L’osservatore di tifoni. Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Sciangai, aprile

Gli uomini di mare cominciano a parlare dell’Osservatorio di Zikawei, appena passata Singapore. I tre mari della Cina e la parte dell’Oceano Pacifico che bagna le Filippine e il Giappone sono le arene predilette degli impetuosi tifoni. Scaturiscono tra le isole Guam e Yap, da luglio a novembre con frequenza maggiore, per precipitarsi verso il continente asiatico a una velocità media di 13 miglia all’ora.

Il cielo si oscura, la forza del vento è tale che la manovra delle navi riesce quasi impossibile, le onde cozzano tra loro in alte forme piramidali. Sono state registrate più volte raffiche della velocità di 156 miglia all’ora. La nave che non riesce a sfuggire dal vortice del tifone difficilmente si salva.

La missione di Padre Gherzi

Quando la bufera si scaraventa sui porti, la terra ne trema, si scoperchiano le case, tutto vola e scompare, e le vittime si contano sempre a migliaia. Ora, a mezzo della radio, il fenomeno viene preannunciato e seguito nella sua marcia. Determinata la direzione, se ne diffondono i dati a tutte Je navi e alle città, che subito possono prendere le misure di sicurezza. Questo è il compito principale dell’Osservatorio di Zikawei.

Anima dell’istituto è un Italiano, il reverendo padre gesuita Ernesto Gherzi. Il suo nome, da Melbourne a Vladivostok, è non solo stimato, ma cordialmente amato, tanto è preziosa la sua opera.

Raccolti i dati delle pressioni atmosferiche delle varie zone, sa trarne subito una veduta d’insieme, individuando i centri ciclonici con straordinaria precisione. L’Osservatorio giapponese tenta di concorrere in questo ardua speculazione, ma erra novantanove volte su cento, non essendo lo spirito giapponese capace di sollevarsi da una visione frammentaria.

Alta figura ancora giovanile, fa subito pensare a certi prelati del Greco: volto lungo, grandi occhi vivaci e barba che gli discende sul petto appuntita. Vibrante nel muoversi, continuamente con l’orologio alla mano, sembra che egli stesso fiuti le variazioni di questa balzana atmosfera, Le Marine delle varie Nazioni presenti su questi mari vanno a gara nel fargli doni utili al suo scopo.

La Marina italiana gli ha regalato due motori per mettere in moto la radio; l’ammiraglio inglese una lampadina ad alto potenziale; quello americano una macchina fotografica panoramica; il Comando delle truppe francesi gli manda tutto le mattine un plotone di marinai a protezione, perché l’Osservatorio si trova fuori della Concessione, e qualche anno fa avvenne che i comunisti cinesi ne tentarono l’assalto. Con una snella fierezza, che fa pensare al tempo in cui i padri gesuiti cingevano la spada, egli ricorda l’avvedimento. «Circa quattromila stavano agglomerati lungo la ferrovia e si preparavano ad avanzare. Alle prime fucilate i pochi marinai di guardia hanno avuto la prudenza di non rispondere. Io ho preso il comando: ho avvertito per radio il Michelet, che ha puntato subito i cannoni; in un quarto d’ora è arrivato l’ammiraglio con truppe e mitragliatrici, e i Cinesi, viste le forze schierate, non hanno osato procedere. Poi Nanchino, dietro pressioni diplomatiche, ha pensato di sloggiarli; ci fu battaglia davvero, e per l’occasione venne presa da quel Governo un’attitudine anticomunista.»

La veglia senza riposo

I vari apparecchi sono un po’ da per tutto; i sismografi sono nel sotterraneo, la radio ricevente è nella sua stanza da letto, la trasmittente nella biblioteca. A vederli si riceve l’impressione di materiale antiquato e provvisorio, tutto sembra di costruzione alla buona, il tasto, quasi fatto in casa. Egli intuisce questa delusione e allora si accende nel fare l’elogio delle sue macchine fedeli. E’ con queste che trasmette e riceve su circa mezzo emisfero, sono questi polverosi grovigli che danno il segnale di salvezza a migliaia di piroscafi e a città popolose.

Ed è sopra lutto lui l’indagatore, lo studioso, quegli che precisa la potenza e scopre la rotta di ogni tifone.

