Gino Rossi, il pittore blu oltremare che matto non fu mai

Gino Rossi, il pittore blu oltremare che matto non fu mai

Nico Stringa, che è andato ben oltre il possibile in ricerche e studi fattisi ormai indispensabili per chi vuole conoscere e comprendere l’arte e la vita di Gino Rossi, e Flavia Scotton, che avendo diretto il Museo d’arte moderna di Ca’ Pesaro va considerata la vestale instancabile e più che accreditata delle glorie capesarine, hanno firmato assieme un libro che ci rende documentalmente partecipi di quanto “abitò” in Gino Rossi in fatto di energie artistiche e intellettuali. Energie tali da portare il pittore, nato a Venezia nel 1884, ad avventurarsi in territori “rischiosi” con assoluta indipendenza, tenendosi nella più irrinunciabile prossimità con i migliori protagonisti delle avanguardie artistiche europee tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento. Il libro Gino Rossi, lettere e scritti dispersi fin dall’introduzione, breve ed efficacissima, indica anni e nomi attorno ai quali crebbe la riscoperta, o meglio, la scoperta di Rossi, ma soprattutto il corso di verità di una vita da pittore e intellettuale che si recluse nel 1926 a Sant’Artemio, l’ospedale psichiatrico di Treviso, per morirvi nel 1947.

Dopo il doveroso richiamo ai preziosi tributi rossiani e che risalgono da Guido Perocco, e il suo render nota una parte delle lettere, al fatale Nino Barbantini, “a suo modo” amico e sostenitore e che nel 1946, con sofferta riluttanza, pubblica “brandelli” tratti da “un fascio di lettere che mi scrisse Gino tra il 1909 e il 1924”, siamo al 1974, l’anno del primo, autentico riconoscimento di Gino Rossi. Come scrivono Scotton e Stringa, è allora “che avviene la svolta”. Una svolta voluta da Treviso “città d’adozione dell’artista” e interpretata da Luigi Menegazzi con la mostra monografica allestita a Ca’ Da Noal, da Giuseppe Mazzotti e i suoi “Colloqui con Gino Rossi” e da Luigina Rossi Bortolatto che manda “alle stampe il volume con le 113 lettere allora conosciute, corredato di introduzione e di note e con una premessa di Giuseppe Marchiori”.

Il costante Marchiori, già negli annni Trenta su Emporium:

Caratteri tipici dell’arte di Gino Rossi sono la magica poesia del colore e la severa ricerca di uno stile monumentale e semplice nella composizione.

Ma non può non esserci un dovuto cenno biografico per via di un padre e di “padri” molto presto deceduti, di una madre subito divergente per suoi precipitosi rapporti, di una pittrice – Bice Levi Minzi – che lui sposa essendo ragazzo e che l’abbandonerà verso il 1912, lasciandolo nella più lacerante disperazione.

Ulteriormente dai due curatori alle lettere e ad altri scritti:

È inevitabile osservare innanzitutto che si tratta di un epistolario a senso unico, essendo dispersi e probabilmente perduti per sempre tutti i documenti in risposta alle sue missive. I numerosi traslochi , le lunghe permanenze all’estero, il saccheggio della casa sul Montello durante la grande guerra, la disastrosa situazione della sua famiglia dopo la morte del padre Stanislao e dopo la rovinosa vicenda della madre. Sono tutti dati di fatto ben noti che hanno contribuito alla dispersione delle carte, per non dire dell’archivio del pittore, costretto negli anni Venti a una vita anche randagia e comunque al limite, spesso, della sussistenza.

“Chi lo conobbe fraternamente”, cioè Nino Barbantini che dette vita a Ca’ Pesaro portandovi la “gioventù” dell’arte moderna, in presentazione alla mostra retrospettiva su Gino Rossi nella Biennale del 1948 raccontò in piccola parte l’amarissima leggenda dell’artista:

Ebbe un’adolescenza agiata, educato in uno dei primi collegi d’Italia dove si formò una solida cultura umanistica. Ma presto conobbe la povertà e negli ultimi tempi che visse al mondo, la miseria nera; per sfamarsi, ostinato com’era nella sua fierezza da principe a ricusare qualunque soccorso, preferiva di girare per le fiere dei paesi a vendere carta da lettera.

