"La mia casa" di Giovanni Comisso

“La mia casa” di Giovanni Comisso

Al principio di questo secolo si lasciò la vecchia casa, dove ero nato, per trasferirci in un’altra più bella e centrale. Avevo cinque anni e di quella casa mi è rimasto solo qualche ricordo: il campanello lucente della porta che riescivo a stento ad arrivare a suonarlo, il pianerottolo delle scale semibuie, dove per la prima volta riescii a fischiare e fui sorpreso di questa mia possibilità, ma non ricordo per nulla le stanze dove si abitava. Passare dalla vecchia alla nuova significava che gli affari di mio padre cominciavano ad andare bene. Aveva una rappresentanza di farine e di concimi ed era quindi anche segno che nella città la popolazione cominciava a aumentare, che si mangiava più pane e che nelle campagne si dava un maggiore incremento all’agricoltura. Tanto la famiglia di mio padre, quanto quella di mia madre erano state abbastanza ricche; essi mi indicavano spesso, camminando per la città, certe case che un tempo erano state di loro proprietà. Mi fu sempre difficile spiegarmi come abbiano fatto ad andare in rovina. Appartenevano quelle famiglie alla borghesia liberale, e, dal 1848 in poi, si erano battute, avevano combattuto e alcuni dei miei avi erano anche andati in prigione, perchè si compisse l’unità d’Italia e si instaurasse un governo libero e democratico. Le mie nonne mi raccontavano spesso gli entusiasmi e le passioni di quel tempo, ma col trionfo di quegli ideali, dopo il 1870, dopo anni perduti nella lotta, logorando il patrimonio, non si trovarono ripagati da una vita migliore. L’agricoltura sonnecchiava da secoli e dava poco guadagno, l’industria aveva cominciato a sorgere, ma solo nelle grandi città, e il commercio, essendo i contadini di poche esigenze e la borghesia indebolita, non poteva attivarsi. Le sole risorse erano date dall’emigrazione e dalla burocrazia del nuovo Regno che si stava organizzando. Le famiglie dei miei genitori erano abbastanza numerose e abituate negli anni degli entusiasmi politici a una generosità senza limiti, furono costrette, un poco alla volta, a vendere i propri beni. I miei nonni morirono entrambi in miseria, due miei zii dovettero entrare nella carriera militare, un altro emigrò in America, mio padre, venduta una casa, venne mandato a Praga per farsi una pratica commerciale, forse perchè in quell’epoca si credeva che solo i paesi del Settentrione potevano esserne maestri. Quando ritornò, bello e elegante, fu visto per la prima volta da mia madre giovanotta e subito accortisi l’uno dell’altro se ne innamorarono. Rimasero fidanzati per dieci anni, perchè nè l’uno, nè l’altro aveva i mezzi per fare vivere una famiglia e amoreggiarono per tutto questo tempo, ogni sera attraverso un grande cancello di ferro attiguo alla casa di mia madre, che c’è ancora e mi commuove sempre nel riguardare. Infine mio padre potè avere un posto di rappresentante e allora si sposarono. Vissero modesti in quei primi anni e mia madre cercava di fare tutte le più minute economie per sistemarsi sempre meglio. Non avevano una cameriera, si limitavano ogni divertimento, ma furono anni ugualmente felici.

