Il miele amaro della vita agreste

“Verso la quiete” di Giovanni Comisso

Aveva sempre sognato di poter vivere in campagna.

Fu solo verso i trentanove anni che Amilcare Scandolara poté disporre di una certa somma e comperarsi una ventina di campi. Calcolati i suoi risparmi, pensava che in campagna, coi prodotti della terra avrebbe potuto passare il resto della sua vita senza troppo affannarsi a rappresentare farine da un paese all’altro.

Quante volte nel suo continuo viaggiare aveva visto dal finestrino del treno i contadini a lavorare sui campi e quante volte ne aveva gustato la bellezza della scena.Pensava che vivere tra quella gente sarebbe stato un ritorno alla natura, alla vita semplice e buona.

Realizzato così il suo sogno, chiamò un capomastro, fece ingrandire la casa per i contadini, e per sé trasformò un grande granaio in un appartamentino di alcune camere. Abituato a vivere a pensione, non aveva mai saputo cosa occorra per mettere su casa e quello che costi.

Per mangiare fu necessario comperare: la cucina economica, le pentole, i coperchi, i piatti, i bicchieri, le posate, la credenza, la tavola, la tovaglia, i tovaglioli, la botticella per il vino. Sembrava che non dovesse occorrere altro; invece appena fatta funzionare la cucina, si accorse che accorrevano anche i coltellacci per la carne, i taglierini per la polenta, i sottobicchieri per non sporcare la tovaglia, la caraffa per l’acqua, la saliera, il portacaffè e zucchero, lo spremipatate, il passapomidoro, lo schiumabrodo e altre cose consimili e tutte, anche se fatte semplicemente di legno, non costavano meno di tre o quattro lire: un sottobicchiere di legno, appena verniciato, settanta centesimi! Le somme crebbero e la quiete che Amilcare sperava di raggiungere si allontanava. Quando fu poi la volta di sistemare le finestre ci fu altra sorpresa per quello che dovette pagare: conto del falegname per i telai e imposte, conto del muratore per la messa in opera, conto del vetraio per le lastre, conto del droghiere per lo stucco, colore e olio per le imposte, e mordente e olio per i telai, conto del fabbro per le serramenta, conto del tappezziere per le tende. Ogni finestra gli venne a costare circa trecento lire: Amilcare cominciava a spaventarsi. Quando ordinò queste finestre, le immaginava come sorgenti del suo benessere: «Di qui,- pensava, – vedrò il sole alzarsi la mattina, di qui vedrò i contadini a lavorare sui campi ».

Ora queste finestre, le odiava come falsi amici. Ma il giorno in cui, finiti tutti i lavori, il capomastro gli presentò il conto, fu il più terribile giorno della sua vita. Con un’astuzia profonda il capomastro aveva saputo suddividere ogni lavoro sotto diverse voci. Per alzare una parete, egli cominciava: scavo delle fondamenta, tanto; getto delle fondamenta in cemento, tanto; costruzione della parete, tanto; malta grassa e magra, tanto; due mani di calcina, tanto. Aveva avuto il coraggio di mettere in conto persino un po’ di malta per otturare dei buchi fatti da chiodi su una parete che non era stata rifatta: «Governati dei piccoli buchi sui muri, lire 9 ». Il totale era sulle cinque mila lire senza aver messo un solo chiodo di materiale. Quando Amilcare vide questa cifra che rappresentava per lui un anno di vita tranquilla in un’ottima pensione, impallidì e non poté trattenersi dall’avventarsi contro il capomastro mostrandogli i pugni: «Cosa credete che io vada a rubare i denari ?». E preso da una veemenza che lo portava fuori di sé, discusse accanito tutto un pomeriggio, mentre l’altro difendeva la sua opera con calcoli che Amilcare non comprendeva. Infine riescì a tagliare settecento lire sul conto e tutti e due si lasciarono affranti come se si fossero bastonati a sangue per ore.