C’è da capire però dove e con chi crebbe all’arte della pittura, se va presa per veritiera la determinazione espressa nel 1911 in sole tre righe:

Non abbiamo frequentato alcuna scuola, nutrendo per essa antipatia sincera e ritenendola, anzi, addirittura dannosa. Abbiamo studiato i primitivi, egiziani, assiri, dai persiani ai bizantini. Ecco tutto riassunto!

Tre righe condivise con Bice Levi Minzi, moglie e pittrice, ma soprattutto consone a quelle che potevano ritenersi attorno al 1910 le idee artistiche e le preferenze estetiche di Gino Rossi. Le stesse idee e preferenze che sente come sue fin dal 1907 tra Parigi e la Bretagna, tra la Francia e il Nord Europa, nei musei, nelle gallerie dei mercanti particolarmente orientati alle avanguardie, negli studi dei pittori che più gli interessano.

Ovviamente, il suo è un vivere idee ritenute le più coerenti con chi si batte per una pittura non “ritardataria” e che vanno, stagione dopo stagione, precisandosi: dai primi anni del nuovo secolo, quando va a dipingere in Bretagna, a Burano, sulle colline asolane, alle ultime, commoventi, ostinate, “composizioni” degli anni Venti, quando di giorno in giorno si allontana da un mondo che gli frana intorno.

In una lettera del 1924 a Nino Springolo, pittore da lui molto apprezzato e dal 1908 in consuetudine con le barbantiniane mostre di Ca’Pesaro, torna sulla sua visione estetica che, all’epoca, è tra le più innovatrici:

La macchina non ucciderà mai l’arte… Vogliamo essere informati di quanto si fa in pittura dopo Cèzanne – in musica dopo Wagner – in letteratura dopo Rimbaud.

Quando viene a sapere che i fascisti hanno arrestato a Torino Piero Gobetti e il “nostro Casorati” (che di lui dirà “mi ero legato specialmente a Gino Rossi, il nobile artista”), scrive a Barbantini:

Non puoi credere come la notizia mi abbia addolorato proprio nell’anima. Che proprio non si capisca da nessuno che il nostro ‘rivoluzionarismo’ non ha nulla a che fare con quello… di Bombacci e Malatesta, che siamo agli opposti, che il nostro… torto è quello di sentire da uomini ’moderni’ (per questo siamo isolati, sentinelle avanzate, aristocratici).

Il suo è il “futurismo” di chi si pone in esilio pur di essere uomo e artista libero nonostante tutto (“voglio essere libero e far quel che mi pare e piace anche a costo della miseria”), e che molto soffre per la propria estraneità a quello che gli si restringe addosso come un tempo non suo (il tempo che gli appartiene invece è quello di chi lavora lentamente, di chi osserva la complessità). Dunque straniero in quell’Italia (“hanno innalzato tutti i pompiers della caserma italiana anzi europea”), in quella Venezia e in quelle Biennali (“Venezia non è ambiente per noi: c’è troppo marcio”). In vista della mostra degli artisti di Ca’ Pesaro al Lido nel 1925, vorrebbe esporre:

Assolutamente la ‘Fanciulla del Fiore’, che è la mia poesia più bella forse. Sotto a questa, come convenuto il ‘Paesaggio’ di Soppelsa(l’Ile Tudy) e la cornice coi disegni – questa è la mia prima epoca. Poi i due paesaggi Asolani (seconda epoca) poi la natura morta colla ‘Composizione’ di Fusinato e il ‘Manifesto’.

