“Paolo del Giudice. Inseguire Venezia” di Isabella Panfido

Sotto quale forma, da quale nuvola, sopra quale campanile, lo sguardo del pittore ha concepito quella veduta metamorfica che ci avvolge di rosa e di azzurro per raccontarci di invisibili geometrie e inaudite risacche, di palazzate sottomarine e di frammenti emersi da una Tetide sognata sempre?

Dall’alto della leggenda, da una distanza tale da schiacciare la prospettiva e far emergere, come nella più nota delle mappe veneziane – quella di Jacopo de Barbari – tutti gli elementi che la determinano: il grande canale, serpe celeste e il suo collettore, il bacino di San Marco, ma anche le isole, laggiù, che sembrano nuvole ma che è terra delle geografie lagunari. E qui, in primo piano – ma tutti i piani sono alterati, come nell’acqua, distanze e dimensioni si deformano – dall’ombra del chiostro palladiano si articola con precisione la grande geometria della Scuola Grande della Carità e il convento, mentre di là della serpe azzurra, affacciati, nati dall’acqua i rettangoli ordinati, accennati solo eppure precisi, leggibili, dei palazzi più esclusivi, quelli in vista del Canale.

Così: dall’alto e dal basso, da dentro e da fuori, dal centro della sua essenza, tra questi colori inverosimili eppure uguali a certi intonaci in un’alba estiva, c’è tutta la Città per come l’ha desiderata Paolo Del Giudice.

Sempre certamente inseguita quella città invisibile che già negli anni Settanta (1969 addirittura) si mostra nella modalità della scomposizione, col pennello grosso, per tratti essenziali e con colori imperativi, senza modulazione: un largo d’acqua, una rotondità di cupola, un’arcata di bifora.

E’ così la gioventù, un momento assoluto, una rapina negli occhi, la passione e una frustata di pennello.

Ma arriva poi la stagione generosa degli Ottanta e il 1986 in particolare, quell’anno felice in cui grandi, grandissime tele raccolgono una specie di furore barocco: interni solenni e cupi di chiese come Santo Stefano, San Zulian, San Giovanni Crisostomo si aprono in festoni verticali, scanditi da lesene, colonne, pilastri, cappelle, altari in una fantasmagoria coloristica mai più ripetuta, fasci di luce dalle finestre a ogiva, lame luminose per sezioni di buio, fino all’apice dell’iconostasi nella Basilica di San Marco, volte chiare di gialli che mimano l’oro musivo e presenze verticali di viola e blu per una sacralità bizantina fitta di materia.
Anno felicissimo il 1986, ma non esaustivo.

L’inseguimento della Città imprendibile, smaccatamente bella e irrappresentabile – perché di tutti e di nessuno – tormentava e tormenta ancora Del Giudice con centinaia di scatti fotografici, nel tentativo di rincorrere il perfetto impossibile, la luce zenitale sopra le Procuratie, l’alba sulla Marciana, il tocco molle di un tramonto radente sulle facciata dei Gesuiti.

Così, in mezzo a tanti camion e viadotti e periferie e librerie e lacerti di insediamenti industriali, Paolo Del Giudice non ha mai smesso di dipingere i vapori di salso veneziani. Perché non sono edifici quelli evocati sulle larghe – ma anche nei formati piccoli quali equilibri! – tele, non palazzi, chiese, facciate, campanili, ma presenze aeree, pulviscolo multicolore, sedimento di alito marino, depositatisi nell’attimo che precede la quiete di vento.

La cattura della essenza non è esercizio per tutti, servono occhi e pensieri fini più di retini da farfalle, perché non evapori quella vaghissima traccia e mano assai rapida perché non si disperda quella minima impronta di anima che la Città, generosa, concede a chiunque ma che pochi sanno riconoscere.

Sono le sue piccole privatissime prede, le preziose sillabe con le quali Del Giudice ricostituisce la lingua pittorica del vedutismo veneziano, stendendo, sui fondi preparati, il segno come battiti d’ala. Uno per tutti, il più bellottiano dei suoi scorci di Canal Grande con il ponte di Rialto, quello rapidissimo in nero seppia, di piccolo formato.
Quei fondi che gli portano via intere estati, trascorse sotto il grande portico di Selva a preparare le tele, così come facevano i pittori da che arte è arte. Quei fondi che, a volte, dispiacerebbe vedere alterati dalle immagini per le quali sono nati, fondi che spesso l’artista lascia emergere per larghi brani, protagonisti e non supporti del dipinto.

