“A pena cerco il dolce senso morto”. Il saggio di Damiani per Cecchinel

Vi proponiamo il saggio di postfazione di Rolando Damiani alla raccolta poetica “Da un tempo di profumi e gelo” di Luciano Cecchinel, edito da LietoColle a settembre2016.

Rolando Damiani

Rolando Damiani, Presidente della Giuria Tecnica del Premio Comisso  ha insegnato Letteratura Comparata all’Università di Padova, insegna attualmente corsi di Letteratura Italiana e Critica Letteraria alla Ca’ Foscari di Venezia.

I suoi studi su Leopardi, come All’apparir del vero e Leopardi e il principio di inutilità, hanno avuto un rilievo tale da assegnargli la curatela dell’edizione delle Prose, dello Zibaldone e delle Lettere dello stesso poeta, per la collana I Meridiani Mondadori.

Ha inoltre firmato l’introduzione dei Meridiani di Comisso e Arpino.

Ha svolto anche attività di traduttore per Adelphi e Bompiani di autori come René Girard, Georges Roditi, Driss Chraibi, ecc..

«A pena cerco il dolce senso morto»

Da un tempo ritrovato di sensazioni cognitive del proprio paesaggio esistenziale, come quelle alternanti dei profumi in natura e del gelo, Luciano Cecchinel recupera tra «foglietti disparati» un esercizio in versi francesi d’età ginnasiale, databile agli inizi degli anni Sessanta, che ora appare come la prima autocertificazione della sua identità di poeta. Una scena insieme solenne e preliminare, ideale antefatto della parola poetica, è rappresentata in Juvénile, posta appena oltre la soglia introduttiva alla presente raccolta. Un io lirico soggettivo e plurimo nella sua conformazione fisiologicamente tradizionale, dunque imparentata alla lontana con progenitori classici e italiani, vaga nel «lucore» speculare della luna e di un lago, che noi sappiamo essere non immaginario ma reale e da lui visibile come sfondo abituale e nativo.

Quasi rapito da una luce nella notte, «inconscient parmi célestes confiances», ama perdersi «sous le regarde doux de la nature amie», e in tale stato «énivrant» parla come in un sogno «le language inconnu» ancora impresso nel vivente, forse tradotto nella «lingua che più non si sa» delle rondini ascoltate da Pascoli. E soltanto al risveglio sente e sa di aver abbandonato «la voie d’une fable d’antan», la via di un’antica favola, ovvero fabula nel significato latino di mito, poiché è proprio del mito e dell’immaginazione poetica che vi si ricollega tessere il filo «dont un bout était la terre, l’autre l’infini», come dice del fiabesco evento narrato l’ultimo verso di Juvénile. Al principio di questa favola, come di tutte le favole anche dei poeti più malinconici e infine tristi, non può che esserci uno “sguardo della natura amica” che abbraccia l’ingenuo e genuino suo contemplatore prima di rivelarsi nemica.

C’è dunque una dissimulata premessa adolescenziale, ma già compiutamente enunciata in una lingua presa in prestito, da anteporre nella valutazione critica agli esordi del poetare di Cecchinel, giunti alla stampa nel 1988 con Al tràgol jért. Gli argomenti di sostegno recati dal saggio di Andrea Zanzotto che vi fu poi annesso nell’edizione riveduta e ampliata di Scheiwiller decretarono giustamente, con ulteriori apporti interpretativi (di Franco Brevini, Clelia Martignoni, Cesare Segre e altri notevoli studiosi), l’assunzione dell’autore tra i maggiori poeti dialettali. Ma Cecchinel – come suggerisce ai lettori la qualità della sua mimesi in italiano a piè di pagina dei propri testi dialettali, per la quale Mengaldo lo giudicò in un saggio «ottimo autotraduttore» – è un poeta bilingue naturaliter, in italiano letterario e nella sua rara e arcaicizzante parlata dell’alto trevigiano nativo, se non addirittura un trilingue quando si affidi all’inglese dell’America materna.

Come sottintende nella nota di accompagnamento a Da un tempo di profumi e gelo, è abituato a scrivere liricamente su due tavoli: mentre indugiava su Al tràgol jért, tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta, nascevano contemporaneamente Le voci di Bardiaga. E da lì, dopo il viaggio americano del 1984, rimescolava le carte nei componimenti destinati a costituire Lungo la traccia in tre lingue, i quali si incrociavano per dichiarazione dell’autore con la generazione di quelli adesso riuniti in volume.