Del desiderio di Rossi, inviato per iscritto a Nino Barbantini, non se ne fece nulla. Fu accettata solo la Composizione. assieme a qualche disegno, ma non la sequenza più alta dei dipinti del grande e ormai isolatissimo pittore, non i capolavori creati in successione a Burano, in Bretagna, sulle colline attorno ad Asolo, fino alle ultime cose, quelle volute nella terribile tensione vissuta nel rifiuto, perché “tutta la mia arte e quella degli altri mi sembra così vecchia, ammuffita e sorpassata”. Eppure, appena un anno prima, a quarant’anni, aveva riaffermato le sue certezze, indicata la vitalità delle radici artistiche ed estetiche in cui credeva:

Pensate che Cézanne lottò tutta la vita sino all’ultimo respiro per assicurare il trionfo della ragione sull’istinto. Potrei citarvi di Ingres, di Poussin, che ogni giorno che passa divengono sempre più grandi… O Raffaello allora? Non si dipinge colla mano, egli diceva, ma con la testa.

Grande descrizione asolana, 1912

Leggendo alcune lettere o i suoi scritti “dispersi” è come se Gino Rossi fosse stato a conoscenza di articoli e lettere di Paul Gauguin (1848-1903), lì dove troviamo parole e pensieri dall’evidente ed emozionante consonanza con il pittore di Burano e della Bretagna. Per entrambi frequentazioni di musei dove studiare o disegnarvi ciò che interessa, come farà il nostro nelle sale dei musei Guimet e Cluny. In una lettera del 1922 spiega perché Cluny:

Potrei inoltrarti interi quaderni con studi, interpretazioni di fiori, insetti, alberi e uccelli tratti da maioliche e ceramiche persiane, giapponesi, cinesi e italiane.

Anche per Gauguin al vertice Ingres e Raffaello e nella musica Wagner, mentre sia l’uno che l’altro si indignano per esposizioni dove vengono invitati “tutti questi vanesi che dispiegano a piene mani le proprie croste con incredibile disinvoltura” (Gauguin). E Rossi, nel difendere l’autentica linea di una Ca’ Pesaro ormai assediata, non ha mezzi termini, bisogna chiudere “la porta di casa nostra a tutti gli sciagurati che nel campo delle belle arti svergognano il nostro Paese… a tutti i quadrivendoli nostrani”. 

A Gauguin, pittore dello “spirito moderno” piace la Torre Eiffel (1887-1889) perché “induce riflessioni anticipatrici sulle possibilità ora aperte a un art nouveau de décoration”(M. G. Messina); a Gino Rossi piace l’automobile perché “quando l’arte cessa di essere della sua epoca, muore”. Lucidissimo nella sua idea di un moderno sollecitante e mutevole, aggiunge:

Da quanto data l’avvento della società industriale? Cinquant’anni? Va bene. Essa ha trasformato il mondo e continua a farlo in modo miracoloso. Te ne sei accorto, artista? Non si pretende che nei tuoi quadri tu faccia il ritratto della macchina per essere moderno. Anche in un paesaggio o in una natura morta puoi far sentire lo spirito che ti lega al tuo tempo.

Chi coglie in pieno il senso profondo del rifiuto e della disperazione di Gino Rossi è Palma Bucarelli, che vuole, curandola con Giovanni Carandente nel 1956, l’eccezionale mostra della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, restituendo al pittore, quasi del tutto dimenticato (nonostante il tributo post mortem della Biennale 1948), il merito di essersi opposto “all’involuzione del Novecento” e ai “miti metafisici o neoclassici o primitivistici”.

Bucarelli:

Egli aveva da risolvere il suo problema personale che era di conciliare la nuova realtà strutturale dell’oggetto proposta da Cézanne e dai cubisti con la vita dei sentimenti, con l’emozione soggettiva, escludendo ogni transitorietà sensoria, ma anche evitando ogni rigidezza schematica , ché non poteva la ragione uccidere del tutto il sentimento. Il problema era il più difficile che si presentasse all’arte del nostro tempo dopo le rivoluzioni degli inizi del secolo.

