Giovanni Comisso - L'alpino solitario

La solitudine di un alpino nella moltitudine di un’adunata

Lo avevano avvertito che vi sarebbe stata una grande festa di vecchi Alpini. Soprattutto avrebbe voluto andarvi dopo anni di vicende dolci e amare, quelle che la vita offre allontanandosi dalla giovinezza, per ritrovarsi con i suoi compagni della vita militare. Ma era incerto di andarvi.

Nato tra le montagne, passato il periodo più intenso della sua giovinezza tra le truppe alpine, addestrato sui nevai o in vasti boschi, destinato come maestro di scuola nell’ultima borgata di una valle, ora che aveva raggiunto i 30 anni, comprendeva quale era stata l’influenza dei monti solitari su di lui.

Il cielo purissimo rende potente il corpo. Anch’gli, come i suoi soldati, era un colosso perfetto destinato alle fatiche delle marce, delle arrampicate, temprato nel sudore, scalfito è indurito tra ghiacci e rocce, ma non aveva goduto dell’amore facile è libero come gli uomini della città. Da giovinetto nel suo villaggio, da ventenne nel suo gruppo alpino, da uomo, ora, sempre lo aveva perseguitato la solitudine dei monti e questo freno aspro. Comprendeva perché i suoi soldati si ubriacavano appena scendevano a valle. Era una vendetta contro quel freno; e quando si buttavano sulla branda rimanevano impietriti nella sbornia.

Se avessero voluto, avrebbero trovato facili e liberi amori, ma invero la solitudine li aveva intimoriti nel modo di rivolgere la parola a una donna il loro estro sarebbe stato quello di prenderle con la violenza, senza un sorriso senza una parola. Consapevoli della timidezza che non volevano dimostrare e consapevoli dell’estrema possibilità della violenza, preferivano vivere come nella solitudine a cui si erano ormai plasmati e per non sentirla ancora si ubriacavano. Sui monti, la fatica e a valle, il vino: per non sentire quello che era aspro freno. E sulle cime come al piano era sempre ad accompagnarli il canto che di continuo trattava d’amore, amore per donne bionde o more, ideate alla maniera delle apparizioni, amore per i loro monti, per le stelle alpine, per la propria divisa, per il proprio cappello, per la penna nera, per quanto li circondava diventato reliquia. Poi ognuno avrebbe trovato la sua donna da sposare, ma la giovinezza e i vent’anni se ne erano andati. Per questo egli era incerto di andare a quella grande festa dove si sarebbe trovato col coi compagni di quel tempo.

La vita di maestro nella borgata montana continuava in lui la solitudine delle intere stagioni passate tra nevi e boscaglie. Era difficile formarsi una famiglia con lo stipendio esiguo. Aveva incontrato la sua donna, ma abitava in una città lontana, e il loro amore era un’ininterrotta trama di lettere, lunghissime le sue e assai più succinte quelle di lei, che si scusava sempre di affrettarsi a chiudere, perché doveva andare all’ufficio e perché aveva del lavoro straordinario da fare.

Certo si sarebbero sposati quando avrebbero messo da parte il denaro per sostenere le spese dell’impianto di una casa, pur piccola. La sua vita era perseguitata dal freno aspro, e verso questa festa si sentiva intimidito come i suoi soldati, quando scendevano a valle.

Non voleva andarvi, ma quando la corriera speciale che doveva accogliere tutti gli alpini del luogo giunse alla borgata, vennero in parecchi alla sua casa e, senza lasciarlo obiettare, gli misero in testa il suo vecchio cappello, che teneva appeso, e di forza lo portarono con loro.

Durante il viaggio cantarono sempre le loro canzoni e se smettevano, era per bere il vino portato nel sacco e quando finì, per bere quello delle osterie della strada. La città tumultuava di alpini vecchi e giovani. A gruppi erano nelle osterie a bere e a cantare, a gruppi andavano per le strade.

Rimase coi compagni di viaggio fino alla sera, poi nel vortice della folla si distaccò e li perse. Rimase solo e per un momento ne fu felice, la città gli parve tutta sua. Veniva la notte pensò ad un albergo. Riescì a trovare una stanza libera e buttò il suo sacco sul letto con una vaga speranza: forse avrebbe trovato quell’amore facile e libero che le città possono offrire, e ritornò per le strade.