La nuova casa dove eravamo andati ad abitare al principio di questo secolo, rappresentava anche i frutti delle economie di mia madre. Un giardinetto era la mia delizia per i giuochi, tra i suoi fiori mi piaceva costruire con le pietre templi romani e fare girare tra le aiuole una tartaruga, che mi avevano comperato da un venditore di rane, che veniva dalla campagna. Avevo fatto per essa un piccolo lago, ma poi un giorno morì rosicchiata dai topi e allora le feci per tomba una piramide, come quelle d’Egitto, che avevo visto nei libri di scuola. Crescendo cogli anni tutta quella casa veniva conformandosi su di me come un altro mio corpo. Ogni stanza, ogni angolo corrispondeva a un mio sentimento particolare. Da prima dormii nella grande stanza dei genitori, avevo una culla gialla limone e quando mi addormentavo volevo tenere uno spago in mano che finiva alla mano di mia madre. La spaziosità della stanza mi modellava i sogni e i risvegli, le alte finestre quando venivano dischiuse, alla mattina, mi creavano lo sguardo. Ogni angolo di quella stanza si legava per me a un fatto. Vicino a una di quelle finestre in un giorno piovoso di ottobre piansi per dovere incominciare a frequentare le scuole pubbliche, accanto a un’altra lessi a mia madre una poesiola scherzosa sulle donne che andavano ad attingere l’acqua alla fontana nella piazza. Il giro del sole su quelle finestre mi dava il segno delle ore, secondo le stagioni. Alla sera mi piaceva guardare dalla finestra l’uomo che veniva ad accendere con una lunga asta il lampione a gas sull’angolo. Fu un grande avvenimento quando nelle nostre stanze, seguendo il progresso, si istituirono le lampade a gas con a luce elettrica. Nella cucina un angolo era riservato per il mio giuoco dell’altare e di fare la messa. Nel corridoio, un giorno mentre stavo girando su me stesso giocherellando, imparai cosa è il terremoto, perchè alla scossa sopraggiunta andai a sbattere contro la parete. Il salotto di ricevimento era un luogo quasi sacro, precluso a me per non sporcare. Nel grande tinello, che era, come la stanza da letto, tutto lavorato di stucchi alle pareti e al soffitto, si mangiava solo nella buona stagione e quando vi erano pranzi con parenti e amici. Ma avevo nel reparto ultimo di una credenza il mio museo, dove tenevo raccolti sassi strani trovati nelle villeggiature sui colli, ospiti di un vecchio amico di famiglia. Vi tenevo anche tutti i giocattoli che mi portava la Befana, tra i quali quando fui più grande un motorino a vapore che nella sera facevo andare a tutta pressione. In un angolo di quel tinello, dopo avere assistito una sera alla Tosca, mettevo tra due sedie la tavola per stirare, vi camminavo sopra e fingevo, nel saltare giù, di essere la Tosca che si butta da Castel Sant’Angelo. In un altro angolo vi era la poltrona col tavolino da lavoro per mia madre e spesso mi sedevo accanto a lei coi miei libri che erano quasi sempre di avventure fantasiose. La tavola dove si mangiava, era di quelle che si possono aprire e ingrandire, la si ingrandiva sempre in occasione di pranzi, e anch’io aiutavo mia madre e la cameriera a tirarla per aprire. Di carnevale mia madre dava festini invitando i miei cugini, le mie cugine e alcuni miei compagni di scuola, dal tinello dopo avere mangiato i dolci si passava a giuocare nel corridoio. A metà di Quaresima venivano ancora per bruciare nel mezzo del giardinetto il fantoccio della vecchia, fatto da mia madre. D’inverno per risparmiare il riscaldamento si mangiava invece in una stanzetta che serviva anche di ufficio per mio padre, alla sera si aspettava avesse finito la corrispondenza, e allora quando metteva il copialettere sulla sua sedia per imprimere le parole sedendosi di sopra, si incominciava a mangiare. La spazzacucina era la mia meta favorita, per andare a cantare con la cameriera quando stava lavando i piatti. Poi mio fratello, più grande di me, vi appese a una trave del soffitto due anelli di ferro per fare le sollevazioni, e insegnò anche a me aiutandomi a raggiungerli. Seguiva, accanto, la camera così chiamata degli armadi, per due grandi armadi dove stavano tutte le suppellettili fuori uso e altre che servivano solo in determinati casi, in questa camera dormiva la cameriera, mantenendo un odore particolare di calze usate e di olio che ancora risento.

Diventato più grande non dormii più nella stanza dei miei genitori, ma in quella dove era l’ufficio di mio padre, avendo potuto trasferirlo in una stanza a pianterreno. In quella stanza potevo chiudermi dentro, sulla porta avevo messo un cartello con scritto: «Beata solitudo, sola beatitudo». Mio padre mi aveva comperato un bel letto bianco e un armadio anche bianco, avevo voluto anche una sedia del tipo Raffaello, ed egli accontentandomi sorrise al mio estro. Avevo il mio tavolo, avevo una chitarra che invano cercai di imparare a suonare e dalla finestra vedevo un’altra di fronte, dove una ragazza stava sempre intenta a stirare, ma rispondeva ai mici baci che le mandavo per l’aria. Quella stanza tutta per me era diventata come un guanto aderente alla mia mano, riceveva il mio calore ed essa dava a me il suo. Da ultimo v’erano le scale, che di primavera venivano lavate, come per una cerimonia purificatrice, e allora si spalancava del tutto la porta d’ingresso. Salivo quelle scale sempre saltando a più gradini e nel ritornare da scuola, dopo gli esami superati, gridavo a mia madre il buon esito ottenuto.