Tanto è vero che Rossi non si accontenta di Matisse, di Van Gogh, dei Fauves e nemmeno dei Cubisti del dopo 1907. Mai dimenticando il suo specialissimo Gauguin, riparte invece da Cézanne, perché, scrive Bucarelli, il suo scopo è

trovare il punto d’incontro delle due forme d’arte, assommare quelle esperienze per creare una forma nuova e più attuale, era il problema che egli sentiva e tentava di risolvere, e fu poi ancora il problema attorno a cui si posero anche artisti delle generazioni più giovani.

E scrivendo dei paesaggi asolani, Nello Ponente osserva che pur essendo

considerati i più intensi di colore, i più fauves, si allontanano a parer mio da quella che era stata la visione di Matisse e degli altri, per una maggiore preoccupazione della struttura della composizione, che solleva il piano di fondo con un procedimento vicino a quello dei paesaggi dell’Estaque di Cézanne.

Da non dimenticare inoltre questa nota di Ponente:

Gino Rossi sembra che abbia fatto tutto da solo e che alle sue conclusioni, ottime intendiamoci, sia giunto camminando per conto suo. 

Natura morta con brocca, 1922

Forse a Venezia avrà appreso qualcosa nello studio di Wladimir Schereschewskj (un pittorone eccessivo in tutto, da Ottocento russo “tetro e grigio”, quello degli sconfitti, dei derelitti e carcerati, che tanto andavano nelle prime Biennali). Indiscutibilmente maggiore il suo interesse per lo studio parigino dello spagnolo Anglada Camarasa, una sorta di esuberante Klimt del flamenco senza alcuna inquietudine viennese alle spalle. Ma di quel surplus cromatico cosa restò negli occhi del giovane veneziano? Capì che la sua scuola doveva essere lui stesso:

la mia pittura è in gran parte il risultato di visite quotidiane al Museo di Cluny….la stessa colorazione e il modo di descrivere il paesaggio risente di questi studi.

Le sue “verifiche” le ebbe durante le prime Ca’ Pesaro con Arturo Martini, Felice Casorati, Umberto Moggioli, Nino Springolo, più Boccioni che Carrà, più Semeghini che Cadorin, e al di fuori delle sale cafoscarine più Medardo Rosso e i Maestri francesi. A dire il vero, la sua “università” la frequentò in Francia e nei Paesi Bassi, tra il 1907 e il 1912, ma allargando di molto i suoi orizzonti a Parigi perché a Parigi si era sviluppata al sommo grado la potente natura del Genio dell’arte moderna, e poi libri, riviste di cultura, suggestioni letterarie e filosofiche, quasi sulle orme del suo “fantasma famigliare”: Paul Gauguin. E non c’è dubbio che se Rossi avesse conosciuto questa confessione di Gauguin l’avrebbe fatta sua totalmente:

Note sparse, senza seguito come i sogni, come la vita stessa, tutta fatta di frammenti. E, per il fatto che tanti vi collaborano, l’amore delle belle cose intraviste nella casa del prossimo. (…) Ora, se un’opera d’arte fosse un lavoro d’azzardo, tutte queste note sarebbero inutili. Sono convinto che il pensiero che ha potuto guidare il mio lavoro o una singola opera sia legato col massimo di mistero a mille altre, sia mie che apprese da altri (citazione trovata in M. G. Messina).

O non aveva detto Gino Rossi “siamo isolati, sentinelle avanzate, aristocratici”? Che non è affatto un lamento, non è lo sdegno orgoglioso di chi ha netta coscienza di sé, è il controcanto di un nobile artista (così l’aveva chiamato Casorati), di uno che vive il mistero e che ha sognato la sua stessa vita nel cercare e riordinare, dipingendoli, giorno dopo giorno, solo i “frammenti” che gli servivano. Per l’appunto, dirà: “Ma un quadro che sia un quadro, vale a dire unità organica sorretta da leggi specifiche, difficilmente l’incontro. Altro che istinto”. Né azzardo per Gauguin, né istinto per Rossi, dunque. E che storia sarebbe, da scriverci su all’infinito essendone capaci, quello dell’incontro a Parigi, che non ci fu, però sublimamente bello da immaginare, tra Rainer Maria Rilke e un poco più che ventenne Gino Rossi, tutti e due nel Salon d’Automne del 1907 per la mostra su Cézanne, con il grande poeta e scrittore mitteleuropeo rapito di fronte ai quadri del Vecchio di Aix, dove “camminava avanti e indietro nel suo studio dalle mele sparse qua e là o andava disperato nel giardino, e rimaneva seduto”.