Con la notte i gruppi di alpini erano diventati più frenetici di canto, andavano e venivano per le strade dolcemente in salita, presi a braccio, col cappello sbandato e le penne o corte o lunghissime che si incrociavano come spade.

Senza saperlo anch’egli si mise ad imitarli nell’andare da una strada all’altra, ma non cantava. E non aveva più bevuto, dopo l’arrivo: non voleva bere. Solo, agile nel passo, col cappello abbassato sugli occhi, camminava tra un gruppo e l’altro, sentiva il calore del loro canto, il fiato di vino e sgusciava via, per infiltrarsi tra altri gruppi e uscire ancora. Andava di ritornava.

Nella piazza vennero improvvisate le orchestrine e quei gruppi di alpini si misero a ballare: ballavano tra compagni. Le ragazze come spaurite da questa specie di valanga d’uomini, tutti possenti, anche quelli che avevano i capelli grigi, se ne stavano a guardare nascoste dietro le spalle d’altri e fuggivano subito aspettandosi di essere prese da qualche Alpino che ballava da solo, fissando la folla per scegliersi la compagna.

Deviò fuori della piazza, camminò sotto i portici, sempre solo, sempre in avida attesa, ma dovunque non erano che gruppi di alpini che cantavano le loro canzoni d’amore per le donne bionde o more, d’amore per i loro monti, per le stelle alpine, per la propria divisa, per il proprio cappello, per la penna nera. Egli lo avrebbe sbattuto contro terra, il suo cappello, se non avesse servito ad adombrare il suo sguardo ansioso. Infine decise di ritornare all’albergo e di rinchiudersi nella sua stanza. Accese la luce e il suo sacco stava sul tetto come uno scherno mostruoso. La finestra era aperta e si affacciò per respirare l’aria.

(fonte: snappygoat.com)

Allora si accorse che la luce sopra il letto proiettava sulla parete della casa di fronte la sua ombra esatta, nitida, riconoscibile. Mosse un braccio e lo vide muoversi; aperse le dita e le distinse una per una. La sua ombra era più grande e se ne compiacque, gli parve di essere ancora più forte. L’impressione era appena avvenuta, che vide sulla stessa parete accendersi un riquadro di luce proiettato da una finestra attigua alla sua, e poco dopo si affacciò un’ombra che subito riconobbe di donna. Anch’essa doveva essersi affacciata per respirare l’aria, forse anch’essa si era stancata di quella folla d’uomini, che turbinava di fuori per le strade, soffocante di canti e del calore dato dal vino. Forse anch’essa era sola.

Non la vedeva negli occhi, mosse un braccio verso la sua ombra, e l’ombra del suo braccio si avvicinò a un braccio di lei. Ma non poteva toccarlo. Allora fece il gesto di cogliere un bacio dalle labbra e di porgerglielo: l’ombra della donna rimaneva sempre ferma. Congiunse le mani in atto di preghiera e le rivolse verso quell’ombra immobile come non vedesse nulla. Forse guardava le stelle e non si era accorta. Guardò anch’egli il cielo, ma era oscuro. Tossì, vide l’ombra della donna muoversi e sedersi sul parapetto della finestra. Egli non osava sporgersi.

Ripresi i gesti di desiderio, che la luce proiettava sulla parete. Intese un bisbiglio dalla stanza attigua e poco dopo vide sulla parete dietro all’ombra della donna apparire un’altra ombra, d’uomo, e un braccio protendersi contro la sua ombra, diritto, con qualcosa in mano come volesse con la mano imitare una pistola e subito dopo lo assordò uno scoppio diffuso del cielo e il cielo si cosparse di faville bianche, rosse e verdi.

Fuochi d’artificio (fonte: Wikipedia)

Erano incominciati i fuochi artificiali che chiudevano la grande festa. Si ritrasse, sgomento, allibito, si buttò sul letto accanto al suo sacco e spense la luce, mentre nel vano della finestra apparivano e si addentravano nel cielo, uno dietro l’altro, i razzi che si scioglievano in piogge di vario colore tra gli scoppi e gli ricordavano quelli delle artiglierie da montagna, quando per stagioni intere stava accampato sui nevai o nei boschi ed egli era solo come allora.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul Giornale dell’Emilia del 4 agosto 1953 con il titolo “L’alpino solitario”

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