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Un tale intreccio ideativo, somigliante quasi a un bosco labirintico o a una “selva” da cui il poeta stesso mentre vi si addentra non sa quale sarà la via d’uscita, è coerente con una lirica che nell’estrema disponibilità espressiva, nei frequenti transiti da un codice linguistico a un altro, si chiude in se stessa, in un suo «universo breve» ma compiuto, come quello evocato qui nei versi di proemio. Per questa assolutezza, che si riflette nella ricercata e a lungo saggiata preziosità stilistica e lessicale, nella tensione insopprimibile o anche erta ascesa verso il mot exact da conquistare, Cecchinel non è poeta di patine morali sulle cose, di quotidianità degustata nei piccoli nulla, di domenicali istantanee all’aria aperta, ma di sfide al mistero del visibile quando pure lo incanti nelle sue profusioni naturali in alberi, fiori, prati, venti, acque e distese di neve.

Chi più ami e sappia nominare il divino in natura, che è la sua stessa realtà elementare, ne può percepire l’oscuramento, la perdita e l’assenza. Ma nel beato fluire talvolta dei nomi di fiori e di alberi (come qui sin dai primi versi, in Funzione dei profumi ad esempio, e ancora in seguito nello Spirito del gelo, dove in un mazzo di una dozzina di versi si incontrano il calicanto, il biancospino, il ciliegio, la primula, la viola, la pervinca, il frassino e l’acacia) si avverte un’adesione istintiva, o piuttosto ispirata di Cecchinel al semplice sentire e vedere la vita che furono di per sé il “divino” nell’età di Pan e delle venti generazioni degli dèi greci.

Lo spirito del gelo si impernia anche sul confronto, ravvisabile in altre liriche, tra una pacificante purezza assegnata metaforicamente al buio e alla neve e, d’altro canto, colori, profumi e luce stessa percepiti quali elementi di seduzione e perfino di turbamento. Per tali pensieri riposti il  poeta potrà poi dire nei versi qui di congedo preludianti al ritorno vitale della primavera: «Già acido scorda un sole / il muto ultimo / consenso del buio / e della neve», alveo cui forse egli agogna ritornare in un’assillante e sfinente oscillazione. È quasi la cristiana contraddizione di essere «nel mondo ma non del mondo», insolubile soprattutto per un poeta, che in Cecchinel emerge da una radicata formazione cattolica, con accenti peraltro di limpida e alta poesia, udibili pure nel suo recente libro d’impronta familiare e affettiva  In silenzioso affiorare.

Nei suoi versi le lacrimae rerum sono un motivo ricorrente come i voli d’uccelli o i «boschi a perdizione», così in una circostanza chiamati. Il pathos acceso dalle sue parole proviene di norma dal conflitto incarnato in lui stesso fra il canto e il disincanto verso il male di cui l’apparente innocenza naturale, come nel caso tragico delle crode di Bardiaga, può essere impregnata. Un’eco precisa derivante dalle atrocità sepolte nella spelonca di Bardiaga sembra udibile nella strofa che chiude Là ancora brusiscono: «Là ancora brusiscono voci / che bufere di boscaglia / fervide travolsero / e hanno nelle trafitture d’addiaccio / delle notti tinnii / come di anelli trasalenti sui sordi / legni delle greppie».

Non solo dinanzi al mondo sociale, per cui pure si prestò come sindaco di Revine Lago, ma verso la stessa nature amie gli si impone una «scienza della solitudine / e del gelo», così definita in Per il freddo rosa dei tramonti. Il senso vivo e divino, annunciato dalla bellezza naturale come un dono all’esistente, si manifesta nel tempo, nello scorrere della storia singolare e collettiva, un «senso morto» e alla lettera secolarizzato, da ricercare dolorosamente e forse invano nell’antica e perduta dolcezza. Ne è testuale prova il sonetto in stile aspro, come altri due della raccolta ugualmente lavorati al cesello, che dall’incipit di una terzina s’intitola Qual rabdomante in tremebonda traccia.

«Assoluto, / dolce cantilena da lontano, / come di lieve novena / in ricchezze / sfolgoranti di campane», si dice o meglio si canta in Assoluto / dissoluto, dove per metamorfosarsi come l’Assoluto in sparizione e assenza, l’io poetico desidera e sogna di «voler svanire in scie di polvere / fluttuante luminosa nel sussurro / denso di una stagione attesa». Diventare nella voce e nell’anima un frammento di bella e purissima natura è forse ciò che più ardentemente vogliono i poeti, pur precipitati «in un roveto di lampi lividi / per l’inganno inevitabile del giorno, / brancolanti, ancor abbacinati / dalla splendente ineffabile / visione che li tradì». Cecchinel sorride amaramente in Ebbrezze sui poeti «erranti» e dubbiosi sul domani, «malati di profumi e colori, / ansiosi del bisogno di tepore / nella notte sibilante». Ma nel dilemma, nell’aut-aut esistenziale cui dedica poco oltre le cinque quartine di Io non vorrei, vorrei, dichiara nella prima e ripete nell’ultima l’aspirazione a tramutarsi piuttosto in una perfetta e caduca forma naturale, bella nella sua vana essenza come il petalo di un fiore: «Io non vorrei essere un poeta, / vorrei essere / solo un petalo che cade lento, / un pappo che vagola col vento».

