Lingua e dialetto in letteratura

Lingua e dialetto in letteratura

Credo, prima di tutto, sia necessario constatare che noi italiani ci troviamo, oggi nella situazione di essere o di stare per essere schiacciati da nuove civiltà minorenni, che appunto per questo hanno molta attrattiva. Non è che per salvarci sia necessario fare del nazionalismo, sebbene quelle civiltà con immensurabile orgoglio facciano non solo del nazionalismo, ma dell’imperialismo. Noi dobbiamo cercare di tutelare la nostra civiltà, credere in essa e contrapporla sempre alle nuove civiltà.

Quando l’Italia si trovava divisa tra più padroni, tra incertezze ideali, veniva prodigiosamente unificata dalla lingua creata dai nostri massimi scrittori. La nostra lingua fu di una forza magica nel dare consistenza alla nostra civiltà sebbene si fosse politicamente disgregati.

Adesso che siamo in una situazione quasi uguale, dobbiamo convincerci che è necessario salvaguardare la lingua italiana, operare per migliorarla, purificarla, farla progredire integrale per la necessità di riconoscerci almeno in essa figli di una stessa civiltà.

Per questo credo sia utile opporsi alla tendenza di certa narrativa contemporanea di precipitare nel dialetto non solo dei dialoghi, ma nel contesto della prosa. Credere che il dialetto dei dialoghi possa dare una tale immediatezza da risultare efficiente è errato. Quando le battute di un dialogo sono essenziali, risultano efficienti anche se scritte in italiano. L’importante è che siano essenziali e non vane botte e risposte tra sordi. Il secolo che ci ha preceduto è stato pieno di incertezze e di equivoci. Molti hanno creduto che andando a Firenze si potesse fare tesoro di quel dialetto, preso tale e quale, come fosse la lingua italiana più pura, mentre la purezza della lingua italiana è sorta solo da un vaglio artistico, anche di quel dialetto.

D’Annunzio e Fogazzaro, in un’epoca in cui si credeva al miracolo della realtà fotografica, vollero fare del realismo fonico interponendo dialoghi in dialetto. D’Annunzio doveva però essersi accorto che il suo dialetto abruzzese non era tanto armonioso da abusarne e lo riteneva così incomprensibile da doverlo accostare alla traduzione. Fogazzaro invece si è servito del dialogo dialettale fino al ridicolo.

Disegno di Giovanni Verga da “Vita dei campi”, Treves, 1897 (fonte: Wikimedia Commons)

Il maestro assoluto per il dialogo nel contesto della prosa è Verga. Non si sa quale santo ringraziare per averlo tenuto lontano dalla tentazione di dare i dialoghi dei suoi personaggi nel dialetto di Acitrezza. Egli ebbe il saggio equilibro di farli parlare in un italiano temperato lasciandovi appena sentire una cadenza siciliana sufficiente per accettarla senza disturbo.

Col nuovo secolo, con la generazione che incominciò a dare le sue opere dopo la prima guerra, siamo arrivati ad avere una schiera di scrittori, se non eccelsi, rispettabili soprattutto per avere cercato di portare la lingua italiana a una snellezza, chiarezza ed esattezza di espressione. Ora questa tappa raggiunta va difesa contro le deviazioni attuali nel dialetto e nel gergo.

Noi gente veneta formiamo una regione, la più vasta e la più popolata d’Italia. Abbiamo una tradizione veneta, una cultura veneta: una civiltà veneta che va considerata fino ad esserne fieri.

Questa civiltà portata ad ingranarsi con le altre civiltà regionali darà una forza finale alla civiltà italiana. Cerchiamo quindi di contribuire, noi scrittori veneti, al consolidamento della lingua italiana senza lasciarci prendere dall’oziosità di usare nei dialoghi il nostro dialetto, come è avvenuto per scrittori di altre regioni. Ci siano maestri quegli ambasciatori veneti del Cinquecento che fecero le loro relazioni davanti al Senato in un magnifico italiano, quando pure il dialetto era considerato quasi lingua ufficiale dello Stato.

Noi dobbiamo nel contributo alla nostra lingua risultare italiani senza rinnegare il Veneto e risultare veneti senza rinnegare l’Italia. Dobbiamo difendere la nostra civiltà altrimenti saremo schiacciati, pianificati dalle civiltà degli sputnik e dei supermarket.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul n. 25 della rivista “Settimo Giorno” del 16 giugno 1960.
Immagine in evidenza: Wenzel Tornøe. Acqua alta – I giorni di carnevale a Venezia, 1889 (fonte Wikimedia Commons)

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