Medoro Coghetto, XVIII secolo, olio su tela 90x60, Museo Luigi Bailo Treviso

La Gioiosa. I decori e gli affreschi di una Treviso che non c’è più

Prima che un mio amico partisse per gli Stati Uniti d’America ho voluto fargli vedere una raccolta di riproduzioni di decori affrescati, compilata da Mario Botter. Questi decori rivestivano le facciate delle case della città di Treviso e anche gli interni, in tempi che oggi sembrano irreali.
Volevo che il mio amico, arrivando in quel paese, che è bene definire con un: laggiù, in quelle città fatte di case che anche se terrificanti per la loro altezza finiscono col dare il senso del provvisorio, ricordasse che in questa povera Italia almeno un tempo vi era il gusto della più ricca armonia da mente d’uomo potuta immaginare.
Purtroppo questa raccolta, che consta di alcune centinaia di tavole a colori, non potrà mai essere pubblicata per il costo enorme, e il suo destino è di finire tra i documenti del Museo di Treviso che testimoniano la compiutezza spirituale di una delle tante città italiane durante il periodo medioevale.

Sembra quasi che, in quel tempo, lo spirito umano fosse più elastico nel reagire alle brutalità dei tiranni e delle guerre civili e che proprio questi decori esterni delle case fossero escogitati per sollevare gli animi dalle sofferenze che la violenza non imbrigliata scatenava ad ogni primavera.
Oggi invece alle violenze determinate dalle guerre sulle nostre città non si sa reagire nel ricostruirle, dopo le distruzioni, se non con edifici disarmoniosi e pallidi per i quali gli architetti dimostrano di ritenere che il loro compito è solo di costruire per ciecamente abitare e non di costruire per creare.

Questi decori sono stati eseguiti tra il principio del mille e il 1500 e il gusto nell’eseguirli deve essere venuto da Venezia e a Venezia deve essere venuto dall’Oriente.
In primo luogo la ragione ad affrescare in questo modo le case è una ragione ambiziosa di differenziarle le une dalle altre, di segnalare con orgoglio la propria, quando non si poteva farlo con dispendiosa sovrastruttura di marmi, e mai ambizione e orgoglio sono stati tanto generosi per il popolo di una città, dando un lietissimo incantamento nel camminare per le strade.
Penso quanto doveva essere confortevole camminare per le strette strade di Treviso nei giorni di nebbia tanto frequenti, quando ogni facciata risultava una luminosa apparizione di colori e di disegni i più fantasiosi.
E se questa città nel Medioevo veniva chiamata Gioiosa, era anche per questo.
Meglio ancora si può credere che il gusto gioioso per le feste in questa città, fosse determinato dall’aspetto incantato e carnevalesco delle facciate dipinte. I cittadini di Treviso suggestionati dal gaio e alterno susseguirsi di questi affreschi esterni si sentivano come attori tra gli scenari di un teatro e si comportavano immediatamente secondo la suggestione provata che era di vivere allegramente in un mondo che si presentava con costanza allegro nell’aspetto delle case.

Avveniva una suggestione come tra i colori delle piante e gli animali che tra esse vivono, i quali si mimetizzano, sia pure per difesa, assumendo i colori di quelle piante. Ma si potrebbe anche dire che per gli uomini il conformare lo spirito gioioso in rapporto a quei decori fosse per difesa: per difesa dalla noia che sarebbe discesa pesante ad aggravarli se quelle facciate fossero state in quei lontani tempi pallide come sono al giorno d’oggi.
Del resto si dice che gli antichi greci dipingessero di rosso le colonne e le pareti delle palestre per far risaltare contro di esse i corpi ignudi degli atleti in modo che si potessero considerare come accerchiati da specchi perché ognuno gareggiasse nel migliore sviluppo.

Oggi non si ha più alcun riguardo nel decorare gli ambienti tra i quali siamo destinati a vivere così da essere ornamento del corpo e stimolo ai sentimenti. Oggi nel costruire le case e le città domina un senso chiuso e speculativo di puro e semplice riparo dagli elementi del cielo, un senso che verrebbe da definire medioevale, per una falsa opinione, smentita da queste tavole.

La decadenza incominciò con la fretta nel muoversi, cioè con l’accecarsi dello sguardo umano. E la fretta prese a diventare desiderata al principio dell’Ottocento, quando Napoleone la impose come sua prima virtù strategica nello spostare in pochi giorni i suoi eserciti da una parte all’altra d’Europa. Dimostrato che questa fretta con la sua susseguente sorpresa sul nemico costituiva una delle prime cause di vittoria, gli uomini compresero che ad essa bisognava dedicare tutto il loro genio inventivo. Difatti si vede anche da attuali testimonianze che sono sempre le guerre a determinare le grandi invenzioni.
Motorizzata la vita degli uomini, affrettata cioè la loro possibilità di usare delle città, queste decorazioni caddero in abbandono, e già dall’Ottocento invece di restaurarle si occuparono di ricoprirle con una sbiancata di calce.

