"Mara. Una donna del Novecento". Intervista a Ritanna Armeni

“Mara. Una donna del Novecento”. Intervista a Ritanna Armeni

Disseppellire, ri-ordinare, scrostare. Il romanzo di Ritanna Armeni è un coraggioso atto di ‘sovversione’, un azzardo finalizzato alla revisione dei paradigmi, laddove storia, violenza e genere segnano le tappe di un percorso altro. Quella di Mara, giovane degli anni Trenta, è – a tutti gli effetti – un’educazione politico-sentimentale, la conquista di un’identità meditata, voluta, finalmente propria. L’itinerario segue un tracciato preciso, articolato lungo frazioni di un rigoroso tempo storico identificabile ora col periodo di massima gloria mussoliniana, ora con la guerra e la conseguente disillusione. Il Novecento del titolo è riattraversato da Armeni secondo il parallelo procedere di una dimensione ‘soggettiva’ e del piano evenemenziale, in cui i corsivi fra i capitoli si pongono come contrappunto di una riflessione articolata. Al centro sta il discorso sulla donna, la sua lotta per l’emancipazione, il faticoso affrancarsi dai modelli imposti. L’osservatorio è quanto più ‘curioso’, se consideriamo non solo la storia politica dell’autrice ma il tradizionale sguardo sul femminile fascista, legato a formule praticate quali il «consenso passivo» o l’abrasione degli spazi di libertà. Tale paradigma è qui rovesciato grazie alla costruzione di un personaggio imponente, che riassume i chiaroscuri, le complessità, finanche l’oblio della storia. Mara è fascista, o meglio, cresce nel mito del Duce; viene da una famiglia borghese, partecipa attivamente ai raduni del sabato, vive – con l’amica Nadia – un generale stato di eccitazione, nutrito dal nuovo corso della propaganda di regime. Attorno alla sua figura Armeni edifica un’opera complessa, quasi un Bildungsroman che supera l’autobiografia della nazione per guardare all’intimo, ai rapporti uomo-donna, all’urto con gli accadimenti come scoperta di sé.

Gruppo Piccole Italiane (foto di Sconosciuto, archivio di Famiglia, Wikipedia)

In tal senso, la qualità migliore della scrittura risiede nella capacità introspettiva, nel raffinato lavoro di elaborazione e scavo. Le stesse dinamiche relazionali – profondamente calate nello spirito del tempo – concorrono a definire un’identità complessa, tesa fra sguardo tradizionale e prospettiva modernizzante. La vicenda di Mara si pone infatti al confine tra sfera pubblica e privata, dando corpo a uno slittamento tanto assodato quanto inedito. I rapporti con i genitori, e con la madre in particolare, collocano la giovane nell’universo della ‘cura’, in quello spazio perimetrato che è eredità di tempi antichi. Per spiegare la devozione al Duce, Armeni rammenta la visione mazziniana della donna, l’idea di un soggetto appendicolare come ombra inesistente, riabilitata – in termini di ‘cittadinanza’ – da un regime che coltiva il mito della Madre. Quella della protagonista è però una vita attiva, che conosce le manifestazioni e i benefici dello sport, elegge a modello eroine inedite, ‘sovversive’, capaci di assottigliare il confine che divide i due sessi.

Giovani Fasciste (foto di Sconosciuto, archivio di Famiglia, Wikipedia)

L’intero suo percorso si snoda, pertanto, lungo una duplice direttrice, negli anni in cui il binomio antico/moderno diviene una coppia di idealtipi conviventi, tenuti assieme da una politica ondivaga, contraddittoria – che esalta le imprese di Ondina Valla indicando, al tempo stesso, un ‘rassicurante’ canone estetico («robusta e con i fianchi larghi»), finalizzato all’assolvimento della «missione» della donna: la maternità. Di questa oscillazione Armeni dà conto in termini di costruzione narrativa, disponendo la materia lungo fasce temporali (1933 – 1938; 1983 – 1943; 1943 – 1945) intimamente saldate alle pratiche riflessive, sì da rendere la storia un’occasione gnoseologica, una possibilità di comprendere le metamorfosi in atto.

Così pensata, la narrazione funge da stimolo a ulteriori meditazioni, incentrate sul rapporto fra l’agire femminile e la complessa – totale – organizzazione politico-sociale, intesa in termini di propaganda, di guerra, e di intervento dello Stato. Sovvertendo l’ipotesi di una storia ‘immobile’, in cui le congiunture esterne strutturano ruoli e identità, Armeni propone una griglia interpretativa ri-elaborata intorno alle sue figure femminili, campioni di una soggettività multiforme e imprevista. Oltre a Mara, sono la zia Luisa e Nadia gli esempi più vivi di tale rovesciamento, minando esse la validità di certe opinioni – raschiando i confini di una supposta ‘autenticità’ di genere. Mentre la prima compendia tante fisionomie – dall’etichetta sociale (è volontaria dell’Onmi) all’intimo, libero sentire – l’altra sovverte ogni ordine ‘naturale’ votandosi interamente alla causa del Duce. Mobilitatasi dentro al SAF, il Servizio ausiliario femminile della Repubblica Sociale, Nadia non solo può agire violenza ma compie il proprio ‘rituale’ identitario nella vestizione militaresca, nelle azioni e nelle parate che caratterizzano il mascolino: «La vita delle Ausiliarie sarà in tutto e per tutto come quella delle truppe, portano la divisa e anche loro sono ordinate secondo la gerarchia militare […]. È entusiasta. Quel che aveva tanto voluto è avvenuto. Nadia è un soldato».

Qui si trova l’aspetto più coraggioso dell’opera, la sfida alla percezione comune sull’ostico piano di un doppio stereotipo: l’inveterata dicotomia donne/armi – che assume i tratti di un totale disordine – si somma infatti alla colpa dell’appartenenza, allo stigma infamante della fede fascista. Armeni è brava a non giudicare, a condurre la storia lungo i binari della pietà, dell’umana comprensione. Quel che le sta a cuore è difatti uno spostamento d’ottica, la riclassificazione dell’universo femminile in accordo a nuove categorie o meglio – ancora – al superamento delle stesse. La vicenda di Mara è nitida, lineare, somiglia alla stessa penna dell’autrice: scabra e poetica a un tempo. Il suo corpo – assieme a quello di Nadia, di Luisa, della sorella Anna – gioca un ruolo costitutivo, abita il romanzo con scatti di vitalità e ripiegamenti, fulgori e ombre di un’esistenza stra-ordinaria.

Che il termine ‘donna’ abbia un significato plurimo, cangiante, è acquisizione mai scontata. Che debba sfuggire a ulteriori schemi, a «certezze costituite» e parimenti ingabbianti è una sfida da rilanciare. Un’indagine che Ritanna Armeni conduce con grazia, come un lento – inarrestabile – esercizio di liberazione.

L’intervista

Fuori dai canoni, lontano dai pre-testi. Non c’è niente di trasparente o di ovvio quando si parla di donne; la categoria è instabile, multiforme, sfuggente a ogni tentativo di omologazione. Lo mostra bene Mara. Una donna del Novecento (Ponte alle Grazie, 2020), opera in cui Ritanna Armeni interroga i luoghi comuni, rifiutando l’idea di una soggettività ‘data’ – schiacciata, fra le altre cose, dall’adesione a un programma politico. In questi termini, il suo è anzitutto un romanzo nuovo, interamente votato alla ridefinizione, all’allaccio fra Storia e storie come terreno di ‘lotta’, in cui abbattere – e combattere – le narrazioni sclerotizzate.

Partiamo dalla voce. Mara accompagna il lettore attraverso tappe precise, ineludibili tasselli del suo percorso di formazione. Quest’occhio interiore – parziale eppure ‘critico’, incantato ma razionale – trova il suo contrappunto nelle sezioni in corsivo, dove il recupero della Storia funge da stimolo a commenti precisi, a focus allargati alla condizione della donna. Come hai maturato tale scelta? Prima e terza persona, oltre a integrarsi, sembrano ordinare – finalmente – una ‘narrazione del caos’, in cui ritrosie e pregiudizi inibiscono, a volte, una valutazione più approfondita…

