Le leggi razziali e l’istinto alla salvezza di un ragazzino. Intervista a Lia Levi

Un Paese, il proprio, che abbandona, respinge, tradisce. Intere famiglie, piccole e grandi comunità reagiscono alle persecuzioni di cui sono vittime con incredulità, solidarietà, rabbia e paura. È il tempo delle Leggi razziali del 1938, sono gli anni in cui Lia Levi ambienta il suo ultimo romanzo “Questa sera è già domani”.  Una delle pagine più buie della storia d’Italia viste attraverso lo sguardo di Alessandro, ragazzino ebreo di Genova, che negli anni Trenta e Quaranta viene inesorabilmente travolto dal dramma. Dotato di intelligenza superiore alla norma e di spiccata sensibilità, intuisce con largo anticipo rispetto agli altri componenti della famiglia ciò che sta accadendo.

Da una personale storia di famiglia, quella di suo marito Luciano Tas, alla Storia.

Per chi fa letteratura il punto di partenza è sempre dal piccolo al grande. La grande storia incombe, pesa, in qualche modo ti determina, però filtra anche attraverso le persone e il loro carattere, le loro sensazioni, gli slanci e le debolezze. La Storia si fa piccola ed entra nelle persone e nelle loro vicende. Non ho raccontato una storia intima, malgrado il romanzo abbia preso avvio da qualcosa di vero e legato alla mia famiglia. Personaggi, sensazioni e reazioni sono frutto della fantasia. Sono loro a narrarci quello che è accaduto.

Da Omero alla Bibbia, sono sempre state le persone a rappresentare le vicende dal proprio punto di vista. Se il loro racconto riesce, appassiona, allora la storia da piccola, minuta, ritorna grande. Addirittura universale. È un discorso che vale in generale, s’intende.Non mi sto riferendo al mio romanzo.

Parlando di storia che si fa piccola, è proprio il personaggio più piccolo, Alessandro, che per primo intuisce il pericolo.

Chi sta fuori dal cerchio ascolta, osserva. Per tre quarti del romanzo Alessandro sta dietro le quinte. Credo sia piuttosto emblematica la scena ambientata a Livorno: gli adulti riuniti discutono sull’opportunità di scappare finché è ancora possibile e lui origlia, nascosto dietro la porta.

Ascolta, ragiona e introietta, come accade a chi non partecipa da subito attivamente al grande cerchio della vita. Non dimentichiamo che è un adolescente, capace di grandi intuizioni e slanci emotivi.

La parte razionale non è ancora preponderante e quella istintuale gli fa fiutare il pericolo e gli suggerisce la fuga mentre gli adulti dibattono se restare o meno. Se credere che quello che stava accadendo in Austria e in Germania poteva ripetersi anche in Italia.

Molte famiglie ebraiche italiane non capirono cosa stava accadendo.

Contrapposta al protagonista, c’è la figura di Emilia, la madre. Un atteggiamento, il suo, che spesso appare poco materno.

Inizialmente è orgogliosa delle doti del figlio, ritenuto un genio, poi si trasforma in una madre rancorosa e delusa dalla sua “normalità”. Non è detto che tutte le madri debbano essere buone. Durante le presentazioni, tra il pubblico c’è stato anche chi mi ha confessato di avere riconosciuto la propria madre nel personaggio di Emilia o chi mi ha detto di averne incontrate parecchie di donne come lei.

In fin dei conti la figura negativa fa parte della letteratura: è la perenne tensione tra il bene e il male.

Comunque, nel caso di Emilia preferisco parlare di donna di cattivo carattere, non di donna cattiva. Una donna capace di disprezzo nei confronti del figlio e che, inevitabilmente, gli crea insicurezza.

Oltre al rapporto madre-figlio, nel romanzo ricopre un ruolo centrale la famiglia. Com’è cambiata rispetto al secolo scorso?

Ora è sicuramente più sbrindellata, ma nei momenti difficili, quelli in cui c’è bisogno di prendere decisioni importanti, ho notato che ha ancora la capacità di ricompattarsi. Nel romanzo, le famiglie erano ancora più abituate a riunirsi perché facevano parte di una comunità religiosa. È all’interno della comunità che si decide di creare un fondo destinato a quei nuclei che pur desiderando scappare dall’Italia non avevano la possibilità d farlo.

Lei stessa, bambina, ha subito le Leggi razziali. Quanto è stata influenzata la sua scrittura dall’esperienza di vita?

Si può pensare che l’attività di scrittrice sia partita dalla necessità di raccontare la mia vicenda personale. Ma non è così. Da sempre, sin da quando ero piccola, ho desiderato diventare scrittrice. Lo annunciai persino in una lettera che da bambina indirizzai a me stessa grande:

“ricordati che da grande devi fare la scrittrice e non dire che sono tutte sciocchezze”.

Conservo ancora quelle parole. Poi la vita mi ha portata altrove. Dopo gli studi, ho lavorato come giornalista per tanti anni, ma dentro di me sapevo che prima o poi avrei mantenuto la promessa. Con tempi lunghi, ma ci sarei arrivata. In effetti, una volta cresciuti i figli, quel momento giunse. Mi rendevo conto che avrei dovuto cominciare da quella storia che per me è stata formativa e ha messo in moto il pensiero e il giudizio. Attraverso quelle tristi vicende conobbi il mondo, anche se era un mondo capovolto.

La mia vicenda personale è stata solo il punto di partenza. Quando decisi di scrivere, mi resi conto che avevo una storia da raccontare. Non iniziai a scrivere perché avevo una storia da raccontare.

Ha recentemente vinto il Premio Strega Giovani. Come ha vissuto questo riconoscimento da parte di una giuria composta da ragazzi dai sedici ai diciotto anni?

Sono rimasta molto stupita quando è stato dato l’annuncio nella sala. Ho faticato ad alzarmi dalla sedia. Tant’è che abbiamo pure scherzato sul fatto che avessero votato la “decana”.  Poi è subentrata la soddisfazione. Direi un doppio piacere. Innanzitutto ho molto gradito il riconoscimento e l’apprezzamento dimostrato nei confronti del mio lavoro. Subito dopo ho pensato alle motivazioni che avevano indotto i giurati a scegliere “Questa sera è già domani”. Devo dire che questa riflessione in qualche modo mi ha dato speranze socio-politiche.

Non è vero che i giovani sono refrattari ai temi legati al razzismo e alla discriminazione o che mal li sopportano quando vengono loro imposti. È solo questione di toccare le molle giuste.

Più di qualcuno, tra i giovani giurati, mi ha detto di avere apprezzato il coraggio di Alessandro che si rifiutava di fare il saluto romano.

Ho capito che i ragazzi non sopportano le ingiustizie e hanno la capacità di leggere il presente e ciò che sta accadendo.

L’Associazione amici di Giovanni Comisso si è fatta promotrice di un’iniziativa che coinvolge gli studenti nella scrittura facendoli prima esercitare nella lettura e nella valutazione dei testi prodotti. Cosa ne pensa?

Approvo tutto ciò che è creativo, ovviamente. L’unico mio timore è che il desiderio di scrivere si tramuti con troppa velocità nell’aspettativa di essere pubblicati e quindi in un’affermazione esterna.

Sono dell’idea che sia necessario scrivere per se stessi per molti anni, prima di ambire al contratto editoriale.

Magari non tanti quanti ne impiegati io per esordire, ma è necessario trovare il proprio stile e la propria voce. Si scrive anche per approfondire se stessi non perché si è alla ricerca di un compenso o di un risultato. È come lo studio del pianoforte: si comincia dalle scale, non si diventa concertisti alla prima lezione.

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