Wystan H. Auden scrisse in uno dei suoi Shorts: «Whatever their personal faith, / all poets, as such, / are polytheists». Non si sottrae Cecchinel, as such o nel suo fondo, a questa regola aurea: anche su Da un tempo di profumi e gelo si staglia all’orizzonte il mito, la fabula o la giovanile fable di un eden iniziale, non circoscritto biblicamente o recintato come il paradiso ma vasto quanto la natura immacolata. Nel tempo, che il titolo enuncia, si determina una contrapposizione tra prima e dopo; nel giro degli anni e delle stagioni resta tuttavia un indistruttibile, che è la realtà stessa del visibile. La neve cade ancora nel «Natale nevoso» dell’Elegia qui dedicata ad Andrea Zanzotto – in contraccambio di quella sua di Pasqua – e il suo ritorno inesausto che «i mali fa più opachi», riconduce il poeta nel ricordo a una rivelazione originaria: «Ho visto chiari scampanii di stelle / sotto volte di cristallo, / ho sentito canti di tepore / dalla strada innevata / che declinava come soffice cometa / nell’ultimo orizzonte. / Ho toccato purissima neve».

Una sospensione indicata da una serie di puntini segnala il trapasso nell’Elegia a uno stato successivo, che è l’attuale, espresso da verbi al presente indicativo, fuorché il passato remoto del «lume che si spense»: «Già scure bende fasciano / tutte le impronte della festa, / remoti sono ormai / i cammini sussurrati / con la nenia delle novene vane, / tinnulo l’agnello smarrito / in questa Betlemme / di fieni sminuzzati / e stoppose nevi / lungi dal lume che si spense / fumoso al bianco / alitare del pietrame». Identica è la neve, ma da purissima qual era appare ora di stoppa. Eppure sopravvivenze naturali di «stellata meraviglia» nel Natale stopposo persistono a chi le sappia vedere: «Rimase del calicanto / la stellata meraviglia, / intirizzita benedizione aspersa / sulla distesa infinita delle nevi / e gli occhi non sono che un lanoso velo / e i suoni ultimi non sono che un sospiro / nella notte che ricordi miti / disegna di gelo».

È questa la strofa finale dell’Elegia di Natale, alla quale seguono Lo spento lucore e Tormentoso il male, dove la «luce» assume un’accezione analoga, essenzialmente filosofica, a quella cui secondo Pascoli allude Leopardi nell’epigrafe giovannea della Ginestra: «Non c’è fuoco che arda l’intrico / che dentro s’è fatto / di vitalbe e spine. / Solo fredda luce / che penetra e illumina / tormentoso il male». E la seconda sezione della raccolta si chiude con la lirica che nell’ultima strofa afferma un’illuministica e lacrimevole certezza: «È arrivato il tempo / di lacrime e fumo / delle preghiere non dette / e ha odore / di candele spente».

Una crisi dell’anima, che l’autore definisce in linguaggio medico usuale «un grave esaurimento nervoso» patito nel 1985, è all’origine del terzo mannello di liriche che compongono Da un tempo di profumi e gelo. Il sentimento religioso sottinteso nella visione e nominazione della realtà naturale come se nei suoi elementi fisici di per sé lo contenesse, si offusca e drammatizza cristianamente nella conoscenza del «mondo nemico del bene», che fu la prima e grande novità evangelica. Alla contemplazione del visibile in superficie si sostituisce lo scavo interiore, la tormentosa profondità dell’io «malato». E proliferano le domande senza risposta, i sensi di colpa, le vane ribellioni alla fortuna e al fato, il «blasfemo delirare». È un azzardo di impoetico che un poeta deve affrontare come una prova, se non un esperimento, non solo dell’esistenza ma del proprio stile.

Consapevole, come qui confida nella Nota, del «doloroso declinare di una dimensione idillico-contemplativa», che gli è in verità congeniale, non è tuttavia disposto a rinunciarvi, pur presentandosi nelle vesti penitenziali di un Giobbe implorante o di un devoto aggrappato ai piedi del Crocifisso. Così, nella lirica iniziale della terza parte, Come il sogno di un profumo, è un paesaggio a rappresentare la stagione invernale dell’anima: «Vecchie radici, erba secca / protesa, fuggitiva a ventoso sole / e alfine irrigidita in vitrei cristalli, / canne, foglie di granturco, / maschere sciancate / che increspate scintillanti il campo, / gonfi manti di salice, fiati argentei / ad esalare da intrichi di palude, / ancora, ancora voi / ai limiti del sonno e del gelo, / esili assediate, esterrefatte vite / derubate dei profumi / fra rintocchi di campane e corvi grevi».

