“Henry Furst” di Giovanni Comisso

Il 15 agosto 1967. Enrico deceduto stamane; funerali domani mercoledì – Orsola.

Così mi venne dato l’annuncio della fine di Enrico Furst da Orsola Nemi, la sua fedele compagna. Egli fu colui che strinse la mia amicizia con Gabriele d’Annunzio, che venne suggellata dalla lettera del 4 gennaio 1932.

Furst in quell’anno si trovava al Vittoriale, e il discorso cadde su di me che lo attendevo per passare assieme l’inverno a Camogli. Gabriele d’Annunzio disse: “Ma Comisso è un mio legionario”.

Avuta l’approvazione disse che se gli inviavo i miei libri, mi avrebbe invitato al Vittoriale. Allora glieli mandai, ed egli mi invitò a Gardone.

Nella lettera che poi mi scrisse vi sono diversi punti dove nomina Enrico Furst.

‘‘Enrico ti dirà che su tutti gli alberi del Vittoriale è il gallo di ferro battuto: non quello della aurora ma quello del rinnegamento”.

Ancora: “Enrico ti ha detto — io penso — che sotto i suoi occhi istrambi l’altra sera scrissi un telegramma d’invito fiumano per te. Ahi. lo ritrovo entro il quinto libro delle Istorie di Erodoto. E certi Ateniesi denominati furono, come dicevamo, esecrabili.

Poi, se vuoi, sali con Enrico verso le arche e verso la nave. Avvertirò il marinaio Cama che, a tuo comando, spari undici colpi di cannone in gloria degli eroi dagli occhi aperti e in preparazione dell’orizzonte scuro”.

Da quella lettera sorse la mia devozione per D’Annunzio e la mia amicizia per Enrico Furst.

Spartiti i doni D’Annunzio ci regalò due portasigarette “custodiette dell’oblio”; proseguii io per Camogli dove nell’ospitale casa di Furst scrissi i miei libri sull’Oriente da dove ero appena ritornato. Henry Furst, sebbene nato negli Stati Uniti, era un purissimo italiano. Scoppiata la grande guerra era venuto in Italia come membro di una Croce Rossa e vi rimase.

Egli tradusse D’Annunzio. Croce ed altri scrittori italiani. E’ suo merito se fece conoscere Orsola Nemi, che ebbe la ventura di conoscere nella sua ricerca di vecchie riviste italiane per una biblioteca degli Stati Uniti.

Portò alla notorietà Tommaso Landolfi; diede fama a se stesso con la raccolta di racconti “Donne americane” scritti direttamente in italiano e pubblicati dalla Longanesi. Altro suo libro assai stimato da Croce, Mauriac e altri fu “Simun”, anche questo scritto direttamente in italiano. Ma il suo capolavoro è il racconto “La morte di Mozart” dove è narrata la storia del lavoro incompiuto.

Enrico Furst visse con me l’inebriante avventura fiumana, e fu segretario di D’Annunzio fino alla fine.

Fu certamente l’ultimo degli innamorati dell’Italia, capace di vivere come una propria passione di questa terra.

Viveva e soffriva come un italiano e se non vi fosse stato ogni tanto il richiamo consolare della sua patria d’origine, sarebbe stato italiano oltre tutti i limiti. Nel 1928 si decise che io avrei fatto un soggiorno in America a spese di una Università americana. Invece in quello stesso anno fui mandato in Cina, per il servizio giornalistico del “Corriere della Sera”,e così io andai in Oriente e l’amico Mario Soldati andò in America al mio posto, essendo sollecitato dal nostro amico comune Henry Furst.

Fu così che sorse quel meraviglioso sodalizio fra i due. Giravano come bohèmiens, facendo conferenze e con i denari guadagnati divertendosi come folli. E’ da questo viaggio che ebbe origine la grande conoscenza americana di Soldati.

Altra conoscenza di Furst fu quella della scrittrice italiana Orsola Nemi, che offriva alcuni numeri arretrati di settimanali italiani e ne metteva l’annuncio sui giornali. Una biblioteca americana ricercava alcuni numeri della Illustrazione italiana.

Enrico Furst si presentò per comperarli, e si trovò davanti a una poetessa infelice e romanziera. Subito la presentò a Leo Longanesi che ne fece una delle sue collaboratrici, con “Rococo”, “Maddalena della Palude” e “Rotta al Nord”.

Anche il diario di Figallo, presso Longanesi, fu opera di Furst. Quando ci si trovava, era sempre un momento supremo nel lasciarci; e non si sapeva chi sarebbe stato fedele nel ritrovarci.

Questa volta fu lui che mancò all’appuntamento; lascia un patrimonio in lingua italiana di romanzi, novelle e recensioni, con un fine acume critico che gli deve essere riconosciuto.

Giovanni Comisso

Il Giornale d’Italia 25 agosto 1967

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