“Il giardino delle Esperidi” di Giovanni Comisso

Apprendiamo con incredulo sgomento la notizia della possibile trasformazione della zona antistante il Castello del Catajo, a Battaglia Terme, in centro commerciale. Uno tra i più grandi del Veneto: 32.000 mq di negozi circondati da un’infinità di parcheggi. Convinti del fatto che questo progetto comporti un grave sfregio per il territorio e per il castello, sottoscriviamo l’appello diffuso sui social rendendoci promotori e difensori di un patrimonio artistico storico e culturale di inestimabile valore.

Per testimoniare quanto ci stiano a cuore le sorti del Castello, riportiamo innanzitutto il testo della Targa che gli organizzatori del Parco Letterario Petrarca hanno messo all’entrata del Catajo.

E’ una frase di Giovanni Comisso.

“Avevo letto nel diario d’un ignoto questa pagina: ” …Il signore alto è l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, nipote di Francesco Giuseppe ed erede al trono; la signora è la Contessa di Copek, sua moglie. Provengono dalla loro tenuta di Catajo, presso Monselice, e ritornano a Vienna, da dove si recheranno, per la visita ufficiale, in Bosnia, tolta di recente alla Turchia ed annessa all’impero austro-ungarico. Sarà il viaggio fatale per loro e per l’Europa tutta, perché a Sarajevo verranno uccisi…” Queste note semplici, ma evidenti come una vecchia fotografia del tempo, mi avevano incuriosito sul soggiorno di Ferdinando nella sua tenuta padovana che egli aveva ereditato, con altri beni, dal Duca di Modena, e andai a Battaglia, alcuni chilometri sotto Padova, sperando di trovare o un cuoco, o un giardiniere, o una guardarobiere, o una vecchia serva o qualche contadino che potesse ricordarsi dell’arciduca e raccontarmi qualcosa. Questa vasta tenuta si stende parte in pianura e parte sui magnifici colli Euganei ed ebbe come la Cina del Medioevo il nome di Catajo. Davanti all’ingresso vi è un canale navigabile come in quel paese dell’Oriente e le barche che vengono dalla laguna sostano appesantite dal sole lungo le rive dove l’alta erba fiorita di pennacchi ondeggia come un mare. Il castello con le sue altissime pareti nude, dove si aprono disadorne le finestre, e col tetto e terrazze recinti da rigidi merli fa un po’ pensare ancora alla Cina dove i torrioni degli ingressi alle città murate hanno questo stesso aspetto. Ma queste coincidenze sono del tutto accidentali, quel nome gli fu dato per le bellezze dei giardini e delle peschiere un tempo fantastici come quelli del palazzo imperiale di Pechino”

da Sorprese sui Colli Euganei – Giovanni Comisso, 1947

E’ del resto noto quanto il Nostro Scrittore amasse i Colli Euganei e fosse consapevole estimatore della loro unicità, come si evince dalla lettura de “Il giardino delle Esperidi” comparso su Sguardi sul mondo , n. 19 VII, nel 1958, di cui vi proponiamo una prima parte.

“È una vera fortuna per Padova avere a poca distanza un così favoloso giardino delle Esperidi, quali sono i Colli Euganei dove gli incanti e le sorprese si succedono a ogni passo.

Si è sempre creduto nel passare accanto ai colli Euganei che fossero declivi semplici e infantili, sollevati appena da una modesta e lontana eruzione vulcanica nel vasto della pianura veneta, e invece, nel girare tra loro, le strade si fecero sempre più intricate e confuse, come in un labirinto.

Dopo una giornata intera di automobile, attraversate dolcissime valli e superati valichi lungo pareti rocciose parve di avere percorso una grande regione di montagna, dove anche la varietà degli incontri favoriva ad allungare il percorso. È in vero una generosa fortuna per Padova avere a poca distanza un così favoloso giardino delle Esperidi, dove gli incanti e le sorprese si succedono a ogni passo.