Così era la mia casa, con le voci di noi tutti, coi nostri momenti felici e con quelli tristi, col risuono dei passi, col variare dei raggi del sole attraverso le finestre, col suo fondersi a me, più che al corpo, alla mia anima crescente. Così si arrivò fino al tempo della prima guerra e io dovetti lasciarla per andare soldato. La mia giovinezza e gli avvenimenti di guerra mi distrassero da ogni rimpianto, se venivo qualche volta in licenza la gioia di ritrovarla era solo per potere dormire nel mio buon letto e nella mia stanza. Ma nell’ottobre del 1917, mentre ero nell’Alto Isonzo, una notte mi sognai che dopo una grande marcia ero giunto alla mia città, le cui porte delle mura di cinta erano chiuse e per entrare dovetti valicarle arrampicandomi tra gli arbusti e arrivato alla mia casa anche questa porta era chiusa e non fu possibile entrare. Stranamente il sogno si avverò un mese dopo, quando con la battaglia di Caporetto, mi ritirai fino alla mia città: le porte erano vigilate dai carabinieri e quella della mia casa, chiusa, perchè i miei genitori erano scappati. Per entrarvi dovetti penetrare nel giardino, fare scardinare un’imposta e allora fui dentro in quelle stanze fatte lugubri e deserte. In cucina trovai la tavola ancora apparecchiata per l’ultima cena prima che i miei se ne fuggissero, coi piatti lasciati sporchi. La guerra mi aveva inselvatichito e non mi lasciai prendere dai sentimenti, ma trovato provviste di viveri, fatte da mio padre in previsione di carestia, con altri ufficiali, quasi ogni sera vi si facevano allegri banchetti e aprivamo le bottiglie della mia cantina facendo saltare il collo con la baionetta. La città fu bombardata, ritornando a visitarla dal fronte scrissi ai miei genitori: — Ho trovato la casa con i seguenti vetri rotti: quelli del corridoio tutti e i telai pure divelti, quelli della sala d’entrata, quella della lastra della porta del tinello che mette nel giardinetto, e qualche altro qua e là, per il resto nessun danno. Le bombe sono cadute anche nella piazza, ma senza esplodere.

Cannoni austriaci della Prima Guerra mondiale – fonte: Wikipedia

Appena terminò la guerra scesi dal Grappa per rivedere in quali condizioni era la casa e così scrissi a loro ancora : — Ieri l’altro sono andato col mio attendente a mettere un poco in ordine la nostra casa. Ho fatto buttare via tutti i vetri rotti, ho fatto sbattere i sofà. Ho visto la roba che è in camera degli armadi, i topi vi girano, ma per avere rosicchiato coperte, materassi: questo niente. Presto, presto tutto ritornerà a posto, vedremo ancora, come prima, quelle belle tavole che la mamma ci sapeva apparecchiare così bene. Dio sa che impressione ci farà sederci a tavola in tinello come un tempo e mangiare quei risotti al pomodoro: come di essere risuscitati. — Infine la casa potè essere riaperta e i miei genitori ritornarono a viverci la loro vita, ma io rimasi ancora via per le mie avventure dei vent’anni. Mio padre dopo tanti anni di lavoro e di economie essendogli stata offerta l’occasione di acquistare quella casa, non ebbe incertezze: prevedendo di morire prima di mia madre, la volle acquistare proprio perchè ella dovesse avere la sicurezza di una casa sua, dopo la sua morte. Con questo acquisto si ebbe anche un altro pezzo di giardino e una piccola casetta attigua, alcuni magazzini sottostanti, e qualche altra stanza. Era insomma una grande casa e mio padre volle farvi tutte le comodità: venne messo l’impianto dei termosifoni, si ebbe una stanza da bagno, avevano affittato i magazzini e la piccola casetta, con la soddisfazione di ricevere gli affitti a ogni primo del mese. Quell’epoca, appena finita la guerra, fu per loro la vetta della felicità suprema della loro vita. Noi due, loro figli, usciti salvi da ogni pericolo, tutti i mobili e le care cose intatti, quella casa diventata di loro proprietà e un avvenire di pace, sebbene a rilento, erano gli elementi principali di questa felicità. Ma non durò molto, sette anni dopo moriva mio padre. La sua morte non avvenne in questa casa, nella sua stanza che divideva con mia madre, nel grande letto di noce. Morì sul lago di Garda dove erano andati in cerca di aria buona, dopo una lunga malattia. Così fu meno triste per mia madre il ritornare a dormire in quella stanza, sebbene ne risentisse per lungo tempo il vuoto. Gli anni passarono, intessendo altri nuovi sentimenti, sempre in rapporto alle stanze. Quando ritornavo dai viaggi il mio passo dalla stazione volava per i marciapiedi, come su tappeti scorrenti, verso la porta della casa, suonavo forte il campanello per segnalare il mio arrivo, salivo di corsa le scale, come quando ritornavo promosso dalla scuola, e nel corridoio ritrovavo subito mia madre pronta a riabbracciarmi.

