“Passeggiata nel bosco della mia infanzia” di Giovanