La vita sulla soglia - Intervista a Benedetta Centovalli

La vita sulla soglia – Intervista a Benedetta Centovalli

Benedetta Centovalli, editor e giurata del Premio Comisso, ha ricevuto un plauso unanime dalla critica sui maggiori quotidiani nazionali per il suo libro “Nella stanza di Emily” (Mattioli 1885 Books, collana 135, 2020). In questo dialogo vengono approfonditi i temi di questa preziosa opera.

L’intervista

Qual è e come è nato il tuo rapporto con Emily Dickinson?

Ho sempre apprezzato la poesia di Emily Dickinson, quando ho approfondito la sua biografia, mi ha colpito la sua scelta di autoreclusione, una scelta che lei matura piano piano fino a diventare una vera e propria clausura. Così è cresciuto in me il desiderio di visitare la sua casa ad Amherst, una casa che lei ha abitato per quasi tutta la vita. Da Amherst poi non si era mai mossa se non per brevi viaggi a Boston, Washington e Philadelphia e sempre con il desiderio di tornare a casa. Per anni ho desiderato di andare ad Amherst e finalmente lo scorso settembre sono riuscita a farlo. E ne è valsa la pena.
Nella Homestead la sua stanza con quattro luminose finestre è una specie di camera delle meraviglie. Il letto, il tavolino da lavoro, il cassettone, il camino, una piccola toilette. La sua mente era a sua volta la stanza dove lei aveva chiuso l’universo intero: animali, piante, fiori e persone. A poco più di trent’anni aveva capito che il perimetro della sua abitazione e poi quello della sua camera le potevano bastare e che ciò che sapeva del fuori le era sufficiente per scrivere (quanti scrittori hanno detto che quello che abbiamo vissuto fino al compiersi dell’età adulta basta per tutti i romanzi che vorremo scrivere). Aveva preferito al rumore della prosa del mondo la solitudine della sua poesia. Quindi tornando alla tua domanda direi che il rapporto con Emily Dickinson è nato attraverso la poesia ma si è consolidato in un luogo e in una particolare postura verso la vita.

Dagherrotipo di Emily Dickinson del 1847

Quando e come nasce questo libro sospeso tra memoir di un viaggio ed esplorazione della tua vita?

Nella stanza di Emily è nato per sollecitazione dell’amico scrittore Filippo Tuena che mi aveva invitato a scrivere un testo per la sua collana Centotrentacinque di Mattioli 1885. In un primo momento avevo pensato ad altro, una galleria di ritratti di scrittori incontrati durante il mio lavoro di editor, ma il despota Tuena mi impone che il testo sia rigorosamente inedito. Nel frattempo vado a New York con l’intenzione questa volta di arrivare ad Amherst e penso che proprio questo viaggio potrebbe diventare quel libro. La poesia di Dickinson, il viaggio ad Amherst, l’esplorazione delle ragioni di questo mio itinerario privato dentro una biografia di un poeta speciale e assoluto sono state un buon carburante. Devo aggiungere che amo le scritture miste, ibride, dove il piano personale e quello finzionale si mescolano, gli zibaldoni insomma, i libri indefinibili e che non possono essere ricondotti dentro un’etichetta.

La Homestead

Nel libro dici di esserti “spogliata di molto e molti e vestita di libri, in modo ossessivo e principesco, in una maniera assoluta e monacale. Una casa biblioteca. E mi sono trovata un lavoro sui libri degli altri.” Vivi davvero principalmente attraverso “le storie degli altri”? E come questo ha modificato la tua esistenza, considerando che il libro è anche un modo per chiarire a te stessa le tue motivazioni?

Lavorare sui libri degli altri è stata ed è ancora la mia professione, così come occuparmi di letteratura contemporanea dal punto di vista didattico e critico. Il lavoro editoriale che ho fatto per più di trent’anni è un lavoro privilegiato e molto interessante, la lettura sia professionale sia privata sono stati un costante nutrimento della mia vita. La giovanile scoperta della passione per la letteratura mi ha portato a cercare un lavoro che potesse mantenermi dentro i confini di questa passione. L’ho trovato nell’editoria, nei libri degli altri e nella relazione con scrittori di cui mi piaceva indagare i percorsi inventivi e le strategie compositive. Ho imparato a stare nell’ombra del lavoro altrui, a volte nell’invisibilità. Non mi è pesato, significava stare dalla parte opposta del tavolo della scrittura, ma sempre a quel tavolo.
In me è stato poi fondamentale l’aspetto cumulativo, ossessivo, rispetto ai libri, cioè la costruzione della biblioteca, la biblioteca della mia vita, un luogo autosufficiente dove potersi chiudere anche per sempre a leggere. Per capirsi leggere per me significa prima di tutto possedere quel libro, la sua fisicità, il contatto fisico con l’oggetto libro, quasi una pratica amorosa. La lettura comincia dal possesso, dal contatto, poi c’è come un corteggiamento che può arrivare a durare degli anni prima della lettura vera e propria.
Ad essere sinceri però ho sempre scritto per parlare di libri, e anche in questo caso parlando dei libri degli altri si scoprono molte cose di sé. Poi si leggono e si amano quei libri che meglio ci raccontano o ci rappresentano o che perlomeno crediamo ci assomiglino.

Si avverte un oggettivo parallelismo tra la tua vita, che definisci monacale, e quella della poetessa di Amherst: fino a che punto le due vite convergono?

Ho trovato nella vita di Emily delle affinità di pensiero su alcune questioni, ma soprattutto ho apprezzato il coraggio di scelte radicali e mai ripudiate, di un’affermazione del diritto delle donne alla propria voce e alla letteratura in un’epoca in cui questo era scarsamente consentito, di essere sé stesse fino in fondo e a qualunque costo, di una consapevolezza del proprio valore e della necessità di non rinunciarvi, di una resistenza totale (I would prefer not to). Ecco alcune cose che mi hanno attratto di lei e che mi sembrano, come la sua poesia, senza tempo, ancora del tutto valide. Poi nella sua lettera al mondo ci sono anche gli animali e le piante, insomma la natura ha un peso non solo simbolico e anche questo ce la restituisce in tutta la sua modernità o forse dovremmo dire lungimiranza di specie.

La stanza di Emily

Perché la tua vita “se ha un centro è intorno alla paura”? Quali sono i tuoi timori più profondi, se puoi parlarne?

La nostra attualità è lo specchio accentuato ma non troppo del mio abituale modo di stare al mondo, della mia fatica nello stare al mondo. La paura della morte si è trasformata in questo periodo nella paura e nella diffidenza verso l’altro. Il bisogno e la paura dell’altro sono i due sentimenti contrastanti che stiamo vivendo. Questa bipolarità non mi ha trovato impreparata. Tornando alla paura e all’oggi, mi pare che l’azzeramento di alcune abitudini possa portare a una loro riformulazione in positivo se solo lo vorremo e ne saremo capaci. In ogni caso considero la paura un motore attivo se non si muta in psicosi, tenendo conto che i confini sono sempre assai labili. La paura ti costringe a conoscerti meglio, non chiude ma apre all’altro con consapevolezza. Poi ci sono tante differenti altre paure, come quella di fallire.
Nella poesia della Dickinson il rapporto con la morte è declinato a vari livelli, Emily cerca di renderla una compagna di strada (la sua abitazione giovanile costeggiava il cimitero) e un amante da sedurre per raggiungere l’Immortalità.

In che modo la “soglia” di Dickinson è la chiave della Letteratura?

Credo che la letteratura sia il discorso della soglia, quel sì e quel no che contiene, l’ambiguità del senso; la letteratura non insegna, non proclama, non si schiera, non consegna messaggi, abita il luogo del possibile. Quel luogo è senza tempo e dura nel tempo. La grande letteratura ci accompagna nei secoli e appartiene solo a sé stessa, nel senso che appartiene alla storia dell’umanità.

Rimanendo sul tema: credi che “la possibilità” sia un paesaggio morale da cui è in grado di emergere la Letteratura?