Certamente il giovane Rossi avrebbe ricordato per sempre questa geniale lezione su Cézanne di un Rilke più e più volte a Parigi in quel giro d’anni nessuno invano:

Nel ritrarre paesaggio o natura, fermo coscienziosamente davanti all’oggetto, egli lo assumeva soltanto dopo complicatissime circonvoluzioni. Cominciava con colori scurissimi e copriva la loro profondità con una superficie di tono appena superiore e così via , schiarendo colore su colore, fino ad arrivare a poco a poco a un altro elemento figurativo in contrasto con il primo sul quale egli, partendo da un altro centro, lavorava allo stesso modo.

Barene a Burano, 1912/1913

E si osservi ora Barene a Burano, che Gino Rossi può aver dipinto attorno al 1912, magari di ritorno da Parigi dove aveva esposto otto quadri al Salon d’Automne. Sia il cielo azzurro lontano sull’orizzonte sia il verde in primo piano delle erbe e delle acque lagunari si riinventano partendo da colori scuri o “scurissimi”, in cui, un po’ alla volta, si palesano diffusioni diverse dell’azzurro o del verde. Il cielo da azzurro che era si spande in cimette rosa, in altezze appena verdi, in una minuscola infiorescenza bianca, fino a distendersi giù nel blu deciso del profilo delle montagne; e quindi, “partendo da un altro centro”, quello sollevato da risorgive di un verde cupo ma con dentro sponde e macchie ancor più nere, si alzano, piano dopo piano, altri scivoli di colori, altri oggetti, che possono essere un albero fatidico dal fogliame stentato sulle cui cortecce si fermano le sfumature dell’ocra o molto più in là forse una vela rossa, oppure ,quasi sul bordo destro del dipinto, la bizzarra chioma di un’altra nuvola del verde (da cui scende un’ombra da baobab) che è sostenuta da un tronco d’albero più celeste del celeste.

Ma qual era il punto “drammatico” del procedimento appartenuto a Cézanne per le sue rappresentazioni figurative? Concludiamo il Rilke sopra citato, aggiungendovi:

Penso che i due procedimenti – quello dell’assunzione visiva e sicura e quello dell’appropriazione dell’uso personale di quanto assunto – contrastassero dentro di lui, forse in seguito a una presa di coscienza , che cominciassero a parlare per così dire nello stesso tempo, si togliessero di continuo la parola, si scindessero senza tregua.

Ecco la disperazione di Cézanne, che si placava soltanto quando i due procedimenti (assunzione visiva e appropriazione dell’uso personale di quanto assunto) riuscivano ad annullare la tensione, lo squilibrio, la scissione causata dall’oggetto assunto e la presa di coscienza di quell’oggetto da parte del pittore. Il punto dell’equilibrio pensante era dato dall’oggettività illimitata, la chiama così Rilke. Un punto d’equilibrio che trasmette esistenza da ogni opera di Cézanne consegnandoti ad un silenzio mentale e lenitivo, quello in cui si annulla il caos, l’insopportabile confusione del “reale”, il conflitto tra il “sicuro” vedere e la soggettività dell’oggetto assunto. Il porsi al di fuori dell’instabilità del “reale”, il volere andare oltre “il costruire dei volumi e subordinare il colore all’espressione della forma”, sarà la sfida impietosa vissuta da Gino Rossi, che chiamerà sintesi quel punto d’equilibrio: “dare il senso della natura attraverso la sintesi degli aspetti suoi più commoventi”. Una sfida, quella di Rossi, drammaticamente rischiosa perché, se si manca la sintesi, se non si raggiunge il punto d’equilibrio, se non acquisisci il senso dell’oggettività illimitata individuandovi un possibile percorso, il pericolo viene dal dipingere o disegnare immagini che rivelano l’inappartenenza (quella di cui, in parte, si criticò la poesia di Montale).