Ritanna Armeni

Ho maturato questa doppia voce anzitutto perché desideravo scrivere la storia di una ragazza fascista. Essendo io una donna di sinistra, più adulta e temporalmente distante, avvertivo i rischi dell’operazione, la fatica di un’immedesimazione piena. Nella prima persona ho trovato il modo di ‘vivere’ il personaggio, di saggiarne – fin dove possibile – gli umori e i pensieri. Il ricorso alla sola terza avrebbe creato una distanza troppo netta: un effetto che non volevo. In Mara, ti confesso, ci sono molti elementi autobiografici: la tensione verso lo studio, la voglia di andare avanti… sentimenti che sono stati anche miei, e che ho finito per ‘donarle’. Scrivendo il romanzo, tuttavia, mi sono resa conto che dovevo sì entrare nella testa di Mara – e desideravo farlo nel modo più onesto – ma ero pur sempre una donna vissuta anni dopo, in un tempo diverso, nella democrazia. Era necessario, pertanto, far sentire la mia voce. I corsivi sono stati un modo di affiancarmi a Mara senza tradirla, riportando la versione di chi – come me – ha potuto vedere tutti gli errori e gli orrori di quel periodo, con una consapevolezza che alla protagonista manca perché, com’è ovvio, non ha conosciuto altro. Ecco, ho voluto porre Ritanna accanto a Mara, farle viaggiare in parallelo, tramite un espediente che mi ha permesso, inoltre, di riportare quanto scoperto sul nodo fascismo-donna. Penso – e lo dico molto modestamente – che questa struttura renda l’opera originale, poiché fornisce al lettore una visione totale, o quanto meno sfaccettata.

La tua storia politica ti colloca agli antipodi rispetto a Mara. Scrivere questo libro, immagino, ha significato fare i conti con i condizionamenti ideologici, con l’idea persistente di una storia ‘frazionata’. Non solo: tutte le donne dell’opera si pongono su una direttrice propria, vicina e al tempo stesso altra rispetto a quella del fascista-uomo. Quali sono i maggiori ostacoli con cui ti sei dovuta confrontare? A partire da quali elementi hai operato tale rovesciamento?

Il mio romanzo nasce proprio dalla voglia di oppormi al pregiudizio, al luogo comune e alle certezze inscalfibili. Già da tempo avvertivo segnali, qualcosa mi diceva che il racconto delle donne sotto il fascismo o, meglio, il rapporto tra esse e il regime, era in qualche modo viziato, certamente parziale. Mi sembrava strano che la storiografia, per sua natura vigile e critica, in grado di indagare gli eventi del passato, avesse assimilato con tanta facilità l’immagine della donna di regime, costruita da una propaganda che la voleva moglie obbediente e madre devota. Io ho inoltre una convinzione: che la storia delle donne conservi sempre una sua autonomia, che si intreccia o si sovrappone a quella degli uomini ma c’è, ed è interessante indagarla. Avvertivo come incongruente lo scarto formatosi a un certo punto, quasi che i primi tentativi di emancipazione si fossero bruscamente interrotti per poi riprendere nel dopoguerra. C’era qualcosa che non funzionava, e i discorsi delle signore ormai anziane non facevano che confermare tali dubbi… Insomma, è così che ho deciso di mettermi alla ricerca, di approfondire la ‘vera’ storia della donna nel fascismo. Ti confesso che è stato un compito arduo, e un tentativo piuttosto audace. È difficile scardinare i pregiudizi, la donna fascista è per tutti subalterna, devota al Duce e incurante di se stessa. Temevo molte polemiche, che fortunatamente non ci sono state. Certo, mentre scrivevo il libro notavo nei miei interlocutori – specialmente nelle interlocutrici – un certo disappunto, ma è proprio questo che mi ha spinto a proseguire. Una volta edito, il volume ha suscitato tutt’altre reazioni: è stato quasi catartico. Mi hanno scritto signore di 90 anni dicendo di essersi riviste in Mara, di aver trovato nella sua storia una traccia di loro stesse. Durante le presentazioni – le poche che sono riuscita a fare ‘in presenza’ – alcune partecipanti hanno narrato di nonne consimili, di madri animate dalla stessa tempra. Ho così avuto la conferma della mia intuizione: la donna, durante gli anni del fascismo, è stata una figura assai più complessa di quanto gli storici (maschi) abbiano raccontato. Il resto lo hanno fatto i dati sull’occupazione femminile, non troppo dissimili da quelli del dopoguerra. Se pensiamo all’industria, in particolare quella tessile, troviamo un alta percentuale di donne assunte. Molte di loro erano maestre, e ciò poteva significare vivere da sole, inerpicarsi in paesini sconosciuti – acquisire, dunque, una certa autonomia. Anche sul fronte degli studi i dati sorprendono: si parla di cifre esigue, è vero, ma durante il fascismo si sono triplicate le iscrizioni di donne all’università. Infine la natalità, il dato più dirompente: contrariamente ai desideri del regime, agli interventi messi in campo, le donne non hanno fatto più figli. Si tratta di una rivelazione, che mette bene in luce il ruolo svolto dalla propaganda, dall’iconografia della Madre volta a trasmettere un certo messaggio… In realtà, ed è il Duce stesso ad ammetterlo, quella politica demografia è da considerarsi fallita. È un dato con cui confrontarsi, certo impossibile da ignorare.

