“Il mio principe stanco”. Giancarlo Marinelli ricorda Gian Antonio Cibotto

E anche nei giorni lunghi della tua malattia, restavano di te gli occhi spiritati, incandescenti, d’una furbizia  a cui nulla sfuggiva. E non potevi più parlare né leggere, ma quando ti davano in mano un libro, lo stringevi a te come se fosse l’ultima spiaggia, il vestito di un amore perduto.

“E’ mio”, dicevi con lo sguardo duro.

Sono diventati nostri i tuoi romanzi che fanno parte dei capolavori della letteratura del ‘900: “Cronache dell’alluvione”, il tuo esordio che folgorò Eugenio Montale. Il Poeta, a quelle pagine di fango, morte e dignità, dedicò una mirabile prefazione.

E poi, “Scano Boa”, da cui, sia chi ti scrive, sia Renato Dall’Ara, trassero film molto diversi ma accomunati dalla presenza di due grandi attori: Alain Cuny e Franco Citti.

Ancora: “La coda del parroco”, il tuo libro forse più fortunato ma anche quello più maledetto.

Una serie di racconti strumentalizzati dalla corrente democristiana avversa a quella di tuo padre, (onorevole della Dc), che per immonde ragioni di potere, gridarono allo scandalo, prendendosela con il figlio per far del male al padre. Per un momento, riuscirono nell’impresa di mettervi l’uno contro l’altro: tant’è che tu ritirasti dal mercato le migliaia di copie della prima edizione, pagandole di tasca tua.

Solo qualche anno più tardi, Cibotto senior, incontrando un amico in treno, disse: “Prima o poi dovrò chiedere scusa a mio figlio”.

C’è stato poi il tempo della “Vaca Mora”, dove compare uno splendido ragazzo che parte per la guerra e che io ho avuto la fortuna di conoscere, Mario Mantero; e la narrazione, quasi in presa diretta, della “Stramalora”; la tragedia del Vajont sublimata in un gioco tanto perfido quanto stilisticamente perfetto di un amore e di un’amicizia traditi.

Non ti sei mai fermato. Ogni anno, un libro di racconti o di proverbi, di ritratti e persino di poesie, contesi dai tuoi amici di sempre: la diletta Elisabetta Sgarbi, Cesare De Michelis, Giuseppe Russo. Ogni mese, una nuova scoperta del “teatro umbratile”, come lo chiamavi tu, e cioè quella drammaturgia, soprattutto del periodo pastorale veneziano, che il tempo aveva cancellato.

E allora via, accompagnato dall’inseparabile Paola, da Vittorio Sgarbi perché ne discutesse in Commissione Cultura o in tv, da Roberto Bianchin perché ne parlasse su “Repubblica”, da Sergio Garbato perché indagasse ancora più a fondo, da Maurizio Scaparro e da Pierluca Donin, a suggerire titoli, produzioni, a caldeggiare i direttori dei teatri di tutta Italia, che di te avevano soggezione, affinché li mettessero in scena.

E più ci penso e più capisco che questa è stata la tua più formidabile lezione, nella vita come nella pagina. Scrivevi e vivevi, in fondo, sempre a difesa di qualcuno. Ogni tua parola e gesto sono stati un modo per proteggere qualcosa o qualcuno. E, nel contempo, erano anche una preghiera che chiedeva, a tutti gli altri, di farsene carico.

L’amore per il Delta, per l’infinito di Santa Giulia, per il Goldoni nascosto e per il Gallina mai rappresentato; l’amore per i Premi da dare e mai da ricevere, (il Campiello, il Comisso, il Settembrini); l’amore per la terra veneta, per i suoi angoli meno conosciuti, per le sue storie di uomini e donne invisibili: l’amore infinito per gli amici e i loro libri, (da Romolo Bugaro a Gianfranco Scarpari), per l’adorata nipote Anna Maria: ogni oggetto della tua attenzione si tramutava in soggetto della tua vita e del tuo talento.

Una battaglia da portare avanti, soprattutto, a difesa di ciò che non ha voce, che non ha potere, che non ha ribalta.

Per questo, l’uomo che dirigeva la Rizzoli, che scriveva sceneggiature per il grande produttore di cinema Leo Pescarolo, che aveva Roma ai suoi piedi, di punto in bianco, un giorno, mollò tutto e tornò nella sua dolce Rovigo e nella sua ancor più cara Lendinara.

Me l’hai detto una volta: “Il centro è in periferia; il fiore cresce ai margini; le parole vengono dal silenzio”. E lì, no, non ti sei richiuso. Ché, anzi da lì, hai potuto abbracciare il mondo.

Di te, resto anch’io. Che di tutta la luce che hai emanato, di certo, son l’abbaglio più clamoroso. A te devo tanto, se non tutto.

Così- citando un tuo volume di racconti di cui s’era perdutamente innamorato Giuseppe Pontiggia- il Principe Stanco era davvero stanco; così stanco che ha chiuso gli occhi, per sempre.

Ed io, che dal genio, dal grande maestro son separato da una distanza incolmabile, siderale, te lo giuro: proverò, indegnamente, a tener aperti i miei. Al posto tuo.

Giancarlo Marinelli

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