Il Carso. Il viaggio in Friuli di Giovanni Comisso

Il Carso. Il viaggio in Friuli di Giovanni Comisso

Su dalla feconda terra veneta il Carso si alza improvviso come un’ondata, che un turbine susciti da un mare tranquillo; nulla lo preannunzia, da un metro all’altro la terra muta natura, come su di un corpo una ferita che scopra un osso; una terra profonda risollevatasi. Rocce con poca terra rossastra dove germogliano aridi arbusti ed aspre erbe, solo il fondo delle doline è coltivato, e grotte coi loro vuoti oscuri sonanti di acque misteriose che non si sa da dove provengano e dove vadano a gettarsi in mare.
Questa strana terra fu destinata all’Italia come sua croce di martirio, come suo altare di gloria. Ricordo, quando dopo i primi mesi della guerra ritornai alla mia città per fare gli esami di licenza liceale, il professore di chimica mi interrogò sulla natura delle rocce carsiche. «Come sono le rocce del Carso?». «Insanguinate», risposi e il buon professore si commosse congedandomi subito. Un mio amico dei granatieri che si è rifatto l’anima combattendo tra queste rocce tutte le battaglie più aspre, appena ha un giorno di libertà non manca di ritornare a ricercarvi la sua trincea e di frugare riportandosi a casa, come parti del suo stesso corpo, frammenti di quel ferro che tanto uccise.

Artiglieri italiani in azione (Archivio Fotografico Bernini Enrico, Wikimedia Commons)

Ritornare quassù è come un ritrovare l’ansia delle nostre pupille in quei tempi lontani tese a scrutare dagli osservatori tutte le pieghe del terreno, i camminamenti, il correre dei soldati sotto lo scoppiare dei colpi.
«Oggi alle tre del pomeriggio i nostri hanno piantato la bandiera tra le mammelle del San Michele». La notizia si diffuse nel cocente giugno del ’15, e tutti avevano l’impressione di vedere, come in una pagina d’un giornale illustrato, la scena. E nella notte erano diademi di razzi lenti e brillanti che coronavano quelle cime, così facili allo sguardo, così ipocritamente dolci nella forma, così disperatamente aspre al passo delle nostre fanterie. Quella terra congiurava col nemico, se non uccidevano le schegge delle granate, uccidevano quelle delle rocce colpite. E questa roccia si prestava compiacente allo scavo delle caverne, delle trincee che divenivano inespugnabili. Ventitré mesi di assedio, undici battaglie, oltre centomila morti.
Un critico militare che pensi la guerra puramente fatta per fare la guerra, potrebbe scrivere: «Vi sono moralità stupide a causa delle quali, per otte­nere uno, bisogna logorare cento, mentre non tenendo conto di esse si potrebbe ottenere cento logorando soltanto uno. Così fu qui sul Carso: se, accortici della crudezza della zona, di fronte alla più piccola manovra, invece di insistere sostenuti dalle «moralità» nazionali, ci si fosse ritirati strategicamente sulla pianura friulana, attraendo il nemico su posizioni a noi favorevoli dove poterlo rapidamente battere, nel successo dell’inseguimento, la porta di Trieste sarebbe stata sorpassata prima che potesse venire nuovamente richiusa. Ma ciò non si poteva fare perché le «moralità» nazionali imponevano di mai retrocedere di un palmo, di mirare direttamente a Trieste, perché retrocedere sia pure strategicamente non sarebbe stato compreso dal Paese, dalla Camera, dall’Esercito. Tutti i primi anni della nostra guerra sono stati legati allo scrupolo di queste moralità che hanno pesato sanguinosamente sul cuore del nostro popolo».

