“La mia Rovigo” di Giancarlo Marinelli

Ci sono due rumori in questa città. Anzi, solo uno. Perché il primo, quello del fiume, gli uomini ce l’hanno dentro. Basta che chiudano gli occhi per sentirlo. L’altro viene dal fondo, dalla schiena dell’urbe.

Lo sferragliare d’un treno che passa. Treni notturni. Toni Cibotto non se ne perdeva uno. Dal suo palazzaccio in Viale Trieste veniva come ipnotizzato. E allora andava sulla panchina in faccia ai binari. Toscanello e cioccolato. Come al cinema. Fermo immobile.

“Una città di provincia diventa del mondo perché solo lì, da lontano, senti i treni passare”.

Voglia di fuggire. Ma Fellini non è mai arrivato a Roma. E Cibotto non è mai arrivato nemmeno a Ferrara. Oltre Rimini, c’èra solo l’immaginazione. Oltre Rovigo, c’era sola la fantasia e la Vaca Mora, una littorina tartaruga a vapore.

Strano: de Pisis non voleva mai disegnare un treno.

E però Toni glielo chiedeva sempre: “Pippo, perché non lo fai? Sarebbe un capolavoro”. Non gli rispondeva de Pisis, ma Cibotto lo sapeva.

Il treno era la loro giovinezza. Il sogno della loro giovinezza. Metterlo su tela voleva dire arrendersi al tempo, uccidere quel sogno.

E però, dinnanzi alla sua ultima personale, il narratore di “Scano Boa”, guardando quelle struggenti nature morte, vasi di fiori su un davanzale, spicchi di vita oltre le finestre d’una clinica, si illuminò:

“Eccolo il treno. E’ là in fondo, oltre quella siepe. Lo senti il rumore?”.

E basta fare un giro lungo il Liston, Piazza Vittorio Emanuele, e sì, il Teatro Sociale, l’Accademia dei Concordi e Palazzo Roverella, sono architetture perfette, ma chi se ne frega, non basta la bellezza a scacciar la depressione, anzi è proprio dalla perfezione che nasce la bestia.

Per gli altri, persino secondo un’etichetta politicastra, Rovigo e queste terre sono zone depresse. Idiozia terrificante, a meno che non ci si riferisca a quella depressione che segue ogni sforzo creativo sovrumano.

De Pisis era depresso, Van Gogh era depresso. Rovigo è depressa nella stesso modo.

Disegna instancabilmente fantasie dai rumori, affreschi dall’umidità, traiettorie dalla nebbia. Si svuota e si riempie in uno sgobbo incessante, come i suoi caffè.

L’ha scritto Toni nella sue “Cronache dell’Alluvione”. Anzi, della Depressione.

A chi non ci conosce sembriamo ad un tratto lontani, distratti, quasi dormienti ad occhi aperti. Ecco, in quei momenti lasciateci stare, non provate a scuoterci.

Stiamo inseguendo un sogno. Di notte, un treno che passa.

Giancarlo Marinelli

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