Giovanni Comisso. Il tesoro dei colli Euganei

Il viaggio di Giovanni Comisso nel Giardino delle Esperidi assume spesso una dimensione onirica in perfetto equilibrio tra presente e passato.

Ci ritroviamo così, accompagnati dallo Scrittore, a visitare il Convento di Praglia e a rievocare la romantica storia del Settecento  di quel contino di Vicenza, figlio di un padre austerissimo, che era ricorso agli Inquisitori di Stato di Venezia per farlo ravvedere da un amore violento per la servetta di casa… per poi ritrovarci in un mattino del Trecento ad Arquà in compagnia del Petrarca, partito all’alba per andare a Padova a scegliersi qualche lauro da piantare nel suo giardino. Inquieto ed errabondo per l’Europa come un uomo del nostro tempo, qui visse gli ultimi anni della sua vita.

Le pagine dedicate al Veneto, e nello specifico ai colli Euganei costituiscono una dichiarazione d’amore dello Scrittore  al proprio territorio: un patrimonio di inestimabile valore storico artistico paesaggistico culturale che lo scrittore ha saputo cogliere  “vedere” e tramandare.

Quello stesso patrimonio oggi purtroppo è scarsamente valorizzato, a volte violentato, deturpato, basti pensare a quanto potrebbe accadere al Castello del Catajo.

Le parole di Comisso in questi scritti immortalano le immagini arricchendole di poesia e rendendole indelebili nella nostra memoria. Abbiamo bisogno di occhi nuovi per riuscire a scorgere quel tesoro che ci appartiene e che noi tutti dobbiamo preservare.

Facciamoci guidare allora dallo Scrittore alla scoperta dei colli Euganei, un viaggio emozionale che unisce storia, poesia e letteratura…

I SOLDATI Di NAPOLEONE

“Dopo tre mesi di clausura il priore con una calligrafia da ragazzino, riferiva che il giovane conte appariva completamente guarito e di rimando gli Inquisitori, prudenziali, concedevano che potesse fare, in compagnia dei frati, qualche passeggiata anche fuori dal convento, ma senza avvicinarsi al paese. Solo al sesto mese di relega zio ne, tanto il priore che gli Inquisitori poterono avere la certezza che non pensava più alla bella servetta e venuta da Vicenza una carrozza del padre fece ritorno alla sua casa, di dove la servetta era stata cacciata con ignominia.

Pochi anni dopo arrivarono i soldati di Napoleone per danzare la Carmagnola con quelle belle servette fino allora giudicate spregevoli esseri umani e sfondate le porte dei conventi e dei palazzi nobiliari vi bivaccarono, allegri apportatori di una vita ‘nuova, che in vero doveva essere attesa.

Ma conoscevo un altro contino che non rivedevo da alcuni anni, da quand’era ragazzetto. Si tratta del contino Alessandro che discende da una delle più alte pareti formate da piante verdi e fitte, tagliate minuziose, tramutate in vicoletti, in archi e in altri portici.

Respiravo una tristezza immensa soprattutto perché mi si rendevano presenti certe illustrazioni di Gustavo Doré con alberi fantastici sino a impaurire.

Ma stranamente mi sentii vivere come in un’epoca lontana tra quelle prospettive vegetali che si facevano sempre più cupe col dileguarsi della luce.

La certezza di vivere in un’altra epoca finì col convincermi che fosse un ricordo di un’altra mia vita, vissuta forse in quella villa e che avessi passeggiato tra quegli alberi. Allora uno solo fu il pensiero, quello di fuggire per non lasciare salire l’angoscia.”

Giovanni Comisso, Sguardi sul mondo , n. 19 VII, nel 1958

I COLLI EUGANEI

Ma se la gente di Padova in antico è discesa dai colli Euganei essa di continuo vi ritorna con il gusto di ritrovare nel verde dei boschi e nel variare delle cime l’aria che l’ha generata.

Risultano questi colli vulcanici così staccati sulla pianura che sembrano isole sul mare.Avviene talvolta, dopo un temporale che abbia schiarito l’aria vederli, da Venezia, emergere acuminati e cilestrini su dal limitare delle acque della Laguna, trasparenti e irreali come vapori sospesi.

Erano isole ed erano vapori emanati dai crateri incandescenti quando la pianura padana stava ancora sommersa dalle acque del mare. Ma cresce la loro bellezza se si penetra nelle loro valli, dove la terra arata nereggia come il carbone e da essa matura nerissima l’uva, nerissime le ciliege e una gente dai neri occhi e dai neri capelli.

Ogni minimo procedere della strada tra quelle alture dalle forme strane e irreali varia l’aspetto del luogo e girando per le strade tortuose in salita o sul piano attorno lo sceneggiare muta come un corpo che passi davanti a specchi diversi concavi o convessi.

In poco spazio vi è una varietà immensa nell’ aspetto e nel tempo. Nel tempo perché salendo ad Arquà o al convento di Praglia è come ritrovarsi in un mattino del Trecento.

Arquà, internata tra le valli, vive nel metro d’un sonetto di Petrarca. Sembra che egli sia partito all’ alba per andare a Padova a scegliersi qualche lauro da piantare nel suo giardino. Inquieto ed errabondo per l’Europa come un uomo del nostro tempo, qui visse gli ultimi anni della sua vita.

« In uno de’ colli Euganei, di lungi dalla città di Padova presso a dieci miglia, edificai una casa piccola, ma piacevole e decente, in mezzo a’ poggi vestiti d’ulivi e di viti. Or qui io traggo la mia vita e benché infermo nel corpo, pur tranquillo nell’animo, senza romori, senza divagamenti, senza sollecitudini, leggendo sempre e scrivendo e lodando Dio»

Così scrisse della sua vita nella sua casetta ancora intatta che custodisce le memorie. A ogni finestra vengono a tremare le rose, semplici rose come appartenenti a quel tempo antico. Rose, lauri, cipressi e ireos nel giardino e viti e meli nell’orto dietro alla casa. La sua tomba è giù nella piazza della chiesa in un’ arca di pietra, nel luminoso mattino sta mezza in ombra e mezza in sole.

A Praglia nel fresco ventoso suona l’organo dentro alla chiesa e la musica cola calda per deporsi nei chiostri e negli orti chiusi.

Dalle finestre si dischiude un miraggio verde di declivi e di campi, di lontananze azzurrine. Giù negli orti alcuni frati con grandi cappelli di paglia stendono la biancheria al sole e altri raccolgono la verdura. Le vecchie colombaie nereggiano diroccate come vecchie torri, una statua bianca appare lontano in una nicchia del muro di cinta. Le logge girano attorno ai chiostri alte e sonore ai passi sulle mattonelle.

Il grande convento è pervaso dalla fresca aria che ventila di fuori e tra le sue pareti sembra di camminare come sotto a un alto bosco. Qui Antonio Fogazzaro venne a rinchiudersi per scrivere il suo romanzo Il Santo.

Giovanni Comisso
Padova e i colli Euganei in “Veneto” della collana “Attraverso l’Italia-Nuova Serie” del Touring Club Italiano. (Milano 1964)

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