“I primordi di Asiago” di Giovanni Comisso

Si cammina tra questi monti che cingono l’altipiano, coperti di boschi radicati tra rocce corrose, scavate, frantumate. Il vasto altipiano è una conca ondulata dove l’uomo ha tracciato strade e costruito paesi senza fiumi, senza acque, eppure nei primordi essa doveva contenere un grande lago trattenuto dai monti marginali.

Acqua discesa dai ghiacciai in dissolvimento, tra questi monti a corrodere, scavare e frantumare le rocce, fino a precipitare in smisurate cascate giù verso la pianura sottostante o scomparire sotto terra per buche trapanate dentro, dai gorghi.

Si cammina in un prato aperto nel bosco, disseminato di cardi paurosi acuminati ad ogni foglia, gelosi della loro vita, tutti in difesa nelle raggere delle foglie che da terra si fanno sempre più concentriche e più irte di aculei fino a proteggere il fiore ultimo, teso al calore del sole e all’avidità degli insetti.

Fiore violaceo immobile sul saldissimo gambo che il vento non fa tentennare, non percorso la bruchi o da formiche, schivato dalle mandrie erranti, appena rasentato dalle pecore che vi lasciano impigliato tra gli aculei qualche ciuffo di lana, aereo il fiore emerge col suo piumoso incantesimo di colore in offerta alle api selvatiche e alle farfalle, per trasformarsi argenteo e sciogliersi in semi ai primi venti impetuosi d’autunno, e lo stocco e le foglie acuminale disfatte, esaurita la loro difesa, resisteranno ancora alla neve e al vento, in lenta macerazione, fino a quando al riapparire della terra ai tepori della primavera crolleranno, svuotato lo stocco, sminuzzate le foglie, per lasciare posto ai nuovi cardi risorgenti.

Le rocce levigate come spalle, modellate come fianchi di mucca risentono le acque scomparse, conservano l’impronta dei gorghi e le foglie dei faggi ci sono deposte folle tra le spaccature, dove si accumulava la sabbia.

Tra le rocce e il bosco vi è il silenzio del giorno in cui la terra è riemersa, nessun canto di uccello, solo minute api ronzano unite e ricreano l’eco lontana dell’ultima cascata precipitante dall’altra parte dei monti.

Gradinate di rocce, anfiteatri di rocce popolali di abeti e di faggi e l’ombra delle fronde a impedire ogni fiore. Solo dove appena si apre una discesa di luce questa si rifrange in ciclamini, roselline e fragole, tra le felci e mirtilli rintanati nell’ombra.

Non richiamo di uccelli, non passo d’uomo, le rocce si sprofondano in avvallamenti scoordinati, ma altri brevi prati si aprono come formati da giacimenti di sabbia fino ad una valle con rocce ancora tra i prati: una conca maggiore scavata dalle acque tramutate in erba fiorita.

Un muggito vibra nell’aria e tra le rocce, altre rocce non sono che mucche distese. Mugghiano per chiamare l’uomo che porta nel sacchettino legato alla cintola il sale, il loro ricordo del mare, quando esse vi erano con altre forme natanti.

Vogliono il sale nelle bavose fauci a ridare in quest’aria abbandonata dalle acque la salsedine dell’onda e la loro bava gocciante che il vento disperde in spruzzi bianchi è come soffiata dalla eresia di una onda che si piega spumosa. I grandi occhi hanno l’azzurro di una profondità marina rispecchiata ancora.

E questi fiori, gialli a ciocche su alti gambi con foglie grasse, grandi come la palma di una mano, venate, lisce, protese vicino a terra, attorno il gambo docile di fibra, e ciocche di fiori chiuse in una custodia di foglia che trattiene tutta l’umidità di una notte e il profumo acuto asprigno, assicurano di essere gialle ninfee tramutate in questa forma persistenti in questa conca dopo l’abbandono delle acque precipitate giù nella pianura.

Mugghiano all’uomo che è uscito dal bosco, un muggito che suona come in la parola: uomo, prolungata desiderosamente.

E l’uomo risponde fischiando, gridando nomi di città, di colore, di leggenda, clic sono i loro nomi: per radunarle alla mungitura. Altri uomini risalgano dalla malga portando le secchie e il sale, e le mucche si rialzano dai prati e si avvicinano lente, grigie, pezzate, bianche. Si fermano dove gli uomini si sono fermati deponendo le secchie. Allungano la lingua fuori dalle fauci bavose verso il grano di sale e si piantano ferme.

Spumoso, caldo del loro sangue, in un tramutato profumo d’erba, il latte sibila nelle secchie al gesto rapido delle mani viscide d’unto. Ioro nomi di città, di colore e di leggenda ritornano ad uno ad uno ripetuti nell’offrire il grano di sale, e ad una ad una esse si fanno avanti per piantarsi ferme accanto all’uomo seduto che ridesta nelle loro dure cervici di roccia il senso dei loro primordi e della loro vita materna dell’ultima stagione d’amore.

Giovanni Comisso

Il Giornale 10 settembre 1953

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