Oimè, nel caso dell’ultimo Gino Rossi, dovrebbe intendersi l’entrare nell’inconsistenza del soggetto, nella precarietà ed evanescenza dell’essere in quanto tale, il che non rientra immediatamente nella follia, piuttosto potrebbe significare la scelta di precipitare nell’inappartenenza, ovvero l’allontanarsi da tutto e da tutti. Nuovamente Rilke, perché nel provvedersi dell’arte di Cézanne lo scrittore e poeta si ricordò di Balzac “che aveva intuito come dipingendo si può improvvisamente arrivare di fronte a una grandezza tale, che si può soccombere”. È che si soccombe anche durante l’ossessiva dedizione all’impresa, la solitaria ricerca della sintesi, l’orgoglio del rifiuto che spesso si accompagna all’ammarezza più profonda del vedersi rifiutato, non compreso.

Nel chiudere sul punto, lo stesso Nino Barbantini, il più amico tra i pochi amici sinceri, apprezza ma non capisce il sofferto splendore della sua arte, se in presentazione alla retrospettiva biennalesca del 1948,scrive:

Il senso istintivo e sperimentato della tradizione e della sua inevitabilità, nella pittura di Rossi è visibile . Le conferisce una leggibilità e una normalità d’ordine classico, una gravità pensierosa tutta italiana.

Niente della pittura di Gino Rossi in queste righe.

La fanciulla del fiore, 1904

Finalmente è giunto il momento di dire che i suoi capolavori non sono paesaggi di colline asolane, di isole e barene attorno a Burano, di villaggi bretoni, e nemmeno di tavoli con caraffe o bottiglie o frutti immarcescibili in una stanza lasciata alla luce della luna. I suoi sono paesaggi dell’anima in cui “tendono alla chiarità le cose oscure”. Cose oscure da cercare in fondo al blu per l’avvento della poesia o per leggervi messaggi incomprensibili o per guardare meglio dentro a qualche spiraglio l’incanto che non sai o le scorie dimenticate. Cose da osservare attraverso l’immaginazione, ad esempio, nella Grande descrizione asolana, quella con l’invito blu a scavalcare una staccionata oltre la quale, vertiginosamente, il blu va inseguendosi, dopo “complicatissime” ma sempre in equilibrio “circonvoluzioni”, su, In alto, fin dove proprio un niente di cielo si fa smeraldo chiaro. Ma la sinfonia del paesaggio è retta dal blu, il blu del “sistema blu” di Gino Rossi, che, se si vuole capire il perché di tanto blu, non c’è che da ricorrere a uno dei più grandi sull’anima dei colori, a Wassily Kandinskij. Non c’è dubbio, Kandinskij, che aveva dipinto nel 1903 “Il cavaliere azzurro” e che scrive nel 1910 la teoria dei colori (lo stesso anno in cui Rossi espone a Ca’ Pesaro Ragazza in turchino, la fanciulla del fiore), svolgimento di pensieri in grado di scoperchiare l’animo blu oltremare di un pittore che, nato tra San Samuele e Campo Santo Stefano, non amò mai Venezia, Burano infatti è un’altra storia. Kandinskij:

La profondità la troviamo nel blu (…). La vocazione del blu alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa e intima (…). Il blu è il colore tipico del cielo. Se è molto scuro dà un’idea di quiete. Se precipita nel nero acquista una nota di tristezza struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine.