Quando feci un lungo viaggio in Oriente, alla mia partenza, ella volle che per mia protezione si accendesse un lumino a olio davanti a un’immagine della Madonna, sopra alla porta della cucina. Quel lumino rimase acceso per tutti i sei mesi di viaggio e al ritorno venne spento con gioia. Ma quella casa viveva in noi oltre che per il suo spazio e per le nostre abitudini, in rapporto sempre al passare degli anni, anche per i rumori e per le risonanze. Il fiume che scorreva accanto alla piazza dava movimento a un mulino e per tutti gli anni fino alla guerra, lo scroscio di quelle acque che scaturivano dalla chiusa giungeva perenne fino alle nostre stanze e si può dire che alla sera ci induceva al sonno come una cantilena. Poi il mulino venne abbattuto e pure nel silenzio delle acque sembrava sempre di risentire la loro vecchia voce. Il suono delle campane dalla chiesa vicina ci fissava le ore, il richiamo di un fruttivendolo ambulante, che sempre passava alla stessa ora del mattino, penetrava anche nella casa, poi un giorno non si intese più; forse quel venditore era morto. Altro richiamo era quello di uno straccivendolo, che passava nel pomeriggio; riecheggiavano quelle parole:
«Stracci, ossa, ferrovecchio da vendere». E subito lo si vedeva come davanti a noi alto e ossuto nello spingere il suo carrettino. Anche questi poi si tacque e scomparve. Dalla mia stanza si sentiva invece una ragazza che abitava la casa vicina cantare gaiamente nel mattino mentre assestava la sua stanza e poi vi erano gli inquilini di sopra dei quali sentivamo i passi quando si era a tavola. Mio padre aveva voluto sostituire il vecchio campanello con uno elettrico e questo squillo, conforme al tocco, ci segnalava le visite. Vi era quello del fattorino per i telegrammi, che ci allarmava sempre, quello del postino, quello del lattaio, quello degli amici abituali e soprattutto il mio che era sempre reiterato. La porta di ogni stanza e le imposte delle finestre, quando si schiudevano, aveva ognuna il suo cigolio che si imprimeva in ognuno di noi. Poi nella notte si sentivano i tarli perforare i vecchi mobili delle stanze e qualche topo rodere nella dispensa, ma d’estate, al mattino e al tramonto, l’alto stridore delle rondini le roteava attorno, simile a un inno inebbriato.