Lo stesso antropomorfismo del Dio biblico, che come primo occulto idolatra crea l’uomo a sua immagine, può dissolversi in un Assoluto percepibile in forma di «dolce cantilena da lontano». Trasformato in voce orante del dolorismo cristiano, cui si intona Niente… nessuno?, il poeta giunto a dire alla sofferenza come un mistico in excessu mentis «intridimi con le tue unghie di vetro, / poltiglia inerme fammi sanguinare / gridare di ingiuste piaghe, / premi l’errore ignoto», aggiunge per uno sviante dubbio che è quasi una resipiscenza o un’anamnesi: «Forse un vivere / come giocosa / ridente acqua lasciai andare / e altri lo raccolsero / senza ombra di paura, / con frenetiche dissipanti mani». E il desiderio nutrito al “tempo di profumi” d’essere un petalo riappare alla luce, quasi dall’ombra di questa lirica tramata da ulteriori domande al cielo oscurato – «Perché i fili del gelo, / siderale pena / alla mansuetudine / di fioriture / chinate nel mattino?» – nella metafora conclusiva di se stesso e di altri, forse i «fratelli nella tenebra» di una lirica vicina, come «petali infraciditi / al primo sole». A quei fratelli, sulla liquida scia del Cigno di Baudelaire, l’io poetico «assetato / come d’acqua lungo l’umido / segno sul selciato / il cigno sottratto al nativo lago», tende forse «per un peccato», secondo il titolo della lirica, ad affiancarsi per afflato di cristiana charitas.

Nel cuore del poeta, in modo uguale alla rotazione planetaria delle stagioni, ritornano sempre dopo qualsiasi inverno i moti sentimentali dell’illusione. Al di là del Blasfemo delirare, chiuso dal rabbrividente distico di preghiera a un Dio quasi «eterno Dator de’ mali», nell’appellativo con cui Leopardi invocava Arimane in un inno abbozzato  «Se sei veramente buono, Signore, / con un male immane lava il mio sfinito errore» una luce finale sia pure di tramonto illumina un paesaggio colorato di rosa. In studiato controcanto, al principio della terza stazione dolorosa, sulla «soglia della stagione scialba», lo scenario era invece dominato da sterpi gelati e canne, e pateticamente si chiedeva alla «quercia rovente» che opponendosi all’inclemente cielo custodisse «come il sogno di un profumo».

Il tempo trascorso con gli stessi mali generati ha insegnato una «scienza della solitudine e del gelo», che il poeta ha appreso distillando «col fosco / tossico dei giorni / … / pure essenze di silenzi e vuoti». Riaffiorano tenerezze «trasfigurate / per il freddo rosa dei tramonti», e un sentimento d’amore rinasce come un fiore in primavera, tanto da indurre a dire: «dopo il pallore del lampo / e del salto della grandine / con la scienza della solitudine / e del gelo, / da tenue immenso amore / addenso in nebbiosi soli / stellate meraviglie sensuali / e iridi di fiori / e eteree ali».

Inestinguibile è tuttavia la cognizione del «dolce senso morto», di un’atemporalità di profumi e di purissima neve vissuta nel tempo. C’è però un “ma”, inevitabile per tutti i poeti moderni, avversativo delle «eteree ali» spazianti in natura e nei cieli. Cecchinel non può infine che esplicitarlo: «Ma un ansito che non so placare / da oltre il rilucente sospeso / quasi spento focolare / tutto immarcescisce e vela. / Così con chi in perduto languore / aspira giacere / nel roseo orizzonte della sera / sofferenza e sudato tremore / a quest’ultimo graticcio / sono qui a scambiare / per sordo sentire».

È un accorgimento stilistico e anche di poetica la correlazione tra il Preludio di notturno invernale, a metà circa della raccolta, e il Preludio di primavera, che ne è il congedo a sé stante. L’ultima parola spetta alla stagione di vita risorgente sia pure in forma di quasi anacronistico impulso o cristiana e temuta tentazione di bellezza: «E da tutti i pendii / da tutte le siepi / sudato brusio di pigri voli / e reclinanti steli. / / Già acido scorda un sole / il muto ultimo / consenso del buio / e della neve». Primavera creativa e sonnolenta nella sua duplice forza di maliosa rinascita e di lenitivo quando pure fallace oblio; in ogni caso stagione di illusioni, come si cantò nella celebre canzone, e delle «favole antiche» in cui altri erranti poeti celebrarono la «santa natura» amica.

Rolando Damiani

Titolo: Da un tempo di profumi e gelo

Autore: Luciano Cecchinel

Editore: LietoColle

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