I despoti del cemento

I despoti del cemento. Il disastro della ricostruzione nel dopoguerra italiano

La bella città italiana fu distrutta in quindici minuti. Trecento bombardieri americani argentei contro il cielo primaverile di un giorno del 1944 ruppero la formazione serrata per distendersi a ventaglio sopra la città. Sotto, le case crollarono e l’aria oscurò in un turbine di polvere e di fumo. Crollarono le case e crollarono i rifugi. Ognuno ebbe o parenti o amici morti o la casa e beni distrutti, nessuno sfuggì al dolore e al danno, e nelle poche strade sgombre di macerie o davanti alle chiese dove venivano distesi i morti informi, i sopravvissuti si raccolsero piangendo tra il latrare dei cani che fiutavano nell’aria l’orrore.

Poi vennero altri giorni, ritornò la pace e ritornò la vita. Gli ingegneri si misero subito al lavoro e dissero: «Approfittiamo che la città è stata distrutta, era vecchia e inadatta al traffico moderno, ne faremo una città nuova per la quale si possa circolare comodamente».
Si credeva che il regime della dittatura fosse il carnevale degli ingegneri, degli architetti; dei costruttori, insomma, e che la democrazia fosse quello degli avvocati; invece sotto gli auspici delle vaste distruzioni operate sulle città italiane, la democrazia protrasse ancora la grande festa dei costruttori.

Sicché dopo la guerra ci si trovò ancora alle prese con un despotismo sostanziato di cemento armato e di mattoni. Ma mentre quello di prima partiva da un solo programma di follie, questo parte da tanti programmi quante sono le città da ricostruire.
I nuovi costruttori nella loro follia non misero per nulla su di un piatto della bilancia la realtà che l’Italia era in pezzi non solo nelle sue città, ma in tutto il suo organismo vitale e che bisognava soppesare la minima decisione. Essi constatavano che il traffico era enorme (perchè quasi totalmente formato dai trasporti motorizzati degli eserciti stranieri) e che il denaro circolava senza limite coi biglietti da mille come moneta minima di partenza.
Il traffico imponeva, il denaro permetteva, quindi bisognava mettersi all’opera.

Vista aerea di Treviso (Wikipedia)
Vista aerea di Treviso

Nei riguardi della bella città italiana che era stata distrutta in una giornata primaverile del 1944, non si preoccuparono neanche, alla prova di una distruzione consecutiva ad altra avvenuta durante la prima guerra mondiale, di ricercare le cause che avevano indotto a prenderla due volte cosi ampiamente di mira e cercare di allontanarle nell’eventualità di altra guerra avvenire. Questa città era stata prima e poi in tale modo presa di mira per il semplice fatto che piccola come è si trova incastonata per quasi tre lati da importanti linee ferroviarie. Sarebbe stato quindi facile sapienza portare quelle linee a giusta distanza dalla città in modo da evitare il connubio dei caseggiati con tanto attraente bersaglio. Ma di questo non si preoccuparono. Segnarono invece a settentrione la città degli sport, poi da ogni lato della periferia i cosidetti quartieri operai, e qui gli ingegneri civici d’accordo con quelli del Genio Civile fecero sorgere rapidamente gruppi di case come fanno i bambini coi dadi. Sono queste case ideate dal Genio Civile di un tipo unico per tutta Italia: dalla Sicilia al Piemonte e non formano mai il nucleo iniziale di un borgo futuro, ma sono messe una a fianco dell’altra. Dopo la prima guerra mondiale quel Genio Civile aveva costruito e disposto a questo stesso modo delle semplici baracche ed era giustificato, allora, dal loro valore provvisorio. Il bello è che quelle baracche erano invece cosi solide che molte sussistono ancora, mentre queste case novelle dimostrano dalle grandi chiazze d’umido che traspirano che non resisteranno come quelle. Ma disporle come plotoni affiancati su due o tre linee non appartiene all’armonia di una città, e neanche di un sobborgo. E’ semplicemente giuoco puerile e barbarico. Ma erro a dire barbarico.

Foto di Quang Nguyen Vinh da Pexels

Recentemente un mio amico in un articolo assai acuto rilevava che le grandi perdite e le grandi distruzioni della civiltà latina in tutte le arti non furono determinate dalle invasioni barbariche, come si è per tanto tempo creduto. I barbari anzi, egli dice, furono presi da timore venerabondo per le opere di quella civiltà, mentre i latini, decaduti nella fede in loro stessi, furono gli autori degli abbandoni, delle dispersioni, delle oblivioni, delle malversazioni di tutte le opere della loro civiltà, verso le quali erano divenuti insensibili. Con lo stesso spirito gli attuali ingegneri civici si sono messi al lavoro nel nucleo originario, ancora sopravvissuto, della bella città italiana. La parola d’ordine fu: sventramento, come non fosse stata già abbastanza sventrata dal bombardamento. Le strade centrali devono essere tutte allargate da sei a otto metri per consentire al traffico moderno di raggiungere la velocità minima di trenta o quaranta chilometri all’ora, ridicola per strade di una piccola città. E per allargare queste strade gli ingegneri civici non si preoccuparono di segnare come demolibili o affettabili le case ancora rimaste intatte e che ancora rimangono a testimoniare la struttura armoniosa della città. Essi sono diventati insensibili al valore architettonico preesistente che era conseguito a lunghi secoli di civiltà. Sono i veri barbari e coloro che accrebbero sulla città il danno più ancora del bombardamento straniero.