Nadia è una figura complessa. Un rimosso della storia, un elemento disturbante. Come hai definito il suo personaggio? La scelta che ella compie si scontra, sul piano delle testimonianze, con una riluttanza a riflettere intorno a questa esperienza. Quali sono stati i tuoi riferimenti in materia?

Le fonti ci sono, anche se – come è ovvio – in misura minore rispetto agli studi sulle partigiane. Nadia è andata formandosi man mano, come quei personaggi che ‘crescono’ nella penna senza che tu possa accorgertene. Nella mia testa lei era una figura complementare a Mara, concepita essenzialmente per far emergere quest’ultima. Poi ha acquistato una sua personalità, tanto caratteriale quanto storica. Le due sono molto diverse; Mara è più riflessiva, capace di critica e di autocritica, mentre Nadia è irruenta, non conosce ragioni. Tuttavia, anche lei è una donna libera, e lo è nella maniera più totale. Qui sta il punto più critico, quello – secondo me – più difficile da capire: può una donna fascista seguire la sua libertà, inseguire i propri desideri, battersi per i suoi ideali – essere, insomma, femminista? Io, per mezzo della sua storia, dico di sì. Anzi, Nadia – in una certa fase della vita – è persino più libera di Mara, poiché quest’ultima viene per un momento abbattuta dalle difficoltà economiche, dalle circostanze, dal legame con un fidanzato che non torna a casa. C’è una frase nel libro che mi è stata più volte sottolineata: «Nadia sbaglia […] eppure penso che abbia fatto bene a seguire il suo sogno. È possibile che chi sbaglia abbia anche ragione?». Nadia ha torto, certo, e lo ha perché la Repubblica Sociale è qualcosa che noi aborriamo dal punto di vista politico-ideologico. Si tratta, come è evidente, di un’esperienza dannata, priva di prospettive ma per lei fondamentale. È l’obiettivo per cui battersi, indipendentemente dagli affetti e dalle opinioni contrarie. In questo Nadia è straordinaria: pur stando dalla parte del torto ha ragione perché lotta per quanto desidera e, paradossalmente, dà a Mara una lezione di libertà.

Mara è un romanzo polifonico e ‘femminile’. Gli uomini, per quanto attivi, presenti, si muovono sullo sfondo. Di più: mentre alcuni di loro muoiono, o spariscono – in guerra e sul lavoro – le donne si moltiplicano, mostrano varie fisionomie, infinite sfumature. Com’è stato confrontarsi con ciascuna di queste?

