I figli e i fratelli: il paesaggio degli anni Ottanta e Novanta

Scrivere in Veneto. Un tracciato provvisorio tra ieri e oggi

Dopo Il territorio come storia, valore punto di vista e scrittura e Lo sperimentalismo veneto tra lingua e dialetto Saveria Chemotti ci accompagna oggi alla scoperta del panorama letterario dell’ultimo ventennio del secolo scorso…

Alla fine del Novecento la letteratura è sicuramente ancora uno dei materiali a disposizione per scrutare se stessi nel mondo, è il luogo del ritorno, ma è uno  dei tanti cui riguardare  con rinnovato interesse: infatti sorgono i nuovi generi narrativi «misti», ibridi e polifonici, tra fumetto, cultura televisiva, spot, musica rock e film, pampleth, pastiche, reportage, graffiti, ma sono altrettanto più frequenti le incursioni dentro i testi di una biblioteca di formazione, con scaffali che traboccano di classici della letteratura italiana e internazionale, per sperimentare una pagina che ambisce a riconoscimenti di “classicità” controtendenza, trasgressiva, ma che torna in modi e forme diseguali a porsi il problema della “durata”, della “permanenza” dei risultati e quindi a fare i conti necessariamente con il lascito della memoria letteraria per recuperare quell’aspetto riflessivo della scrittura che raccoglie anche «la dimensione del pensiero.»

In questa situazione, pur senza alcuna pretesa di forzare una continuità e una contiguità che non possono risultare valide e sostenibili criticamente per un lungo periodo, in questa sorta di “mappatura” di tendenze e di scelte stilistiche proprie di un “regionalismo” letterario che non si è mai identificato con una posizione di marginalità o autoreferenzialità, certe ricorrenze singolari sono rintracciabili anche nelle opere degli scrittori che esordiscono tra gli anni Ottanta e Novanta.

Ostentazione dell’autobiografismo anarchico, immersione vorace nella spettacolarità del mondo, rassegna dell’immaginario giovanile, fantasia visionaria e picaresca, vitalismo narcisistico e pathos straripante, evocazione dei tortuosi anfratti della coscienza, delle atmosfere angoscianti (il mistero della malattia e della morte), ma anche azzardo del punto di vista, «sguardo grandangolare», iperrealismo dei dettagli, ossessione visiva, identità di genere, segnano la rivalsa delle microstorie, la scoperta delle mille particelle che compongono e scompongono il personaggio in un mondo in cui la parola scritta accetta l’assedio e l’invadenza dei nuovi linguaggi della velocità e della pubblicità, del cinismo e della superficialità, del consumismo, ma anche si ribella alle consuetudini dei codici con deviazioni e fughe molto interessanti.

In particolare, la provincia diventa il luogo che consente di rileggere una tradizione perché contiene pur in continui dualismi, «la facilità dei rapporti e il condizionamento degli stessi, l’autenticità di un legame con la tradizione e una spinta a più eversive ribellioni, interiori o collettive, la possibilità di una espressività meno omologata rispetto all’anonimato del “centro”.»

Anche la periferia veneta: anzi la cosiddetta “veneticità” viene reinterpretata, si guarda a un Veneto sconosciuto, vecchio e nuovo, da cui si trasmigra e a cui si torna con occhio diverso, critico e disincantato. Ed è il punto di vista che importa: il luogo dove si vive, non è indifferente o neutrale per questi “nuovi” narratori, perché rimane in loro un forte senso di appartenenza a un habitat.

Pur nella peculiarità degli approcci individuali, essi sono consapevoli che la casa e il paesaggio dove si è nati, cresciuti, o dove si vive, possono necessariamente essere gli stessi in cui hanno vissuto gli antenati, però hanno subito metamorfosi radicali che hanno imposto numerosi rifacimenti, strutturali e di facciata, ma così è avvenuto anche per l’occhio che li ri-guarda.

Molti romanzi sono testi di “iniziazione” e di “formazione”, raccontano l’attraversamento di una frontiera-soglia da parte del protagonista, focalizzano la fase della transizione e del passaggio nei due sensi, un doppio percorso da una stagione all’altra della vita, da uno stato di disagio a uno di consapevolezza, dalla morte alla rinascita, dall’interno verso l’esterno del territorio e dell’anima individuale e collettiva.

Ma, allo stesso tempo, erodono la stabilità apparente dei confini, mettendo in scena  in scena sia la «resistenza del mondo all’interpretazione», sia l’impossibile rinuncia umana all’interpretazione, componendo opere narrative multilineari, creative, decorative e compilative insieme, «citazionali», con l’intento di «interrompere lo scorrere della rappresentazione» e di sottrarre la pagina anche al suo prevedibile contesto narrativo.