Invano ho cercato di scoprire in quale punto questi colli possano somigliare agli strapiombi di Valchiusa, ricordando che Petrarca scrisse che gli era gradita la residenza di Arquà, perché gli rievocava il paesaggio alla sorgente della Sorga, dove s’era iniziato il suo amore per Laura.

L’anno scorso avevo compiuto il gesto romantico di cogliere alcuni rametti di lauro nel giardino della casa di Arquà e, passando da Avignone, avevo deviato per Valchiusa per gettarli sulle chiare, fresche e dolci acque. L’unico punto che abbia qualcosa in comune con le alte pareti a picco sulla Sorga, rasente alle quali volteggiano i corvi, è forse vicino a Teolo dove le nude rocce dei due sproni annidano esse pure neri corvi.

Sapendo che l’origine di questi colli è vulcanica non dovrebbe meravigliare se passando accanto, tra Abano e Montegrotto, tocca di vedere scorrere, tra i campi, ruscelletti fumanti e all’incauto immergere delle dita convincersi di una temperatura altissima.

Abituati alla nostra terra veneta, blanda, docile e innocente, qui ritorna la fantasia che vi si annidi tra le zolle il drago respirante zolfureo per le narici. È invero sbalorditivo vedere tra gruppi di contadini che arano con bianchi buoi la nera terra e altri che tagliano le canne del granone, alzarsi le acri fumarole, che per vederne altre di uguali in Europa, bisogna andare in Islanda e dentro al cratere dell’Etna, giacché quello del Vesuvio non fuma più.

Ho voluto calcare, toccare e osservare la terra accanto alle sorgenti di quest’acqua vulcanica come un fisico dilettante del Medioevo, e mi accorsi che la sola erba che resista a farsi nutrire da queste acque attraverso il filtro della terra è la tenace gramigna. La diabolica gramigna che per quanto si estirpi rigermoglia sempre. Ma nei giardini dei luoghi di cura, accanto alle polle di queste acque, dove la terra diventa cotta, asciutta e cretosa, come nelle oasi, si è visto che appunto le piante di queste zone tropicali attecchiscono e fioriscono assai bene, come se un’altra oasi si fosse formata tra questo clima settentrionale grave di nebbie, di nevi e di umido per quasi una metà dell’anno. La buganvillea illuminava del suo azzurro rossastro la bruma autunnale che dai campi saliva verso i colli. Nel calcare la terra di questa oasi in tale deserto nordico, pari a un’isola collinosa in un mare di umidità emergente, dava sublime gioia sentire i nostri passi risuonare a ogni tocco, come si camminasse su mattonelle o sopra il coperchio di una smisurata pentola, dove dentro ribollisse quell’acqua acre e salmastra.

Fu più grande la sorpresa quando si seppe che ogni casa, in questa zona, durante l’inverno, non ha bisogno di legna o di carbone per riscaldare le stanze, il termosifone funziona in diretto contatto con le profondità infernali della terra. Basta bucare di poco la crosta, il coperchio della pentola, e subito ne scaturisce l’acqua in bollore. Se si considera che siamo in una terra di settentrione è stupefacente il vantaggio. Ne ero tanto meravigliato che pensavo quanto avrei potuto vivere felice in questa terra, sognavo già una piccola casa su uno dei prati cinti da ruscelletti fumanti e la costruivo di fantasia con una scaletta segreta che scendesse dalla mia stanza sotto il livello del terreno.

Qui sarebbe stata scavata una grotta con vari anditi, illuminata da botole di vetro, la grotta sudante il calore vulcanico avrebbe avuto anche una piscina. Tutta la casa avrebbe risentito di quel calore demoniaco e materno. Chi disse esattamente che la massima felicità per l’essere umano nella sua vita non è la gloria, non è l’amore, non è la ricchezza, ma di potere suggere il latte al petto materno senza fatica ricevendo tepore e alimento nello stesso tempo?

