La montagna di Bortoluzzi: “Comunità per sopravvivere”

Finalista al Premio C.A.I. Leggimontagna 2015, finalista al Premio della montagna Cortina d’Ampezzo 2016, vincitore del Premio Gambrinus-Giuseppe Mazzotti 2017 nella sezione “Montagna: cultura e civiltà”: Antonio G. Bortoluzzi, con il suo romanzo “Paesi alti”, si conferma testimone di una civiltà, quella montana del secolo scorso, narrata con vividezza, senza pietismi o falsi moralismi.

Per la stesura del romanzo ha raccolto molte testimonianze orali. Quanto rimane, ai nostri giorni, dell’antica abitudine alla narrazione orale?

“Vi è una grande tradizione nel tramandare a voce le storie, la vita, quello che è accaduto. E parlando di montagna, secondo me, la figura del montanaro solitario e asociale è più uno stereotipo che una condizione generale: gli eccentrici ci sono in ogni parte del mondo, ma secondo me nei paesi alti ce ne sono meno, perché era ed è indispensabile raccontare, parlare, imparare; se non altro per sapere di una via, di un torrente, di un passaggio sicuro in un ambiente naturale che cambia in modo repentino.

Per quanto riguarda “Paesi alti”, prima di scrivere una sola parola di questa storia, che appartiene alla mia famiglia e che avevo nel cuore da tanto tempo, ho trascorso un anno a chiacchierare con i vecchi: i loro racconti hanno arricchito di particolari straordinari le mie prime esperienze di vita negli anni ’60. Io ho avuto la fortuna di vivere con chi ha fatto la Prima Guerra sulle Tofane, la ritirata di Russia, la guerra partigiana. L’oralità oggi sembra sostituita da narrazioni audio, video, immagini e testi.

Quello che vedo è un grande bisogno di raccontarsi, e questo forse si è perfino accentuato rispetto a buona parte del ‘900. Rimane un problema grande riferito all’oggi: prima devono accadere le cose nel mondo delle persone e poi ce le possiamo raccontare. Un accadere solo virtuale, strutturato in pixel, anziché nei nostri corpi e nelle nostre menti, non ci fa bene.”

Rive, un posto ripido, una località senza il cartello che ne indichi l’inizio e la fine. Potrebbe diventare l’emblema dei paesi di montagna?

La montagna era diversa, ma la povertà uguale” ha detto il professor Franco Viola pregiatissimo giurato del Premio nel suo accorato intervento su “Paesi alti”. Ho avvertito un brivido in questa specie di fratellanza, in questo riconoscersi pur venendo da località montane e anni diversi. Rive, che ho chiamato anche Curva Casàl in “Vita e morte della montagna”, è il luogo dove sono nato e davvero è un borgo che non ha la tabella con il nome.

Ma io so le vite e le storie di tutte le persone che ci hanno vissuto e credo sia importante raccontare oggi quella civiltà, perché questi luoghi dimenticati, della periferia montana, diventino una memoria viva e feconda.”

“Una cosa l’aveva capita della vita, fare tutto da soli è più fatica. Sempre.” La solidarietà, nel mondo del protagonista Tonìn, aveva un ruolo fondamentale. È ancora così nelle comunità montane?

“La comunità nei borghi di montagna è il centro da cui muovo. Molti autori che in questi anni si ispirano alla montagna come natura, bellezza, perfino significato individuale dell’esperienza della scalata o della camminata, hanno trasferito sui monti una specie di individualismo estetico e mistico: questo ha indubbiamente i suoi lati di valore (nel rispetto della natura, nella presa di distanza dalla modernità pazza, nella conoscenza di se stessi), tuttavia per me la questione fondamentale è un’altra: in montagna le persone stavano insieme, nei borghi e nei paesi, per farcela contro la fame, le avversità della natura, la fatica della vita di ogni giorno.

C’era una grande voglia di comunità e il legame, il riconoscersi, il sentirsi parte inscindibile di un luogo era la condizione stessa dell’esistere. La solidarietà era un forma d’educazione necessaria e richiedeva grandi sacrifici, perché era una reciprocità povera e misurata. Incontro tante persone che vivono in montagna e che custodiscono ancora le sementi preziose del vivere insieme e dell’attenzione alla comunità.”

La montagna e la natura danno e tolgono. Tonìn le paragona a Dio:“come lui vedono tutto, sanno tutto, c’erano e ci saranno”. C’è una visione panteistica nel suo romanzo?

“C’è un motivo per cui nelle storie che scrivo metto i nomi veri delle montagne e dei corsi d’acqua e non quello dei borghi e delle persone: i paesi durano più dei singoli individui e le montagne durano più dei paesi. Chi vive in montagna è in continua relazione con forze maestose e difficilmente governabili. Di solito non è affetto da quella specie di superomismo che toglie Dio per metterci un io supertecnologico che crede di governare e godere del mondo a suo piacimento. Ci potrebbero essere tracce di una visione panteistica, per cui Dio è il tutto, e forse in Tonìn, che ha vissuto negli anni ’50, era ancora forte l’immersione in riti e usanze ataviche.

In un sito archeologico in Alpago, intorno ai 1000 metri di altitudine, datato 2.500 anni fa, sono state rinvenute 13 sepolture femminili espressione di una civiltà prospera, che cremava i defunti, aveva commerci con l’Est e forse era matrilineare. Solo dopo sono arrivati i Romani, il Cristianesimo,la Rivoluzione francese e noi.”