Essi, infatti, combinano e contaminano testo e «paratesto», con un intreccio polimorfo e discontinuo di titoli, sottotitoli, dediche, epigrafi, prefazioni, note a piè di pagina, frammenti: espongono «l’emporio al completo di un immaginario confuso che vorrebbe darsi una forma classica»

Questo concerne, proprio, la frattura del nostro Novecento e la stessa possibilità di cercare strade nuove per ritrovare l’eco di un suono che viene da lontano e che il fragore dell’attualità relegano «al rango di rumore di fondo».  Ma  coinvolge, da vicino, soprattutto le tendenze, le scelte, i temi e i campi in cui si può riconoscere una continuità, pure sotterranea e inconsapevole, anche con una tradizione letteraria regionale, quella veneta, che si è distinta per la ricerca di forme narrative e stilistiche originali, per la minor disponibilità all’omologazione o all’appiattimento sulle formule codificate della tradizione nazionale, per la sperimentazione di «nuove categorie del mostrare e del raccontare» per far riemergere il passato in uno scenario nuovo.

In questi nuovi narratori la percezione mobilissima del quotidiano e del presente si  configura, pur rapsodicamente, nella predilezione per il pastiche, per le avventure dell’anima, l’autobiografia più o meno dissimulata, per il reportage, per il grottesco, il comico e il parodico, per i personaggi bislacchi, per l’iperrealismo e il surrealismo, per un impressionismo “espressivo” che non trascura il confronto con il paesaggio geografico, economico e sociale e con il frenetico cambiamento che ha trasformato il piccolo centro e la provincia, pur grondante di cultura globale, in prospettiva e difesa, microcosmo appartato, ma non impermeabile rispetto alle novità del panorama letterario “metropolitano” nazionale e internazionale.

Senza presumere di ricompattare una temperie così ricca di umori e di frizioni in una sterile definizione, che ne liquidi la frastagliata varietà, non credo sia azzardato accostare alla produzione letteraria degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, ancora fervida di documenti e di interpreti, le forme originali dei nuovi romanzi e racconti degli anni Ottanta e Novanta.

Per di più, soprattutto nel  gruppo di esordienti negli anni Novanta, emergono, accanto alle prevedibili affinità tematiche generazionali, altre curiose coincidenze: qualche critico si è spinto addirittura  a parlare di un «cenacolo veneto» costituito da «amici, compagni di bottega» che «provengono da esperienze e letture diverse, fanno mestieri e professioni diverse, hanno obbiettivi narrativi diversi, diverse tecniche di manipolazione letteraria, ma sono uniti dallo stesso orizzonte esistenziale» e dalla medesima voglia di reinterpretare il reale rifacendosi anche alla territorialità.

La ‘verità’ e la novità della narrazione si ritrova, almeno in parte, nell’incontro con i luoghi e con i paesaggi della realtà veneta e diventa «la punta emergente di un movimento che, oltre a rappresentare un cambio generazionale nella narrativa italiana, ridisegna la geografia di questa narrativa», sposta l’attenzione su «una provincia che già si sapeva ricca di stimoli e inventiva.»

Ferdinando Camon, con la consueta acutezza, ha salutato questo «cenacolo» come un evento predestinato, come un fenomeno atteso che prima o poi doveva esplodere dentro la tradizione della letteratura veneta augurandosi che questi nuovi scrittori non tradiscano la loro origine, non trasmigrino dal territorio e dal suo paesaggio.

«Io non ho mai creduto che la letteratura nasca dalla letteratura: la letteratura nasce dalla realtà. E dal tempo che viviamo e che è segnato dalla morte di una civiltà, di una morale, di una economia, di una religione, di una chiesa, eccetera, e dall’ancora nebulosa nascita di qualcosa di diverso. Di questo tempo il Veneto è proprio un campionario condensato. In questa regione la vecchia politica, la vecchia morale, la vecchia civiltà, avevano radici più fonde e più potenti, e in questa regione la crisi è stata più violenta, tormentosa, insostenibile. Nel Veneto, dunque, la nuova letteratura può nascere e durare più a lungo che altrove. Sono profondamente convinto di questo.»

Un giudizio e un’analisi che si può condividere in toto senza correre il rischio di confezionare contenitori e disegnare frettolose etichette, perché ci permette di non considerare fortuite o peregrine alcune stimolanti ricorrenze tematiche.