Ed è in grazia di quei fondi che si rende possibile ciò che in assoluto prediligo della lingua pittorica di Paolo Del Giudice e in particolare di quella sua declinazione coraggiosa e ossessiva di Venezia: il suo gesto rapido e monocromo, quel mormorio del colore che non è timido approccio ma discreta asserzione.

Direttamente sul fondo preparato – nessun disegno – subito magrissima materia, largo il pennello intinto in un solo pigmento, veloce il tratto: il bianco della facciata degli Scalzi sul celeste del supporto, fantasma evocato da un sospiro; oppure il rosa squisito che regge l’intera massa barocca – verde! – della chiesa della Salute, l’inverosimile blu lapislazzuli grondante sulla fronte marmorea dei Gesuiti. Ma ancora, ancora di più nella sottrazione di materia, fino a tracce di minime velature terrose, di residui ferrugginosi d’acqua antica che fanno nella lontananza di una veduta equorea il sussurro di linee di una facciata, la meno veneziana, quella dello Stucky, e l’intuizione deliziosa, come nei disegni di un Guardi, di una sanguigna (ma non è matita, è ancora e sempre pennello e olio) di Ca’ Pesaro, graziata di tenera leggerezza.

E’ qui, più che nelle icone classiche del Campanile di San Marco o del Ponte di Rialto, che Del Giudice vince la sfida con la ‘banalità’ del bello: nella rarefazione di materia e segno, nel pensiero prima ancora che nel gesto, in quella intenzione parca di suggerire l’ineffabile, così consustanziale alla poetica di Del Giudice.

Nel dialogo con il dettaglio più ancora che nell’insieme, nella carica emotiva del particolare: nell’arco di finestra rinascimentale, nella breccia di intonaco sotto la grondaia, nel lacerto di porta d’acqua, questa Città impossibile trova la dignità della meraviglia rinascente nella quale continua, segretamente, a esistere.

13 Maggio 2017 Isabella Panfido

PAOLO DEL GIUDICE   BIOGRAFIA ESSENZIALE

E’ nato a Treviso nel 1952 e dipinge da sempre. Elabora presto un linguaggio autonomo conseguendo nel 1970 il primo premio alla X Biennale Triveneta di Cittadella. Dopo il liceo scientifico frequenta l’Accademia di Belle Arti di Venezia e, nel decennio 1973/1983, partecipa alle iniziative della Fondazione Bevilacqua La Masa. Negli anni successivi inizia quell’indagine sui luoghi della vita, dell’arte e della memoria che lo vede coinvolto tuttora.

Nel 1991 inizia la collaborazione con lo Studio Gastaldelli di Milano.

Nel 2000 prima vasta antologica a Villa Brandolini di Pieve di Soligo.

Nel biennio 2006-2007 realizza il ciclo espositivo Viaggio in Italia con tre grandi rassegne a Spoleto, Venezia e Bassano del Grappa.e nel 2008  a Istanbul, a cui fa seguito nel 2008 è Memorie di carta dedicata alla carta, al libro, alle biblioteche, ai volti di scrittori e poeti. Del 2010 Verde rame nelle miniere di rame della Valle Imperina; nel 2011 partecipa alla Biennale di Venezia, nella sede di Villa Contarini a Piazzola sul Brenta. Del 2011 Percorsi dipinti – sguardi quotidiani su Treviso, un omaggio alla sua città in nove sedi del centro storico, tra chiese, musei e spazi pubblici.

INSEGUIRE VENEZIA. LA MOSTRA

La mostra di Paolo Del Giudice Inseguire Venezia, allo Spazio Culturale Bafile di Caorle, inaugura domenica 18 giugno alle 11 e resterà aperta fino al 10 settembre con il seguente orario: tutti i giorni 18-22 fino al 30 agosto, 17-21 dal 1 al 10 settembre, domeniche anche 10.30 – 12.30. Ingresso gratuito

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