Dopo tanta tempesta, la quiete non venne ancora: fu la volta della cucina.

Aveva trovato un uomo che diceva di saper far abbastanza da mangiare, ma dopo la prima settimana, seccato di sentirlo tutte le mattine venirgli a chiedere:

«Cosa vuole che facciamo oggi? », «Fa quello che sai fare e lasciami in pace », finì col rispondergli. Allora quegli andò avanti per parecchi giorni a non fare altro che riso in brodo e carne a lesso con radicchio in insalata. Preso dalla nausea, comperò un manuale di cucina e fissò per ogni giorno della settimana un piatto diverso, ma la prima prova fu un disastro.

Quel giorno doveva esserci: risotto alla milanese e carne alla greca. Il primo cucchiaio di risotto fu d’un tremendo sapore amaro: l’uomo di cucina aveva sbagliato la misura dello zafferano. Amilcare si pulì la bocca col tovagliolo e ne lasciò un’impronta gialla fortissima, il cucchiaio pure era giallo, chiamò l’uomo e questi gli si presentò con la bocca tutta gialla e i denti pure. Tutto il pranzo fu rovinato dal disgusto orrendo del primo piatto. Amilcare non sapeva più come fare: ritornò alla cucina semplice: alle uova in tegame, e una sera, dopo aver ben calcolato se era più conveniente comperarle dai contadini o dal pizzicagnolo, volle egli stesso mettersi a cuocerle, ma rotto il primo uovo, il tegamino che stava in bilico si capovolse e l’uovo precipitò nel fuoco per ardere come un cucchiaio di benzina.

Chi ebbe occasione di vederlo dopo queste prime esperienze campagnole stentò a riconoscerlo, tanto era trasfigurato. Ma come aggrappato a questa sua nuova casa e a questa sua campagna, non  perdeva ancora le antiche illusioni.

E quando maturò l’uva ribes, fu suo divertimento andare nell’orto, alla mattina, con un grande cappello di paglia in testa a cogliere i piccoli grappoli corallini: «Ecco, le prime frutta della mia terra », si diceva e nel sentire dai campi i contadini che cantavano come eccitati dalla freschezza dell’aria, si confermava che infine quella che aveva scelto era la vera strada della felicità.

Ma non passò molto tempo che venne la grande disdetta. Tutto quello che aveva immaginato circa al vivere in campagna era completamente errato.

In primo luogo egli che sempre aveva ammirato dal finestrino del treno, quando viaggiava, il colpo d’occhio di quattro paia di buoi ad arare, ora che era costretto ad averne nella sua stalla appunto altrettanti, per la durezza della sua terra, capì che questo spettacolo non ha affatto una base di bellezza, ma di ben cruda verità: otto bestie da mantenere e tasse da pagare in proporzione. E quando gli toccò di vedere le sue quattro paia di buoi biancheggiare sulla terra bruna, ora distoglieva inasprito lo sguardo.

Quante altre volte, egli non aveva goduto del contrasto nel vedere i covoni di grano spiccare contro il cielo temporalesco.

Ma ora che aveva imparato come queste piogge calde sul frumento tagliato ne siano causa della nascita prematura, se il cielo anneriva dalla parte dei monti, tutta l’ebrezza d’un tempo si tramutava in nervosa preoccupazione e fastidio.

I contadini poi, che egli pensava vivessero una vita semplice e buona, gli si rivelarono come anime dure e intrattabili. Fin da quando aveva preso possesso della sua terra aveva deciso questa linea di condotta: «Bisogna andare incontro ai contadini, bisogna favorirli, aiutarli, metterli in condizione di star bene, di aver tutto quello che occorre per lavorare e per riposare ».