Ha appena finito di ricevere i dati di pressione e dei venti dalle stazioni sul Yangtse, da Pekino, dal Giappone, da Hong-kong, dall’ isola di Pratas, da Manila e da Capo San Giacomo. E’ una giornata eccezionale, si entusiasma come un vittorioso, è riuscito a localizzare duo grandi cicloni: uno sulla Mongolia è l’altro sul Mar del Giappone; e la sua previsione che deviassero verso il sud si è avverata.

Teme che le navi incrocianti tra la Corea e il Giappone abbiano da passare pessimi guai. Ecco, sono le nove e mezzo, è l’ora in cui tutte le stazioni sono in attesa delle sue conclusioni. Si avvicina all’apparecchio, rimane in piedi, col braccio a piombo posa la mano sul piccolo tasto e tanta è la sua disinvoltura che pare non faccia sul serio. Sempre rimanendo in piedi, per una ventina di minuti trasmette.

Guardo di fuori attraverso ai vetri. Nel giardino sottostante vi sono i marinai francesi del plotone di guardia, in tenuta di fatica con la nappa rossa sul berretto, che fanno la lotta tra loro per riscaldarsi. La giornata è torbida e ventosa, le fronde sono costantemente piegate dal vento, e di là la compagna cinese; si distende tutta intagliata da piccoli campi e disseminata di tombe. Ha finito, la sua voce mi richiama.

Una vita di studio

Di giorno in giorno l’importanza dell’Osservatorio si fa maggiore. A volte in porto c’è una sessantina di piroscafi che attendono il suo cenno per partire. E non sono poche le volte che si rivolgono a lui per avere, in caso di vertenze o in questioni d’assicurazione per avarie, i dati precisi delle condizioni atmosferiche del giorno in cui avvennero i sinistri. Ancora le sue osservazioni sulla temperatura e umidità vengono sfruttate nel campo industriale e commerciale.

Quarantasette anni, dei quali dodici per lui, di documenate registrazioni dei movimenti dei tifoni gli hanno dato possibilità di compilare un atlante utilissimo ai marinai dove sono chiaramente segnate le rotte tifoniche maggiormente frequenti a seconda dei mesi.

Ma attualmente egli sta spingendo più oltre le sue indagini. Egli mira a dare la teoria di tali perturbamenti, cosa ancora non tentata da alcuno. Apparecchi speciali registrano le vibrazioni della terra sotto la violenza del vento e da qui egli spera di poter arrivare a conoscere fino a quale altezza questa si esercita. Egli crede che questa altezza non sia tale da impedire a un aeroplano di sorvolarvi senza danno. Il compimento di questi studi sarà di grande vantaggio per l’aviazione che qui sta organizzandosi alacremente. In questa smisurata Cina, dove lo strade mancano, le linee ferroviarie sono scarse e non funzionano e dove sarà ben difficile che le progettate vengano costruite, per la spesa enorme e per la disorganizzazione dello Stato, l’aviazione ha la sua vera zona d’impiego.  

II piccolo atlante del cielo

Americani e Tedeschi hanno capito l’opportunità della cosa. Un progetto vasto: una linea da Pechino a Mosca in congiunzione con la linea Mosca- Berlino, ed un’altra assai ardua, perché incrociante appunto con le rotte dei tifoni, da Pechino a Sciangai, a Hong-Kong, fino a Singapore. Attualmente esiste in piena efficienza la linea da Sciangai fino ad Han-kou, distante quattro giorni di battello fluviale, gestita da una Compagnia americana. Pertanto prima di porre mano alla realizzazione di queste grandi linee, i promotori si sono rivolti a Padre Gherzi per avere da lui tutti i dati sui venti tra la Siberia e la Malesia, lavoro non indifferente, che egli sta assolvendo con la compilazione di un libro di prossima pubblicazione.

Scienziato e religioso egli non è freddamente astratto nelle formule, egli sa come al variare d’una cifra corrisponda una più o meno grave pericolosità per gli uomini affaticati nel lavoro per mandar avanti la vita.

Quasi intermediario sublime tra Dio e l’umanità, ecco con quale infinita ed affettuosa modestia egli termina la sua prefazione a quello che egli chiama: Piccolo atlante del tifoni dei Mari della Cina: «Possano queste cartine essere di qualche aiuto ai cari naviganti nell’Estremo Oriento e nell’istesso tempo l’espressione fraterna della nostra simpatia sincera».

Giovanni Comisso

Pubblicato sul Corriere della sera il 30 aprile 1930

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