Giovanni Comisso - Gigantomachia sentimentale

Gigantomachia sentimentale

Quando l’autunno si inoltra verso i primi freddi la noia, al sopraggiungere della sera, vivendo in piena campagna sale profonda. Non ci si può distrarre con le preoccupazioni agricole giacché, dopo le semine del frumento, la terra coprendosi delle foglie cadute, come di una coltre, rientra nel sonno invernale duro e pesante. Sarebbe una piacevole distrazione la lettura di tanti libri che sono stati messi in disparte durante l’impazienza estiva, ma la luce elettrica, qui in campagna, si fa nelle prime ore della notte fievole come per un nostalgico ritorno alle antiche lampade ad olio. Non rimane che scappare verso la città vicina quando è possibile.
L’altra sera, appunto, un mio amico era venuto a prendermi con la macchina per riportarmi alla città desiderata e veramente avevamo deciso di andarci a divertire. La luce vivissima dei fari illuminava la stradina tortuosa folta di siepi ed era come uscire da un bosco, ad un tratto sfavillarono sul lato del fosso gli occhi verdastri di un gatto che rapido attraversò la stradina. Entrambi ebbimo un grido di rabbia ritenendo, secondo la consueta superstizione degli automobilisti, che fosse il preannunzio di qualche fastidio o di una disgrazia. Il mio amico ci ripensava sopra più di me e continuava a brontolare, sebbene tentassi convincerlo che il gatto è un animale notturno ed era naturalissimo avesse incrociato il nostro percorso. Poco dopo nell’attraversare un paese si trovò la strada sbarrata da un autocarro fermo, coi fari totalmente accesi, senza curarsi di attenuarli al nostro invito. Il mio amico fermò di colpo, agitandosi con furia e scese gridando contro il conducente dell’autocarro. Gridava confuso e minacciava, quando alla luce dei fari che continuavano a rimanere accesi, vidi scendere dal posto di guida un uomo corporuto e altissimo. Il mio amico senza intimidirsi, forte di essere dalla parte della ragione, non si placò, anzi accrebbe le sue grida e le sue minacce finché vennero a urtarsi come due caproni in lotta. Allora scesi dalla macchina e mi interposi scostando il mio amico che già era infollito di violenza e puntando le braccia contro il petto dell’altro che, sicuro della massa del suo corpo, la usava in vero come una catapulta. Era inutile che gli gridassi di smettere e che partisse con l’autocarro per lasciarci la via libera, mentre dividevo l’uno dall’altro subito si ricercavano per pigliarsi al colletto e offendersi. Se non vi fosse stato in ognuno di noi l’impeto alla violenza sembrava quasi di fare una danza, una specie di minuetto forsennato, eravamo ora divisi, ora riuniti, non si era arrivati alle percosse, ma si danzava sempre su di un motivo di spinta o di urto. E questo motivo era stato imposto per prima dal conducente corporuto sicuro della sua possibilità a riuscire imbattibile essendo due volte e più, maggiormente grande di noi. Ma a un tratto il mio amico come accecato si rivolse scattando contro l’altro e gridò:

– Sono cose da prendervi a coltellate.

Gigantomaquia (di J. M. Félix Magdalena, Wikimedia Commons)

Aveva appena detto questo e dal posto di guida dell’autocarro scese un altro uomo, grande e massiccio come il primo e scostandolo, come per avere egli soltanto la lizza a sua disposizione, si scagliò contro il mio amico come per stritolarlo. Mi interposi gridando di farla finita, che essi erano dalla parte del torto e che se ne andassero subito, perché noi si doveva passare. Ma le mie parole non erano intese e constatai che sebbene anche questo uomo fosse fortissimo, pure io non avendo alcuna esperienza di lotta, solo che gli posassi la mano contro il petto che facessi leva col braccio nella stretta, mi era facile scostarlo dal mio amico, sebbene subito riprendesse ad avvinghiarsi a lui. Non avevo mai partecipato a una lotta simile, anche l’altro tentava ritornare scagliarsi, e questi due giganti nel roteare le braccia e nell’urlare contro di noi facevano pensare a qualcosa di mitologico scaturito da quelle tenebre della notte autunnale. La furia dell’ultimo intervenuto non voleva cessare, anzi, sempre più fuori dalla ragione, sembrava deciso a sopraffare il mio amico che tuttavia non voleva abbandonare la lotta a tutti i miei ripetuti inviti. Vedevo che si poteva arrivare a un momento gravissimo e agitando le mani davanti al volto del gigante scatenato gridavo di fermarsi, ma egli gridando che non voleva sentir parlare di coltellate riprendeva a scagliarsi contro il mio amico. Inutilmente dicevo che se non vi erano coltelli, che nessuno di noi aveva il coltello, che fermasse la sua ira, che si andasse alla osteria di fronte a bere e che ognuno proseguisse per la sua strada. Attorno molti si erano raggruppati a guardare e nessuno si muoveva per aiutarci a fermare il gigante, infine solo una donna, la padrona dell’osteria che lo conosceva, venne a interporsi e gli gridava:

– Oggi, proprio oggi che è il tuo compleanno, Nani, ti vuoi rovinare.

Questa voce e quelle parole furono come se ella fosse riuscita a riportare un filo di ragione nella sua mente ed egli si fermò e disse:

– Non posso sentire parlare di coltellate, basta col sangue, se ne è sparso troppo in Italia.

Allora mi interposi a lui e fermandogli l’impeto che sembrava riprenderlo:

– Basta, – gridai – ascoltami, tu parli giusto, tu hai detto il vero, ma appunto per questo placati e vieni nell’osteria.

di Wilhelm Trübner, Monaco di Baviera 1891 (Wikimedia Commons)

Era in sussulto, ma qualcosa dentro di lui si era mutato, diceva che l’altro che era suo cugino, era corto di cervello e bisognava perdonarlo, ma egli aveva troppo sofferto nella sua vita prima come prigioniero e poi perché i tedeschi gli avevano uccisa la moglie e non voleva più sentire si parlasse di uccidere. Lo presi al braccio e gli dissi con emozione la mia gioia ad averlo incontrato. scoprendo che sotto alla sua violenza affluiva una sensibilità umana delle più preziose in questo tempo. Quel gigante tremava nella mano quando gli offersi un bicchiere di vino, e mi parlava della moglie che amava, perduta nel turbine della violenza.

Non si deve più uccidere – ripeteva, e nel dire queste parole depose il bicchiere perché il pianto gli serrava la gola. Lo feci sedere, gli dicevo che tutti gli uomini di questa miserabile terra avrebbero dovuto parlare come lui ed era commovente e incantevole vedere un uomo così possente addolcito nel pianto. Il celeste dello sguardo si sperdeva e la sua bocca arida si contraeva ad ogni strappo. Gli feci forza di bere e di calmare, non più la sua violenza, ma il suo dolore e questo mi era più difficile. Anche gli altri erano entrati nell’osteria e continuavano a discutere sulla ragione e sul torto di ognuno ma senza toccarsi: era come se fossimo stati rasentati da qualcosa fuori di noi folle e brutale fermandoci la ragione ed ora se ne fosse andato, era forse la ombra del gatto che ci aveva attraversato la strada che aveva emanato il suo influsso nefasto. Ci lasciammo come vecchi amici, ma quella sera arrivando in città, non ci fu più possibile pensare di divertirci.

Giovanni Comisso

da La Nazione del 22/11/1950.

Immagine in evidenza: Gigantomakhia – Rilievo raffigurante la battaglia degli dei e dei giganti, in mostra al Museo di Hierapolis (foto di Cobija, Wikimedia Commons)

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