Gildo aveva voluto essere lui il guardiano dei meloni che suo padre aveva coltivato nella parte estrema della campagna. In pochi anni era cresciuto per vero velocemente come le piante di granoturco e come un vitello, forse per la sostanza della polenta e del latte che costituivano il suo cibo abituale. Era grande quanto suo padre, aveva una forza da uomo, ma un’anima ancora da ragazzo. Per cose da nulla si mostrava ostinato come quando aveva dieci anni, un’ostinazione che manifestava con frequenza per imporsi a suo padre e a tutti come un avvertimento della sua forza, che gli si era sviluppata quasi da una stagione all’altra. Ne era cosƬ fiero che voleva smettere di fare il contadino e darsi alla lotta. Aveva visto durante una sagra del villaggio, in un circo, due lottatori suscitare applausi fragorosi mentre stavano avvinti nella stretta e quello rimasto vinto era sicuro che lo avrebbe egli pure abbattuto. Per lungo tempo non fece che ripetere insistente che se ne voleva andare in cittĆ a frequentare la scuola di lotta, che non voleva perdere il suo tempo nel lavoro dei campi, per il quale sarebbe bastato l’aiuto che davano a suo padre la madre e la sorella.
Suo padre lo lasciava dire ed egli arrossiva di rabbia, sotto al ciuffo di capelli ricciuti che gli scendeva sulla fronte come a un vitello quando gli cominciano a spuntare le corna, perchĆ© il suo desiderio accanito non provocava alcuna eco. I suoi compagni temevano i suoi pugni e dopo averli provati una volta si guardavano bene dal provocarlo, e i ragazzi delle case vicine sovente si divertivano a stringere i muscoli delle sue braccia quando li gonfiava nel massimo sforzo. Appena suo padre gli disse se voleva andare a fare la guardia ai meloni perchĆ© non li rubassero, non esitĆ² un attimo. Sarebbe andato lui: con la forza che aveva, nessuno avrebbe osato avvicinarsi al campo e se durante la notte qualcuno si fosse addentrato oltre le siepi avrebbe ben saputo prenderlo, avvinghiarsi a lui e sbatterlo a terra. Si costruƬ un capanno di frasche, lo fece per bene col fondo rialzato da terra per non riceverne lāumido e sotto si accucciava il suo cagnolino. Aveva un bastone leggero piĆ¹ per apparenza, e il suo coltello da tasca col quale si divertiva a intagliarlo, ma era delle sue braccia che sapeva di doversi servire, se ve ne fosse stato bisogno.
Lāestate era ardente, senza nubi, e il sole nitido maturava a meraviglia i meloni con un sapore che dissetava e nutriva insieme. Durante il giorno qualche suo compagno veniva a trovarlo e allora lo invitava alla lotta. Sulla terra arsa, compatta, spelacchiata dāerba rotolavano uno avvinghiato allāaltro, goccianti di sudore, ma Gildo vinceva sempre inchiodando il compagno, schiena contro terra. Per giunta gli premeva il petto col ginocchio: ā Rialzati se puoi, ā gli diceva costringendo il volto a una ferocia che dāun tratto mutava in una risata generosa lasciandolo libero. E andava a scegliere un bel melone che divideva con lo sconfitto. Era avido di questa frutta e dal risveglio alla sera se ne mangiava quanta ne volva mordicchiando fino all’ultimo la scorza. Al sopraggiungere della sera lāaria si faceva fresca, gli altri suoi compagni andavano nelle case vicine a chiacchierare con le ragazze, ma egli non desiderava di essere con loro. Veniva la notte e per lui si avvicinava la possibilitĆ di scoprire qualche ladruncolo sbucato tra le siepi avanzare acquattato verso il campo dei meloni, allora sarebbe scattato dal suo capanno, lāavrebbe raggiunto, preso per il collo, costretto a piegarsi, sbattuto a terra. Sarebbe stato il suo trionfo, in paese se ne sarebbe parlato con ammirazione, suo padre lo avrebbe lasciato andare alla scuola di lotta. La luna sƬ alzava, i cani abbaiavano da una casa all’altra sparse per la campagna, anche il suo cagnolino rispondeva pettegolo ed egli se ne andava lungo le ombre delle siepi per essere piĆ¹ pronto. Al minimo agitarsi delle fronde aguzzava lo sguardo, ma era il vento della notte e nessuno insidiava i meloni di suo padre. Deluso nellāattesa, andava a raccoglierne uno fresco di guazza e se lo divorava avido prima di buttarsi a dormire nel capanno, e il piccolo cane si accovacciava sotto. Dall’apertura, la luna gli batteva sulla fronte ed egli dormiva affondato nel suo sonno estivo.
Oramai gran parte del raccolto era stata venduta e il suo servizio di guardia volgeva alla fine. La luna stava smorzando il suo ultimo quarto, quando una notte egli vide in sogno alzarsi dal fosso vicino un uomo grandissimo e senza fare rumore, entrato nel campo, raccoglieva gli ultimi meloni e ne riempiva un sacco. Non aveva atteso un momento, era corso su di lui, mentre si curvava, lo aveva afferrato al collo e con una gamba tentĆ² lo sgambetto, ma cadde invece lui e quell’uomo gli fu sopra e gli impediva di rialzarsi e con un ginocchio gli premeva lo stomaco con un dolore fortissimo, disperato fino a farlo urlare, e urlĆ² svegliandosi, e al suo urlo rispose da sotto il cagnolino con un guaito. La luna bieca prossima al tramonto gli illuminava la fronte tutta in sudore, il cagnolino era giĆ fuori in allarme ad abbaiare, egli tremava di freddo, non si rendeva ragione se era sveglio o se sognava ancora, l’uomo grandissimo non era sul campo, nel silenzio sentiva solo una civetta cantare da un ciliegio lontano come un ridere amaro. Ma il dolore allo stomaco gli persisteva e un freddo acuto per tutto il corpo. RichiamĆ² il cagnolino, lo prese tra le braccia e si ridistese sul giaciglio facendosi riscaldare da lui. Fino all’alba rimase assopito trattenuto dal dolore Ć riprendere il sonno e in sĆ© stesso si affliggeva per la svergogna di essersi sognato di essere stato abbattuto nella lotta da uno piĆ¹ forte di lui. Quando andĆ² a casa per prendere un po’ di latte, sua madre vide subito che era stravolto, gli chiese cosa avesse, disse che non aveva nulla e voleva subito ritornare sul campo, ma ella gli passĆ² una mano sulla fronte.
Aveva la febbre, e non voleva saperne di essere ammalato e scappĆ² via, ma ritornato al suo posto non si reggeva in piedi e si buttĆ² nel capanno. Sua madre era andata a chiamare il medico e come questi lo vide ordinĆ² che venisse immediatamente portato allāospedale. Fu operato il giorno stesso, se si fosse ritardato di poco il suo stomaco sarebbe andato in brandelli.
Nel letto riprendeva consapevolezza di sĆ© e di chi gli era vicino. Rivolse lentamente gli occhi vitrei: vide sua madre che piangeva, tentĆ² di rialzare un braccio, ma gli pesava come fosse trattenuto da un macigno. Quando ritornĆ² alla sua casa, fu obbligato a camminare; appoggiandosi ad un bastone, e dopo pochi passi doveva subito mettersi a sedere, gli sembrava di essere un vecchio e preferiva non farsi vedere. Non credeva piĆ¹ nella forza delle sue braccia. La sua forza gli sarebbe ritornata: quella sufficiente per aiutare suo padre nei lavori dei campi. Di questo si accontentava.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 19/03/1944
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