Non si può negare infatti accanto ad alcune curiose ricorrenze tematiche e stilistiche come sia ricco di implicazioni il ritratto grottesco e brutale che insieme compongono della sguaiata realtà del consumismo, del cinismo edonistico del cosiddetto “miracolo economico del nord est”, lo scempio urbanistico e architettonico e il disagio delle città, (Venezia e la periferia di Mestre e Marghera, Padova, Vicenza, Pordenone, Trieste, Treviso), la provincia deturpata e la solitudine dei quartieri alveari, la desolazione dell’alcool e della droga, l’incomunicabilità generazionale e di coppia, la corruzione e l’illegalità, la smaccata esibizione e citazione dei feticci-transfert delle firme, delle marche e delle divise.

Con diversa accentuazione, diverse modalità d’impianto e diverse capacità di esiti individuali, emerge, inoltre, in tutti questi scrittori una grossa riflessione «sui narrativi possibili», sul ruolo della scrittura e delle scelte strategiche di modo e di voce, per ottenere una pagina in cui, «il linguaggio consunto, abusato, preso a prestito e restituito dai giornalisti, dagli storici, dai saggisti, dai pubblicitari, da noi stessi nella nostra quotidiana esperienza di soliloqui, borbottii, dialoghi, risse, scambi intellettuali», sappia scendere sotto la superficie degli avvenimenti, delle passioni e dei comportamenti, rappresenti le modificazioni profonde e quelle apparenti, assuma le tecniche di comunicazione dei nuovi mezzi, ma le reinventi in proprio, sappia farci vedere le cose come nuove, come se esistessero per la prima volta.

Pur attingendo ognuno a esperienze diverse dentro un variegato orizzonte esistenziale, emerge in tutti un profondo interesse per la sperimentazione di nuove categorie «del mostrare e del raccontare»: ne scaturisce un originalissimo impressionismo “espressivo” che, muovendo dal desiderio di reinterpretare il reale rifacendosi anche alla sua territorialità, non trascura il confronto con il frenetico cambiamento che ha trasformato il piccolo centro, da microcosmo appartato, a periferia grondante di cultura globale e induce, alla fine, a rimeditare il profilo complessivo di un paesaggio che già si sapeva ricco di stimoli e di inventiva e che conserva questo humus ancora fertile, persino malgrésoi.

Alcuni esordienti dell’ultimo ventennio del secolo scorso sono ormai affermati interpreti, altri apparsi più recentemente si stanno guadagnando a loro volta uno spazio di rilievo nel panorama nazionale e internazionale. Ricordo gli scrittori più rappresentativi: Gianfranco Bettin, Romolo Bugaro, Giulio Mozzi, Marco Franzoso, Roberto Ferrucci, Tiziano Scarpa, Giancarlo Marinelli, Massimo Carlotto, Vitaliano Trevisan, Mauro Covacich, Mancassola, Mattia Signorini, Matteo Righetto, Alberto Garlini, Mauro Corona, Montanaro, Francesco  Maino, Gian Mario  Villalta, Matteo Strukul, Fulvio Ervas.

Scriveva Paolo Barbaro: «c’era un Veneto di campagna e un Veneto di città (per noi Padova e Vicenza), un Veneto di isole e di coste (Venezia, Chioggia); c’era un Veneto di artigiani che erano anche contadini, di operaie che erano anche contadine, madri di famiglia, nonne dolcissime, madri-padrone, e non so quante altre cose; […] Soprattutto c’era attorno a noi un Veneto di fiumi: quanti –Tagliamento, Livenza, Lemene, Piave, Brenta, Bacchiglione, Dese, Adige…fino al Po e al suo Delta misterioso.»

C’era e forse c’è. Ma il tracciato originario sulle mappe dei loro maestri era diverso; col passare del tempo il “territorio” ha modificato il perimetro e l’area, il paesaggio e le atmosfere, fagocitando le suggestioni di paesi lontani, accettando l’invadenza di una rete di traiettorie divergenti, trasversali e longitudinali.

Chi scrive, oggi, guarda da una “casa” che ha vetri, lenti e specchi che amplificano, oltre l’unicità, la reversibilità, l’incertezza o la precarietà delle esperienze individuali e si trasforma, così, in «luogo in cui si può ritrovare e perdere la propria identità, labirinto delle meraviglie e degli inganni in cui lo sguardo si identifica, misura, si orienta, può perdersi, ritrovarsi e godere di se stesso, smarrirsi nella meraviglia o sprofondare nel terrore.» ( A.Costa,  B. Brusatin)

Senza smettere mai, però, di confrontarsi con una pagina bianca intrisa di acque e terre.

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