“Il credo di un soldato” il racconto di Alessia Danieli secondo classificato al Concorso “Scrivere è un gioco da ragazzi”

Il credo di un soldato
di Alessia Danieli

Papà, mamma,
in questo momento galleggiano nella mia mente le immagini dei vostri volti confusi e accigliati, così vividi e vicini da farmi credere che, se solo tendessi la mano, riuscirei ad accarezzarli. La tua espressione, poi, è quasi comica, papà: hai lo stesso cipiglio indignato ed un po’ infantile di quando è arrivata una bolletta più salata del previsto; ma, non temere, stavolta non si tratta di ricevute, anche se, letta ogni mia parola, dirai che avresti preferito una di loro a questa lettera.”

Andrea Satiri, sessantadue anni sulla carta, ma molti di meno nella vita, non proseguì. Con stizza ripiegò la pagina di diario dispiegata di fronte a sé, liberando bruscamente il respiro, che, pur senza rendersene conto, aveva trattenuto fino ad allora. Odiava essere preda dell’ansia.

Monica, seduta rigidamente alla destra del marito, gli lanciò uno sguardo irritato, prima di sfilargli gli occhiali dalla punta del naso ed indossarli a sua volta, afferrando il foglio di carta.

“Oh, che fai? Non l’ho ancora finita.” Protestò l’uomo, agitandosi sulla sedia.

“E’ proprio questo il punto,  Andrea! E’ da dieci minuti che rimugini sulle prime cinque righe senza andare oltre,  ma questo non significa che io attenderò un secondo di più per sapere cosa diavolo sia successo a nostra figlia.” Fu la risposta acida che ricevette.

La donna voltò le spalle al marito ed iniziò a sondare ogni parola tracciata dall’inchiostro, lasciando che nella cucina calasse nuovamente il silenzio. Un silenzio assordante.

“Almeno leggila ad alta voce.”

Un sospiro, una pausa, un altro sospiro.

“E va bene, ma guai a te se mi interrompi.” Minacciò la donna. Poi parlò, picchiettando ritmicamente l’unghia sulla superficie del tavolo:

Con ogni probabilità vi starete chiedendo che fine abbia fatto quella disgraziata di vostra figlia: dove sarà, e con chi? Avrà mangiato? Passerà la notte con un tetto sopra alla testa? Perché il suo telefono è spento e dentro il suo armadio è rimasta solo qualche maglietta?

Prima di contemplare le peggiori ipotesi (di cui, scommetto, hai già stilato una lunga lista mentale, mamma), leggete questa lettera: contiene tutte le risposte che cercate, conseguenze di una scelta che ho compiuto. Scelta che, per la prima volta in ventinove anni di vita, sento essere unicamente mia: non ho la pretesa che l’approviate, ma la speranza che, con il passare del tempo,  perlomeno l’accettiate.

Vedete, in questi mesi di tirocinio all’ospedale mi è stato chiesto più e più volte perché abbia voluto diventare un chirurgo. E’ una di quelle domande che fanno parte della prassi e a cui, per come la vedo io, ci dovrebbero essere risposte sincere, spontanee, cariche di motivazione.

Qual è la mia?

Facile: ho scelto di diventare un chirurgo per aiutare gli altri a stare bene, per far sì che il loro corpo non limiti in alcun modo il loro spirito.

Questo è ciò che ho sempre pensato; questo è ciò che ho sempre detto. Nessuno l’ha mai confutato, anzi: ho ricevuto non poche pacche sulla spalla in cambio, prima e dopo la tanto agognata laurea.

Sembrerebbe fantastico fino a qui, no? Dopotutto, alla fine sono riuscita a trasformare il mio sogno in realtà; eppure “fantastico” non è esattamente l’aggettivo che userei per descrivere il mio stato d’animo negli ultimi tempi. Opterei piuttosto per “confuso”.

Perché? Lasciate che provi a spiegarvelo: avete mai provato quella sgradevole sensazione di non essere dove dovreste? Avete mai pensato che, per ognuno di noi, esista un posto dove non può essere più naturale, necessario e giusto stare?

Probabilmente no, queste domande non vi sono familiari; io, invece, le conosco fin troppo bene, perché mi assillano da tempo.”

La voce di Monica, fino ad allora piatta e monocorde, si tinse sull’ultima frase di una sfumatura interrogativa: non capiva dove quelle parole stessero andando a parare e la fretta di scoprirlo le impediva di coglierne il senso. Lanciò un rapido sguardo al marito, vedendo riflesso sul suo volto lo stesso sconcerto che albergava in lei.

“ Non fraintendetemi, la gratificazione che ho provato iniziando ad operare è molta, ma…come dire? E’ stata gradualmente offuscata dalla convinzione di star sbagliando qualcosa, di non star facendo abbastanza per aiutare concretamente chi, di un appiglio, ne ha un bisogno disperato .

Voglio dire, quanti altri servizi televisivi dovrò vedere, prima di realizzare che in Siria o in Iraq ci sono guerre vere, che infliggono ferite vere a persone vere?

A quanto dovrà ammontare il numero delle vittime che esse mietono, prima che qualcuno smetta di percepirlo come una semplice cifra annunciata alla radio?

 Quand’è che le parole di compassione e rammarico che sento attorno a me verranno sostituite da azioni con un peso effettivo sulla realtà?

Ho cercato a lungo ogni riposta, e, realizzando che ciascuno scelga se e come scrivere la propria, ho trovato la mia: Medici Senza Frontiere, il gruppo con cui condividerò i prossimi cinque anni della mia vita. Avete capito bene; mamma, papà, nel momento in cui voi leggerete questa lettera, io sarò lontana, tra quanto rimane dei villaggi bombardati a nord di Aleppo: non chiamatemi, perché sarebbe inutile.

Tuttavia, c’è una cosa che desidero ricordiate: quelli che mi aspettano saranno giorni di guerra, ma, nel conflitto tra chi si limita a scorgere la sofferenza altrui e chi mette a repentaglio la propria vita per mitigarla, è del secondo schieramento che sarò sempre un soldato.”

 

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