Una casa simile, con una grotta segreta, sarebbe stato come un ritornare a quella fase felice della vita, alla più felice. Altrove la terra è nereggiante di lava così da creare nero vino, nere ciliege e neri occhi che calorosamente riguardano.

IL CONVENTO DI PRAGLIA

A ogni minimo procedere della strada tra questi colli acuti nella forma, varia l’aspetto del luogo. Girando per le strade tortuose in salita o per i pianori interposti ai colli, lo sceneggiare muta, come un corpo che passi davanti a specchi concavi o convessi. In poco spazio succede una varietà immensa nell’aspetto e nel tempo.

Avvicinandomi appunto al convento di Praglia mi sentivo rivivere nella seconda metà del Settecento, perché un giorno ricercando tra vecchie carte dell’Archivio di Stato di Venezia avevo trovato tutta una romantica storia vissuta entro a quel convento.

Nel fresco delle prime ore della mattina suonava l’organo dentro alla chiesa e la musica colava calda per deporsi nei chiostri e negli orti chiusi. A ogni finestra si dischiudeva un miraggio verde di declivi, di campi e di lontananze azzurrine. Di sotto nei cortili alcuni frati distendevano la biancheria al sole, altri negli orti raccoglievano la verdura. Le colombaie si affoscavano diroccate come vecchie torri, una statua bianca appariva in una nicchia nel muro di cinta di rossi mattoni. Le gallerie giravano attorno ai chiostri alte e sonore ai passi sulle pietre. Il grande convento era dovunque attraversato dalla fresca aria che ventila va di fuori e tra le sue pareti sembra va di camminare come in un bosco.

Sempre ripensando alla romantica storia del Settecento sentivo dietro a me un passo leggero su scarpine di vernice, il passo di quel contino di Vicenza. figlio di un padre austerissimo, che era ricorso agli Inquisitori di Stato di Venezia per farlo ravvedere da un amore violento per la servetta di casa. Mancavano pochi anni al crollo della Repubblica, marcita più che dal tempo dalla imbecillità dei suoi governanti, e quegli Inquisitori balordi come quel nobile vicentino, invece di occuparsi a salvare lo Stato aggiornandosi ai tempi nuovi, pensavano che quell’ingenuo e divino amore avrebbe compromesso non solo l’onore della nobile famiglia, ma anche quello dell’aristocratica repubblica. Ordinarono così che il conte giovanetto venisse preso in consegna da un loro ufficiale e portato in questo convento per curarlo dal suo male d’amore.

Penso che se Ugo Foscolo avesse avuto per le mani quelle carte non avrebbe scritto Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che sono ambientate tra questi colli, ma la storia di questa cura come risulta dalle lettere del priore del convento che ogni quindici giorni doveva informare gli Inquisitori, sulle condizioni del cuore del contino, e da quelle di costoro in risposta.

L’ordine era che per un primo tempo non gli si dovesse concedere di uscire per nulla dalla cerchia murata del convento. Il contino doveva convincersi che essersi innamorato di una servetta, era un delitto da scontare con una prigionia.

Vi erano tante contessine a Vicenza, possibile che fossero tutte così brutte, così scioccherelle da essere posposte a una servetta di Asiago o dei colli Berici.

Di certo quel contino doveva essere stato suggestionato dagli affreschi di Giovambattista Tiepolo nei palazzi e nelle ville di Vicenza, il quale nel dipingere angeli volanti non aveva preso a modello le contessine slavate della città, ma le contadinelle rosee e argute della campagna.

L’errore fu giudicato grave, un giovane conte che apparteneva all’aristocrazia della Repubblica Veneziana non doveva nell’amore soggiacere a quell’impeto troppo puro dell’istinto. Tuttavia la fiamma irruente si spense, non si sa se per la pace dei chiostri, per il silenzio fresco che vi aleggia e per il verde immenso che appare a ogni finestra oppure per le minacce, le costrizioni, il terrore suscitati dai frati carcerieri.”

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