Giovanni Comisso. Il libro di un altro me stesso - Introduzione di Nicola De Cilia

Giovanni Comisso. Il libro di un altro me stesso – Introduzione di Nicola De Cilia

Diversi anni fa, nella scuola dove insegnavo, invitammo Vitaliano Trevisan per presentare un suo libro, credo fosse Il ponte. Nel romanzo si parla anche di eroina e un professore accusò lo scrittore di essere un irresponsabile perché non si evinceva con chiarezza una critica radicale alla droga. Ricordo la smorfia sorniona di Trevisan. Ascoltò imperturbabile la filippica, poi, dopo un’interminabile pausa, rispose che compito di uno scrittore non è compiacere le attese dell’opinione pubblica, il suo unico dovere è nei confronti dello stile e dell’onestà intellettuale, nel rifiuto di ogni retorica.

Bisogna diffidare di ciò che scrive Comisso quando dice che l’arte del primo ‘900 aveva creato “schemi umani privi di una vita interiore sui quali si modellarono gli uomini del nostro tempo indifferenti all’uccidere e al generare, al vivere e al morire, all’affermare e al negare”, ché di buone intenzioni sono lastricate le autostrade infernali. Non bisogna, infatti, dimenticare che chi probabilmente ha più creduto nel potere edificante della letteratura è stato un certo Iosif Vissarionovič Džugašvili, in arte Stalin, seguito a ruota da tiranni di ogni credo politico o religioso. Agli scrittori sovietici dava queste indicazioni: “I nostri carri armati non valgono niente, se le anime che devono guidarli sono d’argilla… L’uomo è trasformato dalla vita e voi dovete aiutarlo nella trasformazione della sua anima… Siate ingegneri d’anime!

Manifesto di propaganda “Wir kämpfen für den Frieden” (fonte: Wikipedia)

Ovviamente Comisso era lungi dal sottoscrivere il progetto stalinista, le sue intenzioni erano ben diverse, gli uomini non dovevano certo guidare carri armati, anzi, dovevano riscoprire il potere delle lacrime e tornare a far pulsare un cuore non più di pietra. Ma appunto, sono intenzioni e non si giudica uno scrittore o la letteratura tout court a partire dalle intenzioni. Resta come un suono di moneta falsa, quasi una stecca, al termine della lettura dei tre interventi dedicati ai sentimenti. Un cosa però comprendo bene, che quelle riflessioni nascevano da una grande sofferenza d’amore e questo lo redime ai miei occhi, gli perdono le ingenuità e apprezzo il coraggio che lo porta a mettere a nudo il suo cuore, prendendo le distanze da se stesso, ma so che continuerò a leggere Giorni di guerra o Il porto dell’amore o quel capolavoro poco noto che è Gioco d’infanzia, senza che per questo io divenga di pietra. Così come amo Louis-Ferdinand Celine che mi accompagna fino in fondo alla notte senza che per forza debba coltivare simpatie antisemite e leggo Michel Houellebecq per capire meglio la deriva assurda in cui sta scivolando parte del nostro Occidente, ma non per questo ho deciso di suicidarmi, per ora. E se leggo Lo straniero di Albert Camus, non è detto che vada in giro a sparare agli arabi sulla spiaggia.

Insomma, la letteratura non ha doveri, se non quelli segnalati da Trevisan: scrivere è un atto di libertà e anche leggere lo è e ogni lettore è responsabile di ciò che comprende. Per questo voglio chiudere con una riflessione di Stig Dagerman, tratta da Il nostro desiderio di consolazione: Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso – il che d’altra parte non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà.

Sono convinto che Giovanni Comisso abbia sempre costruito, con le sue parole, la libertà, e questo mi basta.

Nicola De Cilia

frame da “1946 Autumne Allemand” di Michael Gaumnitz, tratto da un libro di Stig Dagerman

“Il libro di un altro me stesso” di Giovanni Comisso

Sono sicuro d’essere accusato d’incoerenza da coloro, che letta la mia dichiarazione sui sentimenti nell’arte, che precede il mio romanzo: Capriccio e illusione, ora si sono trovati alle prese con Amori d’Oriente. Difatti mentre nella dichiarazione mi auguro sorga in Italia un’arte umana intessuta di sentimenti, in Amori d’Oriente do invece un giuoco di fantasia forte di istinti puramente bestiali. Si è sospettato, che invece di incoerenza, si fosse trattato di una virata di timone, di una satanica risposta alla distratta attenzione per il mio invocare un rinnovamento nell’arte. Ma non è cosi: ho pazienza di attendere. Ancora si è pensato che deluso nel mio capriccio io sia ritornato con Amori d’Oriente a quella mia narrativa definita più volte come epidermica e sensuale e che mi diede la prima rinomanza. Ma non è così: non vado a caccia di rinomanza.

