Giovanni Comisso come Alceste. Gli anni della misantropia

Giovanni Comisso come Alceste. Gli anni della misantropia

Alceste tra i contadini” è un articolo di Giovanni Comisso pubblicato nel settimanale “Il mondo” di Pannunzio, il 1° aprile del 1950.
A guardar bene, la maschera indossata da Comisso, che rinuncia qui alla prima persona, non è poi così difficile da interpretare: Alceste è il protagonista della pièce di Moliere, “Il misantropo“.

L’idea di identificarsi con Alceste, che può suonare un pò stravagante, dipende molto probabilmente da una crescente disaffezione che Comisso andava maturando in quegli anni nei confronti del mondo rurale, di cui antivedeva il rapido mutamento.
Ma vi è anche un’altra caratteristica del personaggio di Moliere che attrae Comisso, e cioè la capacità di ridicolizzare tramite l’ironia i difetti e le imperfezioni degli uomini, ironia che si fa caustica quando si tratta di smascherare le convenzioni sociali e l’ipocrisia della politica.

Con l’Alceste di Moliere, Comisso condivide anche un tono dolente, di chi sa che di fronte alla “forza delle cose“, di fronte alla deriva di certe caratteristiche antropologiche (cavalcate a loro volta dalla politica), poco può opporre, se non uno sguardo lucido e consapevole della propria e altrui debolezza.
Perché il misantropo sa anche che, per quanto possa diffidare del consorzio umano, ne fa parte egli stesso in quanto uomo.
Così, Alceste non può vivere nel mondo e fugge nel deserto: Comisso non è altrettanto radicale, però si sta preparando ad abbandonare il suo mondo campestre, la campagna di Zero: sogna inizialmente di andare a vivere nel Circeo ma è un sogno che ben presto diventa un incubo.

Giovanni Comisso come Alceste. Gli anni della sua misantropia
fonte: Wikipedia

A metà degli anni ’50 torna a vivere a Treviso, cercando il “grande ozio“, salvo accorgersi che “oggi tutto è cambiato, sono cambiate le stagioni, il sole sembra ammalato e io anche sono come ammalato: non sono mai libero di oziare, ammalato è anche il denaro, che non à più la forza di un tempo e dovunque si vada la gente imperversa in una insopportabile folla che stanca e assedia“.

Gli scritti degli ultimi anni comunicano amarezza e frustrazione, che diventano paura e nausea di fronte alle mutazioni in atto, ovunque, non più solo nel mondo contadino, inaspettate e inspiegabili agli occhi dello scrittore, giunte a infrangere l’armonia del mondo che ha conosciuto.

Anche a Treviso va in giro in bicicletta, accanendosi a sputare contro le macchine “col feroce dispetto di una volta, quando non avevo i denari per possedere una macchina e la giudicavo il carro trionfale degli arricchiti di guerra“.

Quella maschera di misantropo che sembrava indossata solo per gioco, ora gli si è appiccicata e non sa e, forse, neppure vuole togliersela.

Nicola De Cilia

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