“Librerie italiane” di Giovanni Comisso

Nel leggere questo scritto di Giovanni Comisso non posso non pensare a Ciro Cristofoletti, indimenticabile direttore della Libreria Canova di Treviso, protagonista indiscusso della cultura trevigiana: letterato, bibliofilo, gran conversatore notturno, pittore scrittore.

Una sua foto a grandezza naturale troneggiava a metà scala nella sede storica della Libreria Canova, in Calmaggiore. Spesso chi entrava in libreria amava ricordarlo, citarne le espressioni più comuni, raccontare alcuni aneddoti…ritrovarli nelle parole di Comisso mi ha emozionato.

Lavoro in quella stessa libreria, posta, dal 1852, nel cuore della mia città. Il mestiere di libraia mi sta insegnando molto.

Che non si finisce mai di imparare. Che i libri pesano. Che le persone vanno lette, proprio come i libri: mi piace ascoltarle, leggere tra le righe di quanto mi viene richiesto. Che in libreria c’è chi non vuol essere disturbato. Evita di incrociare il tuo sguardo. Sta viaggiando. Momenti sacri. C’è chi  senza conoscerti ti racconta la storia della sua vita, spiazzandoti un po’, nemmeno tanto in fondo.Chi ne sa più di te e sembra trascorra le sue giornate a cercare su riviste mai sentite libri sconosciuti di editori inesistenti.

Chi ti sembra di conoscere da una vita, perché avete amato gli stessi libri. Vi sembra poco? E’ moltissimo.

E poi ci sono i vecchi, che vorrei abbracciare ogni volta che chiedono, smarriti, del libro presentato alla televisione in una trasmissione che non ricordo, di quando non ricordo, non ricordo se l’autore era donna o uomo e nemmeno perché mi interessava, ma nel cognome c’erano  due A. E tu lo trovi.

Ogni libreria è un micromondo incantato popolato da personaggi meravigliosi. Alcuni sono usciti dalle pagine dei libri, gli altri siete voi…

Luana Miani

Librerie italiane

Venire dagli Stati Uniti in Europa per un uomo che in qualche modo ami l’arte e le lettere è come passare dal gelo al fuoco. Se fa una tappa a Londra è già possibile in qualche circolo, parlando dell’Old Vic , discutere su Shakespeare e su Shaw.

Se passa a Parigi, nei caffè di Montparnasse, allora con grande facilità la discussione si allarga con i vicini di tavolino dall’arte astratta al nuovo romanzo, fino a risalire a Proust.

Ma in Italia, in ogni piccola città, il barbiere o il cameriere della trattoria ha un poema da fare leggere; a me è toccato perfino, andando in questura per il passaporto, di incontrare un simpatico poliziotto che delirava per D’Annunzio e che mi volle recitare la Canzone della Nave.

A New York, oggi, si può vedere in una libreria tutta una vetrina dedicata ai migliori libri italiani degli autori contemporanei ed è già un miracolo, perché fino a qualche anno addietro, mi dice un mio amico americano, era possibile trovare soltanto qualche libro di Carolina Invernizzi tradotto in spagnolo.

Non si sa se sia un difetto o un pregio l’amore per l’arte degli italiani. Più che amore sono convinti di poter superare lo stato anonimo con l’arte. Sono convintissimi che solo l’arte possa dare celebrità e soprattutto immortalità.

Essi amano tanto la vita che non vogliono morire; e l’arte è ritenuta l’imbalsamatrice efficiente.

Uomini politici hanno da principio aspirato all’arte e aperti gli occhi sulla loro impotenza si sono dati per disperazione alla politica.

Altri letterati mancati per disperazione si sono dati alla carriera militare, alla vita ecclesiastica, si sono imbarcati nella navigazione mercantile e nella dialettica forense.

D’altra parte quasi tutti gli italiani credono fervidissimamente, dopo i trent’anni, negli avvenimenti della loro vita, così da essere degni di venire narrati. E se non riescono essi stessi si rivolgono a chi sa scrivere, perché ne faccia un romanzo. Subito adolescenti gli italiani si sentono nella storia.

Non possono essere distolti dal ritenersi discendenti dei romani. Di certo non dagli austeri romani repubblicani dei primi secoli, ma da quelli imperiali. Da questo equivoco abbiamo visto quali spaventose conseguenze sono derivate.

Quando poi questa presunzione è abbinata a una conoscenza scolastica della vita latina, allora può avvenire che una fabbrica padana di zucchero si chiami Eridania, una lavanderia romana Tiber, una agenzia d’affari Omnia, uno studio di pubblicità Ad hoc, una brillantina Venus, le malattie infettive agli organi sessuali veneree, uno spiazzo dove i soldati fanno dinoccolati gli esercizi Campo di Marte e, fatalmente, che l’aeroporto di Roma si chiami dell’Urbe.

Spesso nell’entrare in una libreria italiana ci si accorge che il personale addetto è umile e rassegnato, come si trovasse sotto inchiesta per gravi colpe verso la cultura.

Risulta intimidito dalle decide di volumi che le case editrici mandano fuori ogni anno come capolavori, e che deve vendere senza avere avuto tempo di leggerli, sebbene l’editore garantisca di essere giunto a cento o a duecentomila copie di tiratura.

Ma talvolta sono le richieste del pubblico che lo umiliano di più. Un mio amico libraio, che ha un aspetto barbuto da filosofo greco, si è sentito richiedere da una donna occhialuta, che pareva degna dei dialoghi di Platone, La vita di un passerotto.

Un’altra signora si era rivolta a lui come appena destata e gli aveva detto: “Vorrei un libro di cui non ricordo l’autore, né il titolo, né la casa editrice, ricordo solo che nella copertina in un angolo vi è una piccola rosa”.

Un’altra volta uno studente pensoso e allampanato venne a chiedergli un libro di Lelio De Amicis. Il mio amico libraio cercò di convincerlo che De Amicis non si chiamava Lelio. Lo studente spiegò meglio che si trattava di un libro di Cicerone. Il libraio parve illuminarsi e chiese se si trattava di Lelio o dell’amicizia. Lo studente assentì, desiderava appunto quel libro e soggiunse che per lui era la stessa cosa.

Un altro giorno un signore molto distinto, molto convinto di se stesso, chiese allo stesso libraio: “Mi dia il libro di D’Annunzio L’uomo, questo sconosciuto’”.

Il libraio dovette dirgli che secondo la sua modesta opinione D’Annunzio non aveva scritto quel libro. L’altro, inalberato, gli contraddisse: “Lei pretende di insegnare a me, se ce l’ha se lo tenga”, e uscì con dispetto.

Giovanni  Comisso

Il Giornale d’Italia, 7 marzo 1964

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