Conquista di Quota 85 da parte del 3 Battaglione Bersaglieri Ciclisti – di Luigi Stracciari (1900-1943) – fonte: Wikimedia Commons

Così può pensare un critico aridamente militare, che nella guerra altro non veda che la guerra. Ma se il ragionamento potesse anche filare esattamente, non corrisponde tuttavia ai legami che ogni fatto umano ha con le infinite forze della vita. La verità è che i pretesti di quelle moralità servivano ad un grande destino. Il popolo italiano doveva soffrire, doveva sanguinare, doveva morire così nella sua parte migliore per avere un più grande senso della vita. Solo i popoli che soffrono possono sperare nella grandezza. Il senso della morte ci era necessario per renderci l’anima più matura, ci era più necessario di una rapida, facile e conclusiva vittoria. Questo rappresenta il Carso. Il Carso colle sue stragi sovrumane fu il decisivo gradino della nostra maturità. L’Italia tra le sue rocce crudeli ha trovato lo spirito necessario a sostenersi per secoli d’ascesa. I popoli che non hanno avuto nella loro storia una prova di martirio come questa, rimangono fermi per l’eternità. Il Carso fu la nostra croce di resurrezione.

E rimangono queste quote squallide nel grande silenzio rotto ora soltanto dallo stridere delle cicale. Il sole penetra tra gli arbusti e riscalda la terra, le nubi e i temporali si formano come allora.
Chi ha qui vissuto davanti alla morte, oggi ritrova nel clima delle ore un facile motivo a rivivere come allora. I velivoli che dal vicino campo di Merna si alzano per manovre di combattimento tutto il giorno, non servono. I loro motori hanno altro timbro da quelli di allora. Le strade sono peggio di allora, e questo non dovrebbe essere.
Riconosciuto oramai che questa terra non ha bisogno di nessun monumento essendo essa stessa nella sua rude struttura il più espressivo monumento della nostra gloria, si dovrebbe tuttavia rendere le strade adatte nel modo migliore, perché sia possibile a chi ha combattuto rivedere la sua terra e per quelli che sono venuti dopo vedere dove è veramente scaturita l’aurora.
Esistono tracce di trincee, ma nella totalità sono state interrate, come quella importantissima delle Frasche, e questa è dolorosa manomissione forse degli uomini, forse del tempo, ma almeno qualche tratto dovrebbe venire mantenuto sgombro.

Sacrario militare di Redipuglia. In primo piano la tomba del Duca D’Aosta (foto di Kevin1971, Wikimedia Commons)

La necropoli di Redipuglia liberata da tutte quelle inutili soprastrutture, certe volte anche di pessimo gusto, che sviavano l’attenzione dei visitatori, avrà la sua sistemazione definitiva sulle prime pendici di Monte Sei Busi. Sarà l’eroica necropoli nettamente carsica, costruita della stessa pietra, a gradinate, senza alcuna statua o architettura, che sarebbero sempre in di più, anche se create da Michelangiolo.
Precederanno le urne del Duca d’Aosta e dei suoi generali caduti sul Carso, dietro staranno quarantamila caduti, e in alto sulla cima le salme di altri sessantamila che non furono identificati. Sessantamila salme senza nome, e questo illumina tutta la tragedia della lotta. Se la cura pietosa fu sopraffatta ciò significa che la lotta fu senza tregua e violenta. Questi sconosciuti parlano e fanno sapere per secoli quale dramma ha vissuto il popolo italiano per ritrovare il suo splendore.
«Qui — uno dice ad un gruppo di visitatori, giunti alla sella di San Martino — furono trentamila i caduti. E in un solo attacco operato coi gas asfissianti ne morirono tremila». Le fronti si fanno pensose. La morte ha operato il miracolo. Bisognava morire, ma l’ordine non partiva dagli uomini, e il soldato, il nato dall’antica terra d’Italia, oltre a tutte le ragioni, oltre a tutte le spiegazioni, sentiva che quel vivere tremendo tramutava e doveva essere subito.

Giovanni Comisso

da La Gazzetta del Popolo del 17/12/1937.

Immagine in evidenza: “Carso – panoramio” (foto di Fulvio Bacchia, Wikimedia Commons)

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