Gli uomini sono il fondale del teatro. Sul palcoscenico, è vero, ci sono le donne, ognuna con il proprio carattere e uno specifico rapporto con il fascismo. Mi interessava indagare i vari volti, i modi di vivere la storia e il quotidiano. Oltre a Mara e Nadia – giovani, ferventi – ci sono le loro madri, due casalinghe con il ritratto del Duce in casa, donne ‘semplici’ e, proprio per questo, prive di quell’apparato ideologico che occulta le contraddizioni, le mancanze del regime. Loro riescono a percepirle prima, in virtù di una quotidianità che si mostra incrinata, segnata da un male che avanza dapprima sottotraccia, nei piccoli dettagli dell’oggi. C’è poi la zia Luisa, una figura che amo molto: un’intellettuale, elegante, colta, legata a circoli importanti. Anche lei non perde mai il suo senso critico, e quando scoppia la guerra intuisce che è un dramma, che la fine è già segnata. O ancora Anna, la sorella minore di Mara, nata quattro anni dopo e, in virtù di questo scarto, più lucida nei confronti del Duce. Non è ammaliata dalla sua retorica, le appare grottesco e caricaturale, lontano dall’aura ‘mitica’ che si è costruito. Anche Assunta, l’anziana condomina del palazzo di Mara, ha uno specifico rapporto con il fascismo; fa parte di quel ceto cattolico a cui il regime non è mai andato a genio e difatti protegge un disertore – esattamente come tante suore hanno protetto gli ebrei. Ecco, ho voluto raccontare queste donne come sul palcoscenico di un teatro. Molte di loro sono nate per caso, come Anna che avevo immaginato da piccola e poi è cresciuta da sé, divenendo saggia e centrale. La figura di Luisa è invece quella che ho pensato da subito nella sua interezza, perché desideravo porre accanto a Mara una donna matura, forte e consapevole. Una donna fascista come Edda Ciano, come Margherita Sarfatti, capace di esercitare un ‘potere’ sull’opinione pubblica e sui costumi.

Ancora lo sguardo, l’occhio. Non c’è pagina in cui Mara non mostri il suo amore per la vita, la gratitudine verso gli affetti, verso il ‘bello’ del mondo che pure permane – nonostante la morte e, a tratti, una lucida disperazione. Ecco, questo sguardo in grado di afferrare l’inafferrabile, di guardare al fondo della tragedia è, io credo, uno degli elementi più forti del romanzo. Ti va di dirmi come l’hai strutturato? C’è – qui forse sì – qualcosa di te?

È vero. Mara ha una grande adesione alla vita anche nei momenti di estremo dolore. È una ragazza che soffre tanto, dal momento in cui muore il padre si vede costretta dalla situazione economica, chiusa in un limbo storicamente infelice. Sfiora il ripiegamento, è fiaccata dalla guerra e dall’aver accantonato i sogni. Nonostante tutto però resiste, con lo sguardo carico di luce e amore. Certo, accanto a questo conserva una vena di malinconia, che la spinge a essere riflessiva e attenta. Prendiamo ad esempio il suo rapporto con l’amore; lei sa ancor prima di confessarselo che con Giulio è finita, e qui la malinconia funge da segnale, è un sentimento che l’accompagna in questo viaggio di ‘sospensione’. Alla fine è lui a prendere l’iniziativa, ma Mara conosce già il senso della fine. Si è preparata, la fiamma andava spegnendosi. Anche qui c’è sofferenza, dunque, ma la peculiarità della sua indole le consente di andare avanti, di interrogarsi sulla natura dei sentimenti: sul proprio intimo sentire. C’è un nuovo amore alle porte, un uomo che l’affascina, tuttavia ella prende tempo, sì da mantenere un proprio spazio di libertà. Trovo che questo sia un tratto estremamente moderno, proprio delle donne di oggi. Nello sguardo di Mara – in questo tipo di scelte – si trova molto di me. Io appartengo ad un’altra epoca, ma il desiderio di libertà è lo stesso, la voglia di emanciparsi attraverso lo studio è stato un tratto tipico delle donne della mia generazione. Così come il modo di elaborare i sentimenti, di vivere le proprie scelte senza subirle.

Ritanna Armeni - Mara. Una donna del Novecento

Ritanna Armeni – Mara. Una donna del Novecento
Editore : Ponte alle Grazie (13 febbraio 2020)
Lingua : Italiano
Copertina flessibile : 304 pagine
ISBN-10 : 883331314X
ISBN-13 : 978-8833313146
Peso articolo : 650 g
Dimensioni : 12 x 1 x 24 cm

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