Foto di PxHere – CC0 Public Domain

Gli anni passarono, noi avevamo consapevolezza di tutto questo sostegno della casa, come delle ossa del suo corpo, ma un giorno venne che queste sue ossa risultarono scoperte dalla sua carne. Erano passati anni di pace ma guerra era ritornata per la ricca stupidità degli uomini, i quali sembrano non sapere quanto breve sia la nostra vita, quanti gli aspri dolori e malattie e contrarietà e obblighi di lavoro e di fatica la rendano assai triste, quanto anche la brevità della buona stagione congiuri a limitarla persino nel godimento naturale. Eppure vi sono sempre a ogni epoca impazziti uomini di governo, in questo vecchio vaso in frantumi che è l’Europa, che pretendono di passare all’immortalità con una guerra benefica. Nessuna guerra è stata mai benefica, anche se furono raggiunti i nobili ideali che la ispirarono. Esiste un giuoco demoniaco, per cui da ogni guerra, anche i vincitori risultano sempre sconfitti da qualche imprevista situazione che si è determinata da essa. Ma l’ammonitrice esperienza non serve mai nè per i governi, nè per i popoli e come un male inestirpabile, queste guerre si rinnovano sempre, mantenendoci nella barbarie. Da principio, la nuova guerra sembrava lontana, sembrava proprio fosse l’inversa della precedente e dovesse colpire le città del Mezzogiorno, invece delle nostre, ma poi la minaccia fu anche su queste. Per sicurezza ci eravamo trasferiti in una mia piccola casa di campagna. Ogni tanto andavo a vedere la casa abbandonata, nel piano di sopra vi avevano messo degli sfollati dalle città del Mezzogiorno che erano state già bombardate. Un giorno mi accorsi che costoro avevano buttato nel giardinetto barattoli, carte e tutte le immondizie, vanamente andai da loro a dire che non credessero di trovarsi a Napoli e non continuassero più a insozzare i miei fiori. Pochi giorni dopo una squadriglia di aviatori americani, masticando indifferenti la loro gomma abituale, scardinarono dalle fondamenta la mia città e con essa la mia casa che divenne un cumulo di rovine.

Bombardamento di Treviso – fonte: Wikipedia

Li avevamo visti passare piccoli e luminosi nel cielo primaverile, poco dopo dalla città si sollevarono immense fumate di polvere e incendi tra i crolli, le case sfasciate si frammischiarono le une alle altre, mentre turbini di vento disfacevano le chiome alle donne atterrite negli angoli di quelle vacillanti e i morti si dissanguavano nel loro ultimo tepore. Subito presi la bicicletta e andai in città a vedere. Avvicinandomi trovai gente che scappava, a una svolta su dal verde di un campo vidi ancora la torre e i campanili della mia città, ma fumo e fiamme si alzavano da più parti. Mi affrettai, alle prime case tutto era intatto, le strade erano deserte, poi incontrai gente che fuggiva spingendo carretti con roba di casa accatastata sopra. Subito dopo la strada era sbarrata dalle macerie di una casa, deviai per un’altra. Tutto un gruppo di case era stato squarciato e si vedevano gli interni delle stanze. Un rifugio era stato colpito e i soldati vi scavavano lenti. Alcuni corpi inerti erano stesi per terra, coperti al volto da stracci e donne piangevano strette le une alle altre. Andai avanti, volevo arrivare alla mia casa. La strada era di nuovo bloccata da macerie, presi la bicicletta in spalla e passai oltre, una casa bruciava, alcuni soldati mi volevano impedire di proseguire: «Vado alla mia casa » gridai con furore e mi lasciarono passare. Intere case non esistevano più, quando giunsi nella piazza, cumuli di pietre la occupavano quasi tutta fino a franare nel fiume e, invece della mia casa vidi gli alberi del giardino che stava dietro. Salii sul pietrame, barcollai, caddi, non era possibile proseguire, vicino stavano scavando, sembrava che qualcuno ancora vivo fosse sotto le macerie. Ripresi la bicicletta, attraversai il ponte sulle acque torbide di detriti. Passai ancora per strade squarciate tra case che scoprivano i loro interni. Non riconoscevo più la mia città. Fui di nuovo in campagna tra il verde immutato e splendente, tutto era tranquillo, sereno nel sole primaverile. A mia madre che mi attendeva ansiosa, dissi solo che la nostra casa era stata resa inabitabile. Nella notte non potei prendere sonno, rivedevo nitido quello che avevo visto. La mia casa non esisteva più, la mia città era irriconoscibile. Al mattino non potei tollerare la serenità della campagna, era festa e i contadini andavano tranquilli alla Messa. Entrai nel mio orto dove coltivavo le fragole. Avevo alcuni giorni prima osservato che un formicaio era sorto tra esse facendovi danno. Ne ero stato indispettito e con la zappa avevo, allora, sconvolto suscitando un fermento infrenabile tra le formiche. Poi vi avevo gettato braci ardenti e cenere, molte ne avevo uccise, ma altre affluivano sempre in moltitudine. Per qualche giorno avevo continuato con accanimento il getto delle braci, sperando emigrassero altrove. Ora mi accorsi che il formicaio sopravviveva e riaccomodate le aperture, alcune formiche nere e lucenti vigilavano come scolte. Per un attimo riebbi l’impeto di sconvolgere tutto ancora, ma mi trattenni: anche quella era una casa. Ritornai subito in città, giunsi dove era la mia casa, valicai le macerie, solo il piccolo giardino era intatto: rividi gli alberi che vedevo dalla finestra della mia stanza. I passeri che cinguettavano tra i lauri e le grondaie cinguettavano ancora tra quelli e le macerie. Scorsi spuntare tra i mattoni e le travi la tastiera bianca del letto dove avevo dormito da ragazzo, quello che mi aveva comperato mio padre. Poi mi accorsi della poltrona, dove mia madre si sedeva a lavorare accanto alla finestra, schiacciata, riemersa come da un naufragio, e frammenti dei bei piatti azzurri che si usavano nei giorni di festa. Tra i rottami alcuni gradini delle scale erano scoperti, quei gradini che la cameriera lavava con cura alla prima giornata di bel sole, dopo l’inverno, e che salivo col mio passo felice al ritorno dalla scuola e dai viaggi. Raccolsi un libro, un mio libro intatto, la Bibbia e sotto a una trave il mio aquilone di tela, che messo sopra un armadio non avevo più rivisto da tempo. Per alcuni giorni mi misi a scavare tra quelle travi e quelle pietre sconvolte, ma era proprio come scavare in una tomba. Ritrovai la tavola per stirare sopra alla quale da ragazzo cantavo la Tosca, gli anelli di ferro coi quali facevo le prime sollevazioni del mio corpo, le gambe della tavola del tinello quella dei nostri pranzi solenni e che aiutavo ad aprire, lo scrittoio di mio padre, qualche sedia, ma tutto il resto non era che informe rovina. Erano arrivate le rondini e avevano ripreso a roteare stridule nel cielo che era sopra alla casa.

