“Marina di Eraclea” di Giovanni Comisso

Non si sa da dove siamo arrivati, e non si sa dove si possa andare. Il mare è in una direzione segnata da un pino, e il pino è in una direzione segnata dalle basse case. Certo se chiedessero con una carta di indicare la ubicazione di questa terra, non si saprebbe.

Non è come se fossimo arrivati dal mare; siamo veramente arrivati dal cielo, tutto ci sembra lontano, e invece è a pochi passi da noi; non si vedono orizzonti e quindi non vi sono panorami. Null’altro che un gran verde attorno alla terra e alberi che segnano le loro ombre. Ogni tanto dai tronchi d’alberi si staccano le ombre e vanno contro il sole.

Sembra che nessuno là abiti, né per prendere il sole, né per prendere l’aria marina, né per immergersi nelle acque. Gli abitanti ci sono come ci siamo noi, ma dànno l’impressione di essere trasparenti, non fanno rumore, ed è più sensibile il rumore di un volo che si chiude che il suono delle loro parole.

Sembra di aver trovato questa terra in una vecchia carta topografica e che le case e gli alberi siano venuti fuori da un gioco di parole fatte con i segni delle lettere.

Vi sono persone sedute o in piedi, ferme più che non lo siano in altra parte. Sembra quasi che non si abbia bisogno di essere in piedi per risultare viventi. In un’epoca in cui la velocità dà consistenza, qui invece è il riposo all’ombra e al sole. Non si è ancora visto il volto del mare eppure lo si sente presente tra l’aria che sibila e si intesse con quella delle fronde dei pini. Le case tra i pini e l’ondulazione delle sabbie sembrano piccoli templi dedicati ognuno a un Dio salutare.

Le tegole connesse esattamente l’una all’altra fanno pensare a una civiltà maturata da secoli; anche la disposizione delle pietre in rapporto agli alberi e al restante del verde non è mai faticosa e così la lievità risulta fedele compagna dell’uomo.

Non si sente ancora bisogno di vedere il celeste profondo del mare, ma si vuole che altri esseri siano partecipi della nostra felicità terrena e un animale è desiderato vicino a noi perché possa con un guaito o con un cinguettio comprendere l’armonia dipinta su questa terra.

Si pensa a ogni istante che dalla quadratura di una finestra debba spuntare la testa incuriosita di un bonzo, oppure dalla feritoia oblunga di una porta debba diffondersi il canto corale di giovani inservienti, invece tutto è silenzio e inamovibilità.

In questo secolo in cui si crede che il rumore e il movimento siano segni di vita, qui la vita ha l’aspetto della notte ed è origine di un’altra vita che scaturisce da fonti più solari. Siamo in attesa, come fossimo in un paese straniero, di un alterco o di un dialogo che dia attraverso la lingua la espressione di quel popolo.

Il silenzio prolungato ci fa attendere, come un singulto o un grido, che qualcuno con la voce dica la sua volontà di esistere. Siamo come se in una città di traffico un’improvvisa frenata o un colpo di sterzo dicesse che il silenzio è provvisorio.

Possiamo essere giunti dall’altra terra, forse dalla Foresta Nera o da un’altra foresta che alligna verso le Puglie, non lo sappiamo e non abbiamo voglia di sapere dove si protendono gli altri punti cardinali. Tutti hanno un senso di pudore a non rivelare la loro origine, così che ci dànno il senso di avere molto errato per la terra, nel lungo intervallo fra una battaglia e l’altra.

Si conosceva questa terra vuota che si protende al di là di un villaggio marino e di un fiume invalicabile. Il canale era difficile perché mancava di un ponte, ed era arduo trovare un mezzo qualsiasi per essere al di là.

La leggenda o una storia estrosa ci parlava di acquitrini con buche enormi che disseminavano il terreno e di vipere aggrovigliate dovunque con veleni immediati. In quelle spiagge selvatiche e solitarie si pensavano sotto ai soli estivi, paradisi di pace. I venefici intrusi furono eliminati dagli impavidi tacchini pascolanti e le buche degli acquitrini furono colmate, e così sorse la pineta e la spiaggia per i nauseati del mondo civile.

Signore di questa terra è ancora chi ha la chiave delle mappe, e ancora può dettare legge come egli voglia, riplasmando a suo arbitrio la terra a beneficio dell’uomo; ma questi è duro a capire le esigenze dei tempi, e le sue sofferenze soltanto lo risveglieranno un giorno, quando il silenzio degli uccelli sarà totale.

Giovanni Comisso

Il Gazzettino 6 luglio 1967

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