Ogni città italiana ha il suo carattere come i suoi abitanti hanno una cadenza diversa nel dialetto parlato. In questa vi è l’armonia dei portici, in quella l’armonia dei barbacani, in altra quella delle piazze chiuse da palazzi con statue dentro alle nicchie, in altra ancora i giardini si interpongono ai palazzi e le fontane zampillano nelle piazze ove non vi siano corsi d’acqua a dare freschezza. Le città italiane costituiscono nel loro lungo interporsi delle variate architetture uno dei pochi valori che differenzino la nostra civiltà dalle altre. L’Italia come entità integra non è solo data dal paesaggio della sua terra e dalla varietà dei suoi abitanti, ma dalla rara architettura delle sue singole città, una differente dall’altra e tutte insieme differenti del tutto dalle città straniere. E questa architettura fa parte della sua cultura, della sua intelligenza, della sua poesia.

Ora la sorte delle nostre città, in questo tempo di ricostruzione, è tutta lasciata in mano alla moltitudine dei costruttori la massima parte dei quali ignora il soffio della poesia. Sono a migliaia e tutti operanti, e sarebbe assurdo sperare che tutti fossero dei creatori, degli artisti, degli ispirati dalle Muse. Forse tra tanti appena uno si salva dall’equivoco che mettere un mattone sopra l’altro sia costruire. Sarebbe come pretendere che le migliaia di professori di lingua italiana siano anche scrittori, poeti o altro. Sanno grammaticalmente comporre un periodo, ma non sanno infondervi lo spirito alato. Ma per questi costruttori in una terra come la nostra in cui l’architettura è stata sempre considerata come scenografia, come accordo col paesaggio, come composizione armoniosa è d’obbligo sottostare alla tradizione di costruire per creare e non soltanto di costruire per abitare. E se il genio manca, non deve però mancare il rispetto e deve essere abolita l’arroganza.

Per i più semplici il tipo ideale dell’abitazione civica è la caserma o l’edificio scolastico, per i più complessi è il grattacelo o gli alveari del razionalismo. Ho visto alcune fotografie di certi ingegneri che imperversano nelle grandi città italiane, facendo scuola e stimolo a quelli delle piccole città, e non ho mai visto volti più fanatici. Pipa alle labbra, sguardo centrato da idea fissa, cipiglio da falsi profeti, sembra che dicano : «siamo noi i creatori del mondo». Certo non aleggia sulla loro fronte il fremito della poesia. Per loro si tratta di costruire come le api senza dispendio di spazio e con la massima economia: razionalmente. A parte che poi invece sciupano lo spazio, e che l’economia non si riscontra e che tutte le loro costruzioni sono friabili, deteriorabili, come la pasta frolla, non sanno che la bellezza architettonica esiste invece nell’irrazionalità, nel sogno, nell’inganno, nell’illusione. Basti pensare a Palladio o ai palazzi veneziani costruiti pesantissimi di marmo, col giuoco dei trafori per fingere di alleggerire quello pesantissimo dei marmi come dovessero galleggiare sull’acqua.

Foto di Marcelo Chagas da Pexels

Le nostre belle città e con esse quella che fu in grande parte distrutta nella giornata primaverile del 1944, pure terminata la guerra e la minaccia, si trovano ora in altra guerra e sotto altra minaccia. I cosidetti costruttori sono i nuovi distruttori. La formazione del loro esercito per ogni città è la seguente: in testa sta l’assessore ai lavori pubblici del comune, naturalmente ingegnere, seguito come da uno stato maggiore dall’ufficio tecnico comunale, che si diverte a fare plastici e a ricamare progetti sulle ampie carte oleate. Fiancheggia la commissione edilizia nominata dal comune e fatta in modo di essere nella massima parte dei suoi componenti ossequiosa alle fantasmagorie dell’assessore ai lavori pubblici e dell’ufficio tecnico. Da ultimo viene la massa degli ingegneri, degli architetti, dei geometri, dei capimastri, liberi cittadini, in gara tra loro a chi fa più moderno, in lotta o in accordo con gli organi comunali. E’ facile capire come l’elemento di partito influisca sull’essere in lotta o in accordo, quando non siano altri interessi collegati. Senza alcun pudore per lo scempio che si rinnova, sulle nostre città si creano consorterie che nessuno riesce a frenare. La Soprintendenza ai monumenti interviene quando queste operazioni interferiscono edifici monumentali, ma nella grande parte dei casi si tratta di quartieri o di tutta la città che dovrebbero essere considerati monumentali. Tuttavia questa Soprintendenza fa sforzi eroici e quasi sempre inefficaci, come fosse un piccolo gruppo di batterie antiaeree contro migliaia di bombardieri. Tra i moltissimi casi avvenuti può bastare quello tipico dei nuovi alberghi costruiti in Venezia che sono stati ugualmente elevati a rompere la quasi sacra armonia architettonica di quella città nonostante le superiori opposizioni. Gli ingegneri, la commissione edilizia, l’assessore ai lavori pubblici si sono trovati tutti d’accordo che è stupendo accordare il gotico e il barocco con lo stile da alberghi svizzeri. Lo scempio è assolutamente peggiore dei bombardamenti avvenuti negli anni passati, la frenesia di strafare a mezzo di città degli sport, di allargamenti inutili di strade, di creazioni di nuove strade, di quartieri operai genialmente ideati dal Genio Civile, di abbattimenti di quanto ancora testimonia la civiltà antica delle nostre città, è troppo scatenata perchè non si imponga un limite oltre il quale non sia possibile più annientare. E per ottenere un minimo di rispetto di quel limite bisogna che le varie Soprintendenze ai monumenti operino come se tutte le città italiane siano monumenti da difendere, che siano accresciute di uomini e di potenza in modo che se esse dicono di no, sia no. E sul loro parere si agisca per togliere quella libertà di abuso che è del tutto simile al reato.

Giovanni Comisso

Pubblicato alle pagg 5 e 6 de Il Mondo del 28 gennaio 1950
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale

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