È per questo che nella loro maggioranza ci sono state conservate, in parte ritornarono ad affiorare per cura di Mario Botter, quando si trattava di riassestare queste case antiche, e in altra parte ci si accorse di questi decori quando durante quest’ultima guerra gli scoppi delle bombe ne fecero cadere l’intonaco, rivelando il tesoro nascosto.
Purtroppo molte di queste case erano state così gravemente colpite che non era più possibile ricostruirle uguali, ma nel morire esse diedero eccelsamente l’ultimo anelito facendo risaltare chiaramente quello che esse erano state nel lungo corso di secoli; decoro del mondo e conforto degli uomini.

È assai difficile rendere con parole queste decorazioni, perché la fantasia dei disegni è tanto varia e magica che le parole non possono seguirla.
Una serie comprende tutto un giuoco di fascie di vari colori e di dimensioni diverse. Eccone alcune; fascie grigie larghe alternate a fascie bianche strette, fascie larghe rosse e celesti limitate da fascie bianche strette, ugualmente fascie rosse e verdi, altre invece rosse e bianche limitate da fascette nere, altre rosse e gialle, altre alternate a gruppi gialle, verdi e rosse, ma è inutile annoverarle, le parole non possono rendere la gioia che dà allo sguardo il susseguirsi di questi motivi a volte creduti uguali e invece totalmente diversi per il semplice innesto di una fascia più grande o più piccola dello stesso colore tra le altre diverse.
Tutta un’altra serie sviluppa invece il motivo dei quadrati di diverso colore, ai quadrati semplici si innestano cerchietti al centro o agli angoli e anche in questa serie la fantasia scaturisce molteplice attraverso le più semplici combinazioni dei colori e degli innesti.
Altri decori sono tutti inspirati a motivi floreali e di frutta, ve nè uno su campo bianco che ripete questo disegno: da un breve tralcio orizzontale si eleva diritto uno stelo al cui culmine fiorisce roseo un fiore di melo o una rosa stilizzata mentre due grandi foglie come di acanto si dipartono ai lati serpeggianti mostrando nel rovescio un rosso di sangue. Non esiste in natura un fiore che abbia di queste foglie, ma tale è la suggestione di questa facciata che vidi, prima che fosse distrutta durante quest’ultima guerra, che si pensa possibile, un giorno, l’apparizione sulla terra di un fiore consimile.

Ma un’altra serie ottenuta col giuoco dei mattoni di diversa forma e di diverso colore giallo e rosso, oppure rosa e rosso, oppure sempre rosa, dovuta questa serie a una ragione di economia, dimostra che anche quando la povertà di mezzi vorrebbe imporre un limite al decoro, questo limite può essere sorpassato dalla fantasia ottenendo il miracolo del grandissimo effetto col minimo dispendio.
Con i semplici mattoni e coll’aggiunta di pochissimi altri colori si realizzarono facciate che incantavano per la meraviglia.

Ma oggi quale è l’uomo che va ad incantarsi di meraviglia davanti alla facciata di una casa? E si sa come ne approfittano gli architetti non solo tralasciando di ornare le facciate di colori, ma anche tirando via nella forma delle finestre e delle altre parti.
Un tempo camminare per le strade di una città affrescata nelle facciate delle case, come Treviso, dava felicità ed ebbrezza come attraversare un giardino o un bosco, come percorrere le strade di campagna che variano nelle stagioni dalle nude frondi, alle prime gemme, alle foglie appena dispiegate, alle foglie che già si muovono al vento e danno ombra, tra il bianco profumato delle acacie, fino a quando in autunno si fanno gialle e rosse avanti di cadere.

Dipinto di Francesco Dominici esposto nella cappella della Madonna, che mostra la cattedrale prima della sua riprogettazione nel 1760.

Questa documentazione del volto della città di Treviso nel medioevo, rimane come il ricordo delle guance di una giovinetta quando erano pronte ad arrossire nel giuoco di un sentimento.
Oggi questa città, come le altre, ha un volto incipriato o segnato di rughe e non si ammira più una casa con relativo innamoramento. Ma più tristemente ci s’accorge che una grande forma di civiltà è caduta, di autentica civiltà, cioè di armonia data dal vivere in comune nell’ambito di una città. Qualcosa come l’armonia degli statuti civici o delle leggi cavalleresche.
Quella civiltà che più delle armi determina la difesa di un popolo, perché differenziandolo dagli altri impone a questi: attenzione, considerazione e rispetto.
Ma il grave del decadere di questa forma civile, che rendeva belle e accoglienti le città, è che nell’assenza di questi decori noia e malumore diventano per chi ci vive opprimenti fino all’ossessione.

Penso che quel mio amico oramai arrivato nelle città d’America socchiudendo gli occhi alla grandiosa monotonia dell’aspetto di quelle strade, che giustamente possono essere solo denominate con numeri, riveda a suo conforto questi fantasiosi decori, che dalle facciate di case umane, gli riaffiorano strangolatori sulle cravatte dei passanti tetri e sconosciuti.

Giovanni Comisso

Pubblicato il 30 luglio 1950 alle pagine 23-25 nel numero 4 della rivista Lo Smeraldo.
Immagine in evidenza: Medoro Coghetto, XVIII secolo, olio su tela 90×60, Museo Luigi Bailo – Treviso.
Immagini dei decori per gentile concessione della famiglia Botter.

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