La crocefissione, il profumo dell’incenso, il colore del mantello della Madonna: sono riferimenti a una religiosità che viene espressa quasi con pudore. Non solo dal protagonista, ma anche dagli altri personaggi.

“Il giovane Tonìn è affascinato dagli aspetti magnifici e iconografici della cristianità come il miracolo, la passione, mentre la comunità ha un atteggiamento soprattutto pratico nei confronti della religione. Non vi era nessuna cultura laica alternativa eppure non vi era cieca obbedienza: per Teresa, la madre sofferente, il mondo era diviso tra la povera gente e quelli che comandavano: i carabinieri, i finanzieri, il sindaco, il prete. L’autorità religiosa era rispettata ma senza fanatismo.”

La povertà, nel romanzo, è tanta e diffusa. La si combatte con il lavoro duro, la dignità, l’onore. C’è una cosa che Teresa teme ancora di più: essere una morta di fame, perdere la fiducia degli altri perché il figlio ha rubato. 

“La famiglia, che vive nel borgo di montagna, è povera ma non misera: il reddito principale deriva dal lavoro stagionale del padre muratore e da quel po’ che ricava dalla terra. Ma ci sono dei beni immateriali che custodisce con più determinazione. Per esempio l’onore: chi ruba perde la fiducia della comunità per sempre e questa colpa può ricadere sui figli. E la dignità, che significa non piangersi addosso mai e fare il meglio con quanto si ha a disposizione.

Sui prati e in casa vestivano alla buona e si lavavano come riuscivano, però, quando scendevano in paese, indossavano la camicia migliore, magari con il collo rigirato, ma pulita; anche questa è dignità e rispetto di sé e degli altri.”

C’è un rapporto tra la vita dura della comunità e la laconicità dei suoi abitanti?

“Sì. E la parola concisa era a servizio del racconto, dello scherzo, perfino del gioco di parole. Oppure dedicata all’educazione perentoria dei figli, cui seguiva, a breve giro, la punizione corporale se le poche parole non pareva fossero comprese. Non si parlava invece dei sentimenti, delle paure, dell’affettività. Però questo vuoto credo fosse stemperato da una autentica cultura del fare le cose, del prendersi cura delle persone, degli animali, dei poderi.

Persone abituate al lavoro fin dalla tenera età avevano una relazione concreta con il mondo e gli altri, nel bene e nel male. La predica veniva accettata dagli adulti solo nella sede appropriata, la chiesa.”

Ci sono dei passi in cui Tonìn immagina di essere in guerra, altri in cui i riferimenti alla Prima e alla Seconda sono espliciti. Sembra che combattere la povertà e le avversità della vita sia come combattere contro austriaci e tedeschi.

“Teresa educava il figlio come una specie di piccolo soldato: niente piagnistei, lamentele, sentimentalismi. Il ‘900 è stato il secolo delle due Guerre Mondiali e questa madre le aveva vissute entrambe e da queste vicende era stata formata. Secondo lei questo modello educativo poteva forgiare e proteggere il ragazzino e rendergli salva la vita. La loro esistenza non prevedeva di avere qualcosa dal Comune, dallo Stato o dal Cielo, ma dal lavoro,dal costruire e ricostruire giorno per giorno, fare il meglio possibile e risparmiare su tutto. E questa era, se non una guerra, una dura battaglia quotidiana.”

La sua Trilogia della montagna (Cronache dalla valle, Vita e morte della montagna, Paesi alti) è stata oggetto di tesi di laurea. Come interpreta questa attenzione per il suo lavoro?

“Lo studente, e ora dottore e amico, Massimiliano D’ Alpaos, ha portato i miei libri a Ca’ Foscari, ne ha discusso con i professori, poi è venuto a trovarmi e abbiamo ragionato insieme. I temi che lui ha colto nella Trilogia sono la terra, l’oralità, la comunità, la trasformazione del mondo contadino, il ruolo della donna, il rapporto con gli animali e gli oggetti materiali.

Interpreto questa tesi di laurea come una preziosa attenzione a quello spazio di libertà che hanno i libri di narrativa nel raccogliere e far conoscere le storie.

Io ho iniziato a lavorare a 16 anni, ho studiato poco, però mi è sempre piaciuto leggere e nei libri ho trovato mondi, idee nuove, parole giuste per dire le cose. Che qualcuno tragga qualcosa di utile dai miei libri lo considero un onore immenso.”

Ha di recente vinto il Premio Gambrinus – Giusppe Mazzotti nella sezione “Montagna: cultura e civiltà”. Un suo ricordo di Mazzotti.

“La statura morale e intellettuale di Bepi Mazzotti è grande e lo testimonia l’affetto e la stima che ancora oggi riveste la sua figura di studioso e appassionato del mondo che incontrava, raccoglieva, cercava via via nella vita. Riguardo alla montagna consiglio di leggere oggi un libro del 1931, “La montagna presa in giro”, per vedere come gran parte degli atteggiamenti stigmatizzati da Mazzotti siano ancora diffusi.

Di quel libro ricordo una pagina in cui l’autore fa riferimento a una condizione necessaria per andare in montagna: l’educazione. Quindi non tanto i record, i materiali, le sfide,le stramberie, ma un accostarsi con delicatezza, conoscenza, rispetto.

La montagna non può essere un parco giochi, un circo equestre o un set cinematografico,ma un luogo di cultura e civiltà, che con grande merito, il Premio Mazzotti, sottolinea da 35 anni.”

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