Foto di PxHere – CC0 Public Domain

Questa è la storia della mia casa, ma non sarebbe finita. Il seguito è forse ben più triste, ma entra in un tono mediocre che minaccia di portarmi all’odio verso gli uomini mediocri che compongono la società attuale, e mi limiterò a riassumere. Finita la guerra, come avvoltoi su di un cadavere, i geniali architetti della nostra epoca, e i più infrenabili speculatori, si precipitarono sull’area della mia casa, che per essere centralissima nella città, fu considerata delle più attraenti. Per motivi tutti assurdi venne deciso che su di essa dovesse sorgere un grande edificio per accogliere la Borsa Merci, la Camera di Commercio, l’associazione degli industriali e dei commercianti, l’Automobil Club, l’Ente provinciale per il Turismo, l’appartamento per il presidente della Camera di Commercio e per il suo segretario. Un giorno con decreto del Presidente della Repubblica, la Camera di Commercio fu autorizzata a fare l’acquisto della mia area, ma forti del fatto che la costruzione del futuro edificio rientra nel piano di ricostruzione e quindi viene considerato di pubblica utilità, mi imposero un prezzo ridicolo al confronto di aree nella stessa posizione. Con quel prezzo non si sarebbe potuto più riavere una casa. Non entro nei dettagli che sono tutti noiosi, e soprattutto nefandi per una società che pone come sua base il diritto della proprietà e quindi anche il rispetto della personalità umana. Dico solo che mia madre e io da dieci anni in attesa di abitare in città abbiamo passato l’inverno orrendo nella misera casa di campagna, lontani dal medico, da ogni conforto, con la neve che ci separava dal mondo. Giorni addietro alla posa della prima pietra dell’edificio che sorgerà sulla nostra area confiscata, venne il Vescovo a dare la benedizione come per sanare ogni sopruso.

Ora una grande escavatrice ha spianato tutto il piccolo giardino della mia infanzia, ultimo simulacro della casa che ancora esisteva, e la terra e le ultime pietre vennero trasportate in una zona paludosa fuori dalla città, dove un altro illuso di avere la sua casa, sta costruendovi sopra la propria casa.

Giovani Comisso

Pubblicato alle pagg. 13/14 de Il Mondo del 15 giugno 1954
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale

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