Nel “Veneto d’ombra” con Nicola De Cilia

Sto percorrendo l’Alzaia del Sile quando ricevo la telefonata di Nicola De Cilia.

Metà novembre, il vento spoglia le fronde di aceri pioppi e olmi. Calpesto un tappeto di foglie variopinte.

“Il fiume era un corso d’acqua pigro e non molto lungo, che nasceva dalla palude, proprio dove cominciava la grande pianura” (Giuseppe Berto, Il cielo è rosso, Rizzoli 1974)

Il luogo ideale per parlare con Nicola del suo ultimo libro “Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta” (Ronzani Editore).

Nel volume sono contenuti una serie di scritti ed interviste ad Autori veneti che vanno dal 1998 al 2017. Da Adami a Zanzotto passando per Berto Comisso e Parise. Da Rigoni Stern a Meneghello…Dalla pianura veneta all’altipiano di Asiago, da Vicenza a Revine Lago, Poesia cinema, storia letteratura: un viaggio di 240 pagine per raggiungere le radici della nostra letteratura, per capire quale linfa l’abbia alimentata, per scoprirne nuovi germogli.

Mi lascio guidare dalla voce di Nicola.

Seguiteci.

Partiamo dal titolo nel quale, citando Piovene ( Narratori del Veneto, 1973 ), dichiarata e forte è la volontà di occuparsi del Veneto d’ombra: una famiglia di caratteri saturnini, strani, intricati, fegatosi, misantropi e un po’ deliranti.

Da dove parte il tuo desiderio di illuminare “la faccia buia della luna”?

Il primo dei saggi contenuti in questo libro nasce da un suggerimento di Goffredo Fofi, che vent’anni fa mi spinse ad approfondire, per la rivista “Lo straniero”, il tema delle minoranze etiche. Cominciai, quindi, con Antonio Giuriolo e Antonio Adami, due partigiani nonviolenti, uno vicentino, l’altro trevigiano, due intellettuali entrambi protesi alla difficile identificazione tra cultura e vita. Di loro, avevano scritto Luigi Meneghello e Andrea Zanzotto. Intervistai entrambi, lessi diversi altri libri, e man mano che avanzavo nello studio, mi rendevo conto che questo nostro territorio presentava situazioni, esperienze,autori rimasti marginali rispetto a quello che, normalmente, viene considerato il palcoscenico della storia ufficiale.

Emergeva un Veneto meno noto, meno frequentato ma non per questo meno interessante. Anzi. Nel corso degli anni, ho scavato ulteriormente in questa direzione, rendendomi conto della ricchezza che caratterizza la cultura veneta, uno studio che mi ha appassionato.

Devo all’attenzione e alla cura di Maria Gregorio e al coraggio dell’editore Ronzani, se adesso viene offerta la possibilità di leggere il risultato di questo lavoro, sviluppatosi lungo vent’anni, altrimenti destinato a rimanere nell’ombra, pure esso.

 Gli Autori che ci fai  incontrare si son trovati a peregrinare in periodi diversi “sotto il cielo nordico del Veneto” (Parise)e ad osservare lo stesso “orizzonte psichico” ( Zanzotto). Appartenenza ad un territorio, influenza del paesaggio, condivisione di un idioma… Cosa rende “veneto” un Autore?

Da giovane guardavo con un certo sospetto quella che è “l’identità” regionale: mi sembrava una gabbia, uno strumento per tarparmi le ali,identificandomi con una serie di stereotipi e cliché che detestavo; cercavo di smorzare il più possibile la mia cadenza veneta, di cui arrivavo perfino a vergognarmi.

Col tempo ho imparato non solo ad accettare i condizionamenti che venivano da questa mia origine ma a farne un punto di forza – arricchito, se vuoi, anche dalla mia appartenenza, per parte di padre, al Friuli, dove ho passato lunghe estati luminose. Se è vero che non si sceglie dove e da chi nascere, è anche vero, però, che si possa conquistare e costruire una propria identità attraverso un confronto con autori con cui si condividono origini e esperienze.

Va aggiunto, però, che se i tre elementi che citi – territorio, paesaggio, idioma – in passato hanno svolto un ruolo decisivo nella formazione di un autore in quanto “veneto”, oggi il loro ruolo è sicuramente ridotto: il territorio è stato brutalizzato, il paesaggio reso in gran parte irriconoscibile e l’idioma ha smesso quasi del tutto di trarre energie dall’osmosi con la lingua regionale, trasformandosi in un chiacchiericcio anodino della consistenza della melassa.

Eppure, non di rado, vengono ancor sempre alla luce rivoli sotterranei a testimoniare il permanere degli antichi caratteri identitari. Si rimane sorpresi, ma li colgo anche come segni di una civiltà che ha radici profonde, non del tutto svelte.

I testi e le interviste che hai raccolto in questo libro vanno dal 1998 al 2017. Nel capitolo dedicato all’incontro con Mario Rigoni Stern,  “Mutazioni”, Gianfranco Bettin cita Andrea Zanzotto per il quale “la mutazione ha avuto inizio con le antenne che cominciavano ad apparire sui tetti delle case dei contadini”…cosa è cambiato nella scrittura?

Non saprei, non dispongo di un inventario della produzione odierna tale da poter tracciare un quadro attendibile. La scrittura espressiva – non il parlato quotidiano, non la scrittura di “consumo” che caratterizza la comunicazione dei “social” e i giornali – mantiene un elemento conservativo: a suo modo rappresenta un elemento di resistenza che, come ha indicato Vitaliano Trevisan, importante autore “veneto”, mantiene una forza perfino commovente, alla stregua di

“certe piante quando bucano l’asfalto, o mettono radici in una crepa sul muro, o nell’incavo di una grondaia trascurata, e crescono e si sviluppano, in una parola vivono, senza rendersi conto che non è lì che dovrebbero essere, e di quanto precaria sia la loro situazione.”

Penso anche al romanzo di Francesco Targhetta, Le vite potenziali, che se da una parte descrive la mutazione delle persone, desideri e paesaggi, dall’altra usa uno stile ipotattico e ricercato che sembra appartenere a un’altra epoca. Anche la poesia testimonia le mutazioni attuali, per quanto, data anche la sua dimensione pulviscolare, sia un campo che conosco meno: oltre a Luciano Cecchinel, presente nei miei Saturnini con una lunga e significativa intervista,mi sembra molto interessante il lavoro di autori come Giovanni Turra, Sebastiano Gatto e Igor De Marchi, riuniti sotto la sigla A27, o Mauro Sambi, poeta originario di Pola che abita a Padova – ma sicuramente ce ne saranno altri – che hanno saputo recepire questi mutamenti del paesaggio e della scrittura: anche loro sono come le piante di cui parla Trevisan.

Tracciare una mappa dei luoghi degli scrittori veneti, delinearne caratteristiche comuni…nel saggio dedicato a Meneghello,  “Luigi Meneghello nasce da una pietra e altri percorsi carsici”, avverti la necessità di andare oltre, effettuare un percorso carsico, di cercare quelle correnti nascoste, sotterranee, imprevedibili.

Nei Piccoli maestri il Meneghello narratore trova salvezza riparo e rinascita nella “scafa” che lo protegge dai rastrellamenti dei nazifascisti. Cosa hai trovato in questo tuo personale scavo?

Mah, non saprei… da ragazzo mi piaceva molto una canzoni degli U2, “I still haven’tfound whatI’m looking for”. Ecco, ho la sensazione di aver toccato delle correnti profonde, carsiche appunto, forse solo sfiorate, ma da cui sento provenire un’energia a cui vorrei attingere per continuare in una ricerca personale e di scrittura.

Dove mi condurrà, non lo so ancora, ma sono un buon camminatore, non mi spaventa quanto lungo possa essere il percorso, ora ho la certezza di avere nel mio zaino ciò di cui ho bisogno per sostenermi nel viaggio.

Dove possiamo incontrare oggi  Giovanni  Comisso, passeggiando in queste prime giornate invernali, magari portando un suo libro nello zaino?

Se mi accompagni, nei prossimi giorni, può darsi si riesca a incontrarlo. Ma… ssshhh, è un segreto.

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