La possibilità è la soglia: “Io vivo nella possibilità -/una casa più bella della prosa” (P 657). La poesia è la frontiera, la porta, la soglia. Abitare la soglia significa abitare la possibilità, scrivere vuol dire attraversare la frontiera delle parole e accogliere lo straniero che è dentro e fuori di noi. Un attraversamento che non finisce mai di compiersi. La letteratura è questo attraversamento continuo, senza destinazione se non l’attraversamento stesso. “E la mia vita è questa:/allargare le mie piccole mani/per accogliervi il Paradiso” (P 657).

Come definiresti meglio Franz Kafka che nel libro appare come “padre, maestro e compagno, nostro fratello maggiore”?

Considero Kafka lo scrittore che meglio ha raccontato la nostra condizione e il valore assoluto della scrittura letteraria. La sua opera può essere letta come una lunga preghiera a un dio che non ci ascolta e resta nell’ombra. La preghiera di un uomo davanti alla propria paura.

Ne “La stanza di Emily”, verso la fine, parli anche delle poetesse Antonia Pozzi e Luisa Giaconi – una tua lontanissima parente – e la fotografa Vivian Maier: ritieni siano queste le principali somiglianze con la vita di Emily?

Oltre al suo isolamento volontario, l’altro elemento distintivo per Dickinson è l’essere rimasta pressoché inedita in vita. Questo destino è stato condiviso da altri scrittori o poeti, ma in particolare da donne che avrebbero voluto mostrare il loro lavoro ma che per ragioni diverse non hanno potuto o non sono riuscite a farlo, lasciando dietro di sé semi destinati a crescere come baobab. Tra queste figure ho ricordato Antonia Pozzi e una poetessa fiorentina sconosciuta ai più, Luisa Giaconi, che è menzionata in qualche storia letteraria del primo novecento soprattutto perché una sua poesia fu per errore attribuita a Dino Campana. Ho anche ricordato la vicenda della tata-fotografa Vivian Maier, passata alla notorietà alla fine della sua esistenza senza mai saperlo (viveva in povertà e senza memoria rovistando nella spazzatura mentre il giovane John Maloof scopriva per caso il suo “archivio” in un box). Le vie della pubblicazione e della popolarità sono singolari. Emily Dickinson fu editata – “aggiustata” e “addomesticata” – dopo la morte da Mabel Todd e dal colonnello Higginson, colui che in vita non l’aveva voluta pubblicare per la presunta oscurità, l’imprevedibilità, il timbro personale e libero. “Ha detto ‘scuro’. Io conosco la farfalla – e la lucertola – e l’orchidea –/Queste non sono sue compaesane?”, scrive Emily nel luglio 1862 a Higginson, al quale si era rivolta per avere un giudizio critico sui propri versi. Il primo volume con una scelta delle sue poesie fu pubblicato nel 1890 ed ebbe undici ristampe in due anni, fu un grande successo. Da allora Emily Dickinson è diventata uno dei massimi poeti di tutti i tempi, ma solo negli anni Cinquanta del secolo scorso le sue poesie sono state stampate così come lei le aveva consegnate al mondo.

Gli scatoloni nel magazzino di Vivian Maier

Citando Dickinson: “Una parola è morta/quando è pronunciata, /così dice qualcuno./Io dico invece che comincia a vivere/proprio quel giorno.” (P 1212) Credi che questa dichiarazione di poetica possa applicarsi ad altri autori?

Credo che la poesia abbia proprio il compito di rivitalizzare, reinventare, risemantizzare, le parole, le storie, il racconto. Non sempre oggi siamo in grado di capirlo, di capire quanto sia importante usare la lingua della poesia e non quella della prosa, nel significato che Dickinson le assegnava. E per poesia intendo la letteratura tutta. Mentre per prosa qui si intende l’antilingua.

Anche tu, come la poetessa in bianco, hai detto la verità, ma l’hai detta obliqua (Tell all the truth but tell it slant)?

Nel gioco del raccontare e del raccontarsi l’obliquità appartiene alla sfera della verità e del pudore. E aggiungerei – non ultimo elemento – della libertà.