"Amori d'oriente" di Giovanni Comisso, Longanesi, 1949

Amori d’Oriente è semplicemente un mio libro scritto quindici anni or sono e solo ora ha trovato la possibilità di venire pubblicato. E’ un libro mio, ma scritto da un altro me stesso che oggi considero come staccato da me. Non rinnego questo libro, perché allora avrei dovuto distruggerlo. Ma siccome rappresenta il limite massimo della mia possibilità narrativa sulla trama degli istinti, ho desiderato venisse pubblicato per avere io compreso, la misura completa di questa mia maniera di scrivere. Purtroppo Amori d’Oriente piace: e questo mi riconferma l’errore della narrativa d’istinti. Non sono dell’opinione che si debba accontentare e seguire il gusto del pubblico, ma anzi bisogna essere sempre contro questo gusto e mutarlo. Ed è l’arte che insegna a parlare e a vivere agli uomini su di un piano più elevato da quello originale. Spetta, oggi, all’arte il compito di vincere e di superare negli uomini il gusto e il piacere negli istinti per raggiungere invece una considerazione maggiore della vita sul procedere dei sentimenti. Da oltre cinquant’anni l’arte narrativa ha sdegnato i sentimenti umani opponendosi al gusto romantico del pubblico della fine dell’8OO. E quel gusto fu vinto e represso, ma fatalmente il risultato è stato crudele perché si crearono schemi umani privi di una vita interiore sui quali si modellarono gli uomini del nostro tempo indifferenti all’uccidere e al generare, al vivere e al morire, all’affermare e al negare.

In questi anni siamo giunti a quell’estremo dell’irrigidimento umano, che con angoscia avevo previsto in una notte di febbraio del 1943.
In quella notte partivo da Roma e nei mio scompartimento era salito un giovane ufficiale aviatore che andava in licenza dalla zona di guerra. Nello scompartimento la sua figura appariva con risalto come racchiusa in una cornice. Subito gli altri viaggiatori chiacchierarono con lui che parlava freddissimamente. Andava presso la madre per la morte del fratello avvenuta in combattimento, ma ebbe poche parole senza emozione. Si accennò alla morte recente di un aviatore, lo conosceva, era stato suo compagno di squadriglia, ma non aggiunse alcun rimpianto. Parlarono di donne: ma non ne dimostrò che un superficiale interesse. Parlarono della patria devastata, ma non ebbe alcun sentimento al riguardo. disse che comunque si fosse conclusa la guerra, dopo, avrebbe fatto l’aviatore civile. Il ritorno presso la madre, alla città natale, gli diede a un certo momento il desiderio di un cibo locale, e non ebbe neanche il sentimento di un ghiotto, ma un istinto di fame avendo mangiato poco e male. La vita per lui non aveva alcun valore e non poteva averlo nella completa assenza di sentimenti. In lui non vi era traccia di coscienza interiore.
In quella notte compresi quale era la conseguenza di un’arte priva di sentimenti e previdi con orrore che una gioventù simile sarebbe direttamente arrivata senza fremito alle uccisioni più tremende. A quelle uccisioni che noi tutti abbiamo visto e sofferto in questi anni. Quella notte avvenne la mia caduta sulla strada di Damasco: finita una stagione era germogliato in me il segno di un’altra stagione che incominciava. Nel rivedere tutta la mia opera narrativa scopersi come ero stato sempre dominato da insensibilità per ogni considerazione umana, per me il mondo era tutto fatto di paesaggio e se rientrava l’uomo, era solo come elemento di esso, o come un cristallo che rifletta nelle sue sfaccettature la luce circostante. Non scavavo dentro l’uomo perché non aveva ancora scavato dentro di me.

Gli anni seguirono atroci e fui messo alla prova dei sentimenti tra distruzioni ed uccisioni sempre più vicine a quello che era stato sino allora il mio mondo istintivo. Sorsero sentimenti vampeggianti radicandosi profondi in me, sentimenti che divennero passioni ed esasperazioni facendo crollare grande parte della mia pietrosità che mi aveva tanto inorgoglito dalla giovinezza. Le vicende più tragiche di questi anni mi toccarono, mi avvinsero, mi soffocarono e mi avrebbero ucciso se avessi perduto il controllo di quanto in me si trasformava creando un altro me stesso che voleva vivere e rinnovarmi. Moriva ucciso dal dolore quel me stesso istintivo e ne nasceva un altro modellato interiormente dai sentimenti e dal dolore. Il primo libro sorto da questa mia nuova incarnazione fu Capriccio ed illusione, e non è molto piaciuto.

George Arliss nei panni di Voltaire (fonte: Wikipedia)

Sono stato assai felice che non sia piaciuto, sapevo che doveva e deve ancora per molto tempo vincere il gusto del pubblico. Nello scorso mese ho terminato il secondo libro che ha la stessa origine e spero entro l’anno e non piacerà anche nel titolo: Oltre la morte. Ma rimarrà ugualmente come una sfida mentre tutti continueranno a fare sempre di più la coda davanti ai titolo ed alla copertina avvenenti di Amori di Oriente. Ed è strano ma spero che questa lunga coda di attesa si disperda e riesca a comprendere come ho compreso io che il personaggio di questo libro è un vano personaggio imparentato, con rispettosa distanza, nella materia che lo compone, con quei personaggi di Voltaire che potevano venire tagliati a pezzi senza dolore e senza suscitare dolore. Ho lasciato che questo libro venisse pubblicato, anche perché ero riuscito oramai a condannarmi e ho già scontato la pena con le nuove opere.

Dedico queste mie dichiarazioni all’amico Agostino Pinelli che qui espone le sue prove pittoriche accresciute di valore dal tempo in cui egli stesso era testimonio spesso sollievo al mio aspro rivolgimento nei dolorosi avvenimenti precipitati su di me.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul n. 7 della Fiera Letteraria del 13 febbraio 1949.
Immagine in evidenza: foto di Jovydas Pinkevicius da Pexels

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