Poemetto della sera, 1923

Non resta che provare a leggere alcune opere di Rossi attraverso la “lente” di Kandinskij, a iniziare dal Poemetto della sera (1923). Il celeberrimo (tra i rossiani) minuscolo olio su cartone, disoccultato da una bellezza controllata fino all’estremo, raccoglie i molti “frammenti” di un momento che si vorrebbe di quiete agreste, tra i quali sembra di intravedere la figura stupita di una donna (?), che forse alza lo sguardo verso il fantastico mutare della luce. E c’è un passaggio di anatre o forse di oche sul proscenio, quasi forme ritagliate nella carta. Ovunque evoluzione estatica della luce in cerca di un perno fissato al centro, su di una casa, ma non si sa se casa e quanto lontana sia; e poi altri frammenti ancora da stringere in una griglia di colori e di circostanze non superflue. Appena al di sopra dell’orizzonte una specie di globo misterioso, una leggera meteora astrale, un irreale mappamondo, un pianeta venuto non si sa da dove e forse sul punto di calare sulle colline non più blu ma già nere. Dello stesso nero con cui si intrecciano gli alberi messi a delimitare, a reggere ombre, apparizioni, colori. Alberi rassicuranti come possono esserlo, se lo sono, gli ultimi argini, fatti di un blu che “se precipita nel nero acquista una nota di tristezza struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine”.

Chiesetta in Bretagna, 1909

La profondità la troviamo nel blu, ha scritto Kandinskij, che è il blu in cui scivola Gino Rossi lasciandosi andare sul tetto, sui muri, sul resto del mondo, dove il blu si arresta soltanto attorno al varco di luce che illumina la porta della Chiesetta in Bretagna. Davanti a questa piccola Chiesa ha lasciato da poco le sue tracce “Il cavaliere azzurro” dovendo rendere palese che “la vocazione del blu alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa e intima”. Sofferenza, tenerezza, rifiuto, sentirsi rifiutato, per questo non è possibile dimenticare il suo ultimo grido, la sua opprimente infelicità scritta nel 1926 a Giovanna Bieletto:

Giovanna mia questa vita non finisce più, mi par d’essere uno straccio e tante volte mi par d’impazzire. Cammino attraverso i campi, sento suonare le ore e i grilli cantare, dov’è Ciano? La nostra casa? Quando la sera tornavo col cavalletto e il telaio dal lavoro e la cena era pronta… Come sono lontani quei giorni e quanto ho sofferto e soffro e soffrirò ancora maggiormente. C’è un merlo che fischia . Mi par di vedere il giro dei Piave, là, vicino a casa collo sfondo dei monti.

Gino Rossi

Si dovrebbe cambiar nome al Poemetto della sera, più giusto sarebbe chiamarlo A Giovanna. Gino Rossi si ferma, si raggomitola nella sua esistenza, si nega per sempre all’immane fatica sofferta cercando di rispondere alle sue irrisolte domande: quale pittura dopo Cézanne? Quale musica dopo Wagner? Quale poesia dopo Rimbaud? 

Chi fosse interessato a sapere se Gino Rossi si perse o meno nella follia, c’è questa riga scritta da Robert Walser che può aiutare: “Nel suo quarantesimo anno Hölderlin ritenne consigliabile, cioè pieno di tatto, perdere la sua umana ragione”. Ancora più convincente l’approfondimento su chi si consegna alla pazzia trovato nel magistrale saggio di Giorgio Agamben La follia di Hölderlin:

Il problema non è di accertare se Hölderlin fosse o non fosse pazzo. E nemmeno se egli abbia o meno creduto di esserlo. Decisivo è, infatti, che ha voluto esserlo o, piuttosto, che la follia gli sia apparsa a un certo punto come una necessità, come qualcosa a cui non poteva sottrarsi senza viltà, dal momento che “come il vecchio Tantalo … aveva ricevuto dagli dei più di quanto poteva sopportare”.

Nessuna esitazione nel sostituire Hölderlin con il nome di Gino Rossi. E motivatissimi ringraziamenti a Flavia Scotton e a Nico Stringa che con il loro Gino Rossi, lettere e scritti dispersi (Canova Edizioni) hanno presidiato la grandezza del pittore blu oltremare che matto non fu mai. 

Franco Miracco

Pubblicato il 22/04/2021 su Ytali

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