Sicché fece loro fare una vasta cucina per poter tenere i bachi da seta, e invece del solito focolare, una grande cucina economica. I figli del capo di casa poterono dormire ognuno in una camera a sé, il granaio ebbe il pavimento nuovo e vetri alle finestre, fece la concimaia e la latrina, accomodò la stalla, fece da per tutto l’impianto della luce elettrica. I contadini che vedevano come egli non badasse ad accontentare ogni loro desiderio, non si trattennero dal formularne di nuovi. Il figlio maggiore, che era sposato, volle la luce sopra la testiera del letto, perché gli seccava scendere per spegnerla, e Amilcare gli fece fare l’impianto. così. Vollero la luce sotto al portico e gliela fece mettere; vollero la luce nel granaio al momento ultimo dei bozzoli per difenderli dai topi e gliela fece mettere. Così facile accondiscendenza accrebbe nei contadini un’arroganza che ben presto parvero diventati i padroni.

Un giorno Amilcare volle crearsi un piccolo giardino di fianco alla casa, aveva fatto il progetto egli stesso, poi si era divertito a fare il tracciato coi paletti, e tendere lo spago. La mattina era radiosa. Cominciava a godere. Col badile prese a scavare le aiuole, vi trasportò alcune piante per osservare l’effetto, si divertiva un mondo, il mondo sognato, quando comparve il contadino, che senza se ne fosse accorto era stato un pezzo a spiarlo dall’orto: «Cosa fa signor padrone di bello? », chiese con aria che avrebbe voluto essere umile. «Oh, mi faccio un giardino ». «Ma, mi scusi, sa, ma quel posto lì ci serve per passare a portare il letame sui campi ».

Amilcare lasciò cadere il badile. Tutto il suo piacere disparve, capì che l’uomo che gli stava davanti, aveva la pretesa di imporgli la sua volontà.

Capì che quegli pensava di poter impedirgli di fare quello che avrebbe voluto; si fece cattivo, avrebbe voluto riprendere il badile, cercò di farsi calmo e con forza poté dirgli, come se il suo intervento non gli avesse fatto né caldo né freddo: «Il letame lo porterete per un’altra parte, andate pure ». Ma un’altra volta, egli che aveva fatto in modo che ognuno avesse una camera per sé, egli che aveva fatto fare per loro la cucina economica e tutti gli impianti della luce come per un palazzo, un’altra volta, che per non sentirsi soffocare nel suo tinello all’ora dei pasti decise di aprire una finestra che avrebbe dovuto aver posto giusto sotto al portico dove c’era un San Luigi, dipinto alla buona, si sentì dire dal contadino, che questo proprio gli dispiaceva, perché quel santo lo aveva fatto fare lui a sue spese. Fu il ricordo che essi dormivano uno per camera e per merito suo, mentre prima se ne stavano accumulati in un misero sgabuzzino, che lo fece scattare a urlare, che era ora che la smettesse e che il padrone era lui e che lì poteva fare quello che voleva.

Tutte le illusioni erano cadute. L’idea di avere quei contadini confinanti col muro della sua casa lo rendeva insonne alla notte.

Le cose precipitarono: dapprima si ammalò di itterizia, e il medico gli spiegò che questa malattia può anche derivare da arrabbiature violente; gli fu quindi facile spiegarsene la causa. Poi ci fu l’invasione dei topi: non era possibile liberarsene, avevano la loro tana nel vuoto del soffitto, e notte e giorno era come se qualcuno vi camminasse a grandi passi. Fu necessario rompere il soffitto per distruggere le nidiate e rifare il lavoro. Da ultimo fu la volta degli scarafaggi, venivano dalla cantina, per finire in tinello come formiche. Amilcare era ridotto uno straccio: un giorno incontrò il mediatore che gli aveva fatto comperare quella campagna e questi gli disse: «Se vuole vendere la sua campagna, gliela farei vendere bene, e invece avrei una casa in città: una vera buona occasione ».

Ad Amilcare parve che gli si dischiudesse il cielo, vendette subito la campagna, ma non si comperò niente altro e riprese a viaggiare come rappresentante di farine e a godersi la quiete del vivere a pensione.

Giovanni Comisso

Pan, N. 1, XII, 1933

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