“Nella stanza di Emily” di Benedetta Centovalli

Recensione di Enzo Paolo Baranelli

“Emily Dickinson è una creatura della soglia, ha scelto di abitare uno spazio e un tempo sospesi tra il presente e il futuro, non ha avuto la possibilità di entrare in vita nella Storia ma ha avuto quella di resistere dove tutto può sempre accadere. I would prefer not to.”
In questo splendido memoir, arricchito da appunti di viaggio, Benedetta Centovalli va alla ricerca dell’essenza più profonda di Emily Dickinson. Ci troviamo di fronte a un prezioso capolavoro, dove la vita delle due scrittrici si intrecciano in modi e luoghi che sfuggirebbero al lettore, se non fosse per la prosa limpida, percorsa da una eccezionale musicalità e da una minimalista eleganza che non possono non colpire al cuore. Le frasi pulsano, si ode un ritmo – il testo diventa lirico e sta sulla soglia: la soglia tra due mondi, due vite, due epoche, la ribellione e la sottomissione.
Le poesie di Emily Dickinson (Born Dec.10.1830 – Called back May.15.1886) videro la luce solo dopo la sua morte: era una donna in anticipo sui tempi, proiettata verso un’epoca non patriarcale. Il suo desiderio di bruciare tutta la sua opera dopo la morte fu disatteso: uno scrittoio pieno di poesie e le sue lettere recuperate sono il punto di passaggio di Emily nella Storia: 1789 poesie e 1046 lettere, questo il suo dono al mondo. La sua poesia non rispondeva alle regole del tempo, fu rifiutata “per la sua originalità, il timbro personale e libero, la sua andatura ‘spasmodica’ e ‘incontrollata’, la presunta oscurità e l’imprevedibilità, il suo verso verticale, l’oscillare tra quotidiano e metafora alta, la punteggiatura inventata (i trattini come device musicali), lo sconfinare nell’arte visiva dei suoi versi”.
Centovalli si reca alla casa di Emily Dickinson ad Amherst nel Massachusetts, una casa dove la poetessa (o il poeta come preferisce l’autrice) si allontanò molto raramente (qualche rapido viaggio a Boston, Washington e Philadelphia) e sempre pervasa dal desiderio di ritornare lì, a casa, sempre a casa, dove Emily amava, oltre alla poesia e al suo giardino, preparare il pane, che produce un cibo da condividere, come la poesia, e che, ancora come la poesia, lievita nella notte.
“Mi interessava visitare quella prigione volontaria – ma chissà se era davvero una prigione, quel luogo in cui si era messa all’ancora. O forse volevo esplorare quegli abissi da cui non possiamo né vogliamo salvarci e che sono come un assaggio della morte in vita.”
“Nella stanza di Emily” è anche un’intima confessione delle paure e delle ossessioni dell’autrice – la parallela esplorazione del proprio animo, mentre trascrive il suo viaggio ad Amherst. Centovalli confessa di aver perduto molto e molti per la sua compulsiva passione per i libri degli altri con cui oggi lavora come editor, ma non solo: la sua è “una casa biblioteca” e lei si è rivestita in maniera principesca di libri.
“Queste pagine nascono, anche, dal bisogno di chiarire a me stessa le ragioni di un mestiere molto amato, controverso al punto da rubarmi la vita offrendomi però in cambio la possibilità di trasferirla o ritrovarla nelle storie degli altri”.
Questo incredibile intreccio tra la vita della poetessa in bianco, metà ribelle, metà reclusa e quella dell’autrice, e del suo mestiere, riempiono questo libro di una potentissima tensione, quasi che ogni frase potesse strapparsi sotto i nostri occhi. La prosa è sospesa tra esplorazione, ricordo e uno sconfinato amore per la letteratura: Centovalli non si risparmia e questo libro è una lettera al mondo, la sua lettera al mondo dopo quella di Emily Dickinson: “This is my letter to the World, /That never wrote to Me” (E. D.).

Nota: questo testo fa parte della collana diretta da Filippo Tuena per il centotrentacinquesimo anniversario della casa editrice, le copie sono numerate e in tiratura limitata, invito chi fosse interessato ad acquistare la sua copia sul sito della Mattioli (la spedizione è gratuita).
Benedetta Centovalli, “Nella stanza di Emily”, pp. 118, 14 €, Mattioli 1885 Books, 2020.

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