I vanitosi hanno già tutto il mondo, ci lascino almeno la letteratura

Intervista ad Alessio Forgione, vincitore del Premio Berto 2019

Scrivere di sé, e degli altri, senza lasciarsi condizionare. Aderendo a una storia che è sì autobiografica ma poi prende direzioni altre. Sparigliando le carte in modo inatteso. Oppure raccontando una delle tante combinazioni possibili. È Napoli mon amour, primo romanzo del giovane Alessio Forgione. Racconto disilluso di una città ricca di fascino e contraddizioni, in cui Amoresano, il protagonista, si confronta con l’urgenza di trovare un lavoro, con la passione per il calcio, con un’amicizia spesa tra chiacchierate davanti a una birra, economica, e progetti per il futuro. Mentre tutto scorre ogni giorno uguale, Amoresano coltiva la sua passione per la scrittura, abbandonandosi a un istinto insopprimibile, che impone di togliere tutti i veli e a volte costringe a fare i conti con la vergogna.

Il suo romanzo d’esordio è una dichiarazione d’amore nei confronti di una città cinerea, afosa e livida di pioggia, che però esercita un fascino perverso. “È come una donna che ti scarica e tu la vuoi ancora di più, ma non sai come conquistarla”. Quanto c’è di autobiografico?

Nell’iniziale nota al lettore di Look homeward, Angel, Thomas Wolfe sosteneva che non c’è libro più autobiografico de I viaggi di Gulliver. Ovviamente questa è un’esagerazione, e Thomas Wolfe era una persona e uno scrittore esagerato, ma la trovo molto giusta e pertinente – oltre che bella.

Si scrive di quel che si vive, credo, e, a volte, si vive pur di scrivere e so che da qualche parte, a un certo punto, ho vissuto le cose di cui ho scritto ma non rileggo il mio romanzo dall’ultimo giorno utile per mandarlo in stampa e lo ricordo, sì, ma cerco anche di lasciarmi stare e tenerlo chiuso in un cassetto che non posso aprire.

E quindi ora non so più dove ho mentito e dove ho detto la verità, a chi è successo cosa, nella realtà, e io, poi, l’ho rubata e messa lì e quanto è stata cambiata, modificata o esasperata.

So che è autobiografico e so che è anche una storia. So che sono stato quella storia e non voglio sapere quanto lo sono ancora. Voglio andare avanti e vedere cos’altro accadrà. Dunque, parafrasando Boris Vian, dico che questa storia è totalmente vera perché me la sono completamente inventata.

Ma è anche un atto di denuncia: il protagonista afferma di preferire un mondo terribile come quello descritto nel film “Hiroshima mon amour”, che rischia di esplodere e finire in ogni istante, a un mondo come il suo dove non accade nulla. Perché?

Perché, tanto io quanto il protagonista del mio romanzo siamo delle persone molto annoiate, che escono di casa in cerca di pretesti o che si dedicano a cose di difficile conquista pur di tenersi occupati per un po’ di tempo.

È noia ma è anche voglia di andare oltre, di vedere e valutare e capire se la vita è solo il livello basico che riusciamo a vedere e toccare immediatamente o se c’è dell’altro.

E poi il mondo in cui viviamo e l’esistenza che conduciamo è sempre tesa alla sostenibilità, ad un lavoro decente, orari decenti, ad una dieta salutare, palestra, una relazione sentimentale che non preveda spargimenti di sangue, mare d’estate, neve d’inverno, e tanto io quanto il mio protagonista ci chiediamo se questa vita, solo questa vita, sia abbastanza, perché noi, più che sostenibile, la vogliamo esagerata e troviamo insostenibile questa sua sostenibilità. O, se non esagerata, che almeno un po’ ci somigli. Oppure, ci va solo di lamentarci.

Il lavoro, o meglio, la ricerca del lavoro che passa per colloqui assurdi, spesso umilianti, è un tema centrale del romanzo. Crede, come Amoresano, che solo avere un lavoro possa consentire di ritagliarsi un posto nel mondo di oggi?

Credo che il lavoro e i soldi abbiano un valore solo nella loro assenza. Come tutto su questo pianeta, più una cosa è rara e più è preziosa. 

Sono cresciuto in un posto dove avere il padre criminale non era una possibilità remota e l’avere un lavoro, invece, un qualsiasi tipo di lavoro, per quanto umile, già ti qualificava come una persona affidabile, raccomandabile e onesta. Allo scoccare dei miei trent’anni, quando pensavo solo ad avere il mio modo e scrivere scrivere scrivere, il mondo mi diceva che era ora di dedicarmi alle cose serie e di diventare adulto ed essendo cresciuto in quel modo lì, tra lavoratori instancabili, un po’ credevo che quel mondo avesse ragione.

Oggi non so più fare questo discorso. Perché se prima un lavoro mi serviva per avere un posto nel mondo oggi non ho più tanta voglia di voler quel posto. 

Però sì: credo che se le persone, di base, si valutino e valutino gli altri per il lavoro che svolgono. E sono dei miserabili.

E il rapporto con il denaro, il cui conteggio diventa un’ossessione?

Quell’ossessione è una cosa molto ingenua: quando non hai soldi riesci solo a pensare ai soldi che non hai. Non c’è altro e tutto il resto viene spinto lontano. E poi, quando sei stato povero mangerai sempre da povero, anche quando non lo sarai più, e continuerai, tuo malgrado, ad avere sempre un po’ la faccia da povero. E il tutto si svolgerà con una sola paura in corpo, rubando a La Mennulara di Simonetta Agnello Hornby: quella di tornare a essere povero.

Oggi ho riletto quella pagina di Martin Eden in cui somma tutti i suoi debiti e poi li sottrae ai soldi che le riviste gli devono. Ho riso molto, perché è uno dei miei romanzi preferiti e non lo rileggevo da dieci anni e perché credevo di avergli saccheggiato solo il finale.

E mi ha anche rincuorato, perché mi ha fatto pensare che un romanzo del 1909 ed uno del 2018 stanno, entrambi, ancora cercando di gettarsi oltre lo stesso ostacolo.

Amoresano, aspirante scrittore, ritrova slancio e ispirazione grazie all’amore per Nina. E scrive provando “a rendere ogni virgola uno schiaffo e ogni punto un pugno.” È questo il compito che affida alla scrittura?

Non lo so davvero. Scrivere è una cosa di cui vorrei fare a meno ma a cui non so rinunciare. Scrivere, penso, non è il mezzo per esprimere se stessi ma per esprimere cose che vanno oltre se stessi, per superarsi e arrivare in questo luogo indefinito ed enorme dove risiedono tutti gli esseri umani presenti, passati e futuri. O almeno così dovrebbe essere.

Come vede il rapporto tra scrittura, cinema e serie televisive?

Non guardo più molte serie televisive perché il formato mi ha stancato e quindi guardo solo quelle da una stagione, sei otto episodi e fine, perché mi sembra un buon compromesso.I film mi piacciono sempre molto ma ho scoperto che amo esser passivo, non informato e lasciarmi la possibilità della sorpresa. Quindi vado in questo piccolo cinema che fa tutte cose abbastanza vecchie, di tutto il mondo, mi siedo e vedo cosa comincia. La scrittura credo sia la cosa che legga il tutto e che rende le singole cose non troppo diverse tra loro. Però ammetto che, tranne per una sola volta, preferisco sempre il libro alla sua realizzazione cinematografica.

Napoli monamour è anche un omaggio alla letteratura e ai suoi protagonisti. Tra tutti, Raffaele La Capria e il suo “Ferito a morte”. Anche questo è un elemento autobiografico. Che importanza ha avuto il suo incontro con l’autore?

Raffaele La Capria mi ha cambiato la vita due volte. La prima, quando l’ho letto. Perché mi fece pensare che quella cosa lì, che io provavo e che non riuscivo ad ammettere e di cui mi vergognavo, e cioè la paura per il futuro, non era una cosa solo mia e che, anzi, dovevo dirla ad alta voce.

La seconda, quando gli ho consegnato i miei orribili racconti e poi ne abbiamo parlato e mi sono seduto con lui, davanti la sua immensa libreria, a discutere dei libri degli altri per tutta la mattinata e lui mi incoraggiò e al pensiero mi tremeranno sempre le gambe, anche ora.

Perché non avevo mai conosciuto nessuno che leggesse davvero né tantomeno che fosse uno scrittore. E mi venne da pensare che, be’, se era successo a lui, di fare lo scrittore, magari poteva succedere anche a me.

Recentemente è scomparso Francesco Durante, giornalista, scrittore, traduttore e critico letterario che lei ha ricordato in un post sulla sua pagina Facebook. Quanto importante è il sostegno di chi è “del mestiere” da più tempo?

Francesco Durante, per quel poco che ho avuto l’onore di conoscerlo, era una persona bellissima, di una simpatia unica, una persona di cui avevo il più profondo rispetto, non solo per il suo incredibile talento, ma proprio per l’essere umano ch’era. 

Dolce, accorato, sensibile, empatico: ti guardava in faccia e già aveva capito praticamente tutto, vita, morte e miracoli. Era quel tipo di persona che sprona gli altri e nei miei sogni pensavo anche che tornando a vivere a Napoli avrei avuto la possibilità di frequentarlo assiduamente. E questa cosa mi entusiasmava moltissimo ed era un grande incentivo al tornare. Ma, purtroppo, la vita si è messa di mezzo.

Ritornando alla domanda, la funzione della critica è quella di fare una scrematura tra i milioni di libri che escono. Ed è una funzione giusta e doverosa, alla quale credo fermamente. È un parere autorevole: se voglio sapere cosa vale la pena leggere chiederò a chi sa come si legge.

Credo molto alla critica, quella sincera e che non obbedisce, e al diritto di critica.

A giugno ha vinto il Premio Berto, attribuito ogni anno alla miglior opera prima. Come ha vissuto questo importante riconoscimento?

Certo ne sono stato contento e molto soddisfatto e ringrazio chi ha fatto sì che vincessi. Però, lo scrivere, almeno questo è quello che io penso al momento, non ha niente a che vedere con la contezza e la soddisfazione. Lo scrivere concepisce, per me, solo la vergogna dell’aver detto troppo e del gesto.

Come quando si vede una persona che ci attrae e le si dice tutto, senza inibizioni e dubbi, si vuota il sacco e poi si trema e ci si vergogna, perché non sai se quella persona ha recepito quello che hai detto, se ti reputa estremamente sincero o solo senza la minima dignità.

È bello vincere un premio, ma non bisogna gonfiarsi il petto e rendersi delle montagne di vanità. Anche perché i vanitosi già hanno tutto il mondo a loro disposizione, che almeno ci lascino la letteratura. 

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