“Nella casa di Arturo Martini” di Giovanni Comisso

Nei primi mesi del 1947 Martini scriveva alla moglie:

“Cara Brigida, oggi ho fatto partire 11 casse per Vado che contengono tutti gli arnesi del mio lavoro: dunque speriamo che dopo le casse arrivi anch’io che ho tanto bisogno di riposo e di rifarmi una vita per morire in pace”.

Quel desiderio rimase irrealizzato, lo scultore morì a Milano il 22 marzo 1947. Nel settantesimo anniversario della morte dello scultore trevigiano, vadese di adozione, vi offriamo la lettura di questo sentito ricordo scritto dall’amico Giovanni Comisso pubblicato ne Il Gazzettino nel 1949.

Nella casa di Arturo Martini

In Vado Ligure, tra un porto irto di navi e un groviglio di fabbriche, sta sepolto lo scultore Arturo Martini. Durante l’altra guerra egli, che voleva fare solo la sua guerra, era riuscito a farsi trasferire dal suo reggimento di artiglieria in una fabbrica di munizioni di questa città, dopo avere convinto il colonnello che avrebbe costruito certe nuove armi di sua invenzione. Le quali consistevano in bombe a mano di terracotta contenenti palline di vetro che avrebbero sventagliato di schegge vetrose il nemico. Non ne fece nulla, dovette invece fare l’operaio metallurgico, ma come consolazione. Nell’osteria dove andava alla sera, una ragazza ascoltava in incanto la sua parlata veemente rivolta agli scaricatori di porto. Parlava con loro della vita e dell’arte come era stato sempre sua abitudine. Infine trovò in questa ragazza l’amore. Era la figlia del padrone dell’osteria e armeria finita la guerra la sposò.

Non voleva più ritornare alla sua natale Treviso, dove troppo aveva sofferto in umiliazioni continue per avere di che mangiare, ed elesse con la famiglia, Vado come sua nuova città. Vado gli aveva dato l’amore e gli diede anche la prima gloria. Mentre a Treviso non gli riesciva di potere  erigere, secondo il suo progetto, il monumento per i caduti di quella guerra, la prontezza della gente ligure riconobbe in lui il pioniere e gli affidò l’incarico di fare quello per i caduti di Vado. Ugo Ojetti, quando lo vide, ebbe belle parole di elogio: era uno dei monumenti più originali che fossero stati fatti sino allora in Italia. Da Vado egli partì per la sua guerra: lotte, delusioni, trionfi si susseguirono.

Ogni città ebbe una sua opera, vinse premi, decorò piazze, ville, edifici pubblici. La sua fantasia crebbe ad ogni opera in forme sovrumane. Egli voleva superare tutte le fantasie sino a lui realizzate dalla scultura, creatore di drammi e di vicende in marmo, in bronzo, In terracotta, in pietre che andava egli stesso a ricercarsi nelle cave più ignorate.

Fu un grande drammaturgo ed ebbe fantasia così vasta che ci vorranno secoli perché la scultura italiana lo possa superare. Si ebbe questa testimonianza all’ultima Biennale Veneziana, dove accanto alle sue opere vi erano quelle del suoi contemporanei.

Ebbi la possibilità di curare l’epistolario di Arturo Martini raccogliendo le sue lettere dalla giovinezza alla morte, dirette agli amici e ai familiari. Da queste lettere tutta la sua vita travolgente esce fuori come una sua stessa opera scultorea. Vita di speranze, di battaglie, di ferite, di trionfi, conchiusa coll’amaro rinnegamento di tutte le sue opere e della scultura come forma d’arte. Orbene questa raccolta di lettere di Arturo Martini mi fu rifiutata per la pubblicazione da tutte le maggiori case editrici, nessuna di queste case ha saputo vedere il prezioso dono che offrivo, ma avranno da rammaricarsene. Ora, finalmente, un gruppo di amici trevigiani ha fondato una casa editrice: “Le edizioni di Treviso “, proponendosi appunto di pubblicare quei libri che i maggiori editori si rifiutano di pubblicare e il primo che uscirà entro l’anno, sarà l’epistolario di Arturo Martini.

Coi primi guadagni dalla vendita delle sue statue egli volle costruirsi in Vado una casa secondo un suo disegno. perché qui aveva già una sua famiglia con due figli e perché, anche se lontano, amava questa città che per prima aveva riconosciuto la sua potenza. Mentre viveva a Roma o Milano battendosi per non essere sopraffatto dalla solita stupidità trionfante, la moglie accudiva alla creazione della casa e ad allevare i due bambini. Ogni tanto le mandava una sua statua e dava ordine dove collocarla. Un grande chiostro doveva cingere l’orto e sotto ad ogni arco avrebbe dovuto essere collocata una statua. Venne questa altra guerra e la distruzione si abbatté su Vado, la famiglia fu costretta a fuggire sui monti, tutto attorno alla casa divamparono gli incendi e caddero le bombe distruggenti. La casa rimase intatta e Martini accolse questa preservazione come un segno divino che egli avrebbe dovuto ritornare a vivervi definitivamente nel declinare degli anni.

Era stanco di vivere sempre come attendato e raccolte tante delle sue opere, le chiuse in casse e le spedì in avanguardia verso Vado. Egli sarebbe arrivato poco dopo, ma Dio voleva che solo compisse l’atto della decisione del ritorno: a Vado non poté ritornare che da morto. Quest’ultima vicenda della sua vita voluta dalla suprema fantasia di Dio, despota di noi viventi, comprovava ancora che tante delle sue fantasie, che fin dalla giovinezza lo avvincevano sul ritorno del figliol prodigo, non erano che fantasie divine. Martini non voleva invecchiare nella sua casa, da lui stesso costruita: non poteva adattarsi a tramontare senza lotte, senza discussioni, vedendo i figli ingrandire, osservando le sue opere inerme. Egli doveva finire così, alla vigilia del suo ritorno.

Ora la vedova, che sempre lo ha atteso, ha collocato le opere nella casa. La figlia Maria ha sposato l’ultimo allievo del padre. Già è nato un bambino: si chiama Arturo ed è già loquace come lui, ed ha occhi avidi e aggressivi. Tutta la casa è un museo delle sue opere. Egli qui vive e la sua voce risuona dominante. Sembra sentire il suo passo, quel passo che da giovane batteva le strade della natale Treviso, sempre nel mezzo, come per una marcia in ascesa. E lo sguardo stava fisso dove egli sapeva di dovere arrivare. Fuori nell’orto è stata collocata una delle statue più grandi. La vedova vi ha piantate attorno dei gigli. Biancheggiano le tremano, questi fiori, al vento che viene dal Tirreno, tremano come in una danza attorno alla statua.

Al di là del muro stanno sbrecciate, diroccate le case colpite dai bombardamenti; una chiesa è squartata nelle sue navate: attorno è un deserto di rovine, e queste rovine sono le rovine del mondo, la realtà del mondo, il caos informe che è sempre il mondo attorno all’artista in attesa che egli lo coordini,  lo plasmi secondo la sua fantasia, la sua poesia a nostra  consolazione, per non impazzire o per non morire di noia.

Giovanni Comisso
Il Gazzettino 24 settembre 1949

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