosa non è più dura e grottesca. Diventa più elegiaca e malinconica. La lingua non è altro che una cartina di tornasole dell’ambiente in cui si vive.

Lo scrittore è come un filtro, una nota che canta l’ambiente che lo circonda, ma rimane sempre legato alla lingua materna. Nel mio caso, alla lingua veneta. Non sarò mai uno scrittore metropolitano. Il mio è un retaggio contadino.

Non abbiamo alle spalle una grande tradizione industriale come può essere quella lombarda. Infatti, è nelle case dei grandi latifondisti che ho ambientato la storia della vecchia contessa Pallavicino col suo servo.”

Un servo che parla di deiezioni, che racconta la verità del disfacimento del corpo e della mente senza pudore.

“Il servo è un figlio della cultura contadina e questa cultura non ha diaframmi intellettualistici rispetto alla realtà. Il servo racconta la realtà. E la campagna, a differenza di quanto se ne dice, non ha nulla di idilliaco. Bisogna averla provata veramente per saperne parlare. È brutale e spietata. Io ho raccontato la mia epoca. Ora spetta ai nuovi narratori, i trenta-quarantenni, raccontare dello sfacelo del Nordest che è seguito alla fine della civiltà contadina.

Io sono un “figlio” dei Valeri,  Zanzotto,  Meneghello, di Mario Rigoni Stern. Sono stati loro i miei maestri, i miei compagni di strada.”

Le sue narrazioni si addentrano in territori che si avvicinano all’indicibile, che hanno il coraggio di affondare le mani dove un certo perbenismo non avrebbe mai osato metterle.

“Io racconto con brutalità cose blasfeme e orribili. Per salvarmi devo utilizzare uno stile retoricamente perfetto. Altrimenti il pericolo è quello di scadere nel turpiloquio fine a se stesso. Quello che desidero che venga colto nel mio lavoro, è il senso di questi destini che vanno verso il nulla, verso il fallimento della vicenda umana. La mia è una visione nichilistica, in cui non esiste alcun Dio che redima. È questo il mondo in cui vivo.”

Il mondo di Costellazioni del crepuscolo è popolato di fantasmi che si aggirano nella nebbia, in un luogo in cui è difficile tracciare il confine tra realtà e follia.

“Il titolo racchiude tutte quelle anime, quelle animule, che hanno un piede nella notte e un piede nel giorno. Io stesso vivo in un’aria crepuscolare e fantasmatica: è il mio mondo. Quello che va dal Polesine fino alle rive del Garda. Un mondo che può sfiorare il visionario e il metafisico. E che ogni tanto si lascia pervadere da struggente malinconia. Ma è un mondo chiuso, finito, nel quale si rischia di impazzire o dal quale si cerca di fuggire attraverso l’alcolismo o altre dipendenze.”

In questo caso, allora, la scrittura diventa àncora, diventa strumento per esorcizzare i fantasmi.

“Mi sono salvato attraverso la scrittura che è diventata una sorta di psicoanalisi. Attraverso le parole ho creato un mondo fittizio, nel quale abitare e relegare tutti i disagi. Ho dato vita a una seconda realtà, perché non riuscivo a sopportare quella quotidiana. Ma credo che valga per tutti gli scrittori.”

Quindi la scrittura serve a definire un perimetro entro il quale relegare tutte le paure e le angosce.

“Sì, la scrittura è lo strumento, costruito e messo a punto molto lentamente, per oggettivarle dopo che le hai vissute. Per me diventa un sollievo, perché la scrittura nasce sempre da una ferita, dalla necessità di curare un male interiore. Non a caso ho pubblicato un libro intitolato La casa del sollievo mentale. Per un monaco è la preghiera, per un musicista la musica, per me è la scrittura.”

Il titolo Costellazioni del crepuscolo deriva dalla raccolta di brevi testi inediti che funge da trait d’union tra Cronaca di un servo felice e Camminando nell’aria della sera. C’è un motivo dietro questa scelta?

“La mia è sempre stata una scrittura divagante. Un po’ come è stato Comisso, grande scrittore, giornalista e viaggiatore, o come Parise. Ho sempre le tasche piene di foglietti e di appunti. Quando fumavo, compravo pacchetti che avessero spazi bianchi sui quali poter fermare qualche idea. L’appunto è fondamentale: è da lì che si tirano fuori le narrazioni, dall’urgenza di raccontare senza infingimenti un dolore, una sofferenza.

Se mancano sincerità e verità, non c’è scrittura che resista allo scorrere degli anni.

Saprà di plastica, di omologazione dettata delle mode o dalle scuole di scrittura di turno e si dissolverà come polvere.”

Questo della mancanza di verità, di voce, è un pericolo che la poesia smaschera immediatamente. E lei che è nato come poeta e ha avuto Zanzotto per maestro e amico, ha imparato una lezione bellissima e durissima.

“Zanzotto e la stessa Maria Corti erano severissimi con me, controllavano e ricontrollavano ogni virgola. Mi rimandavano indietro il lavoro dopo averlo vivisezionato. Ho imparato il lavoro filologico. Un lavoro fondamentale. La lingua la devi possedere.”


Vi proponiamo la lettura del racconto Fiori, farfalle, piccioni viaggiatori (in PDF) Tratto da Camminando nell’aria della sera, Rizzoli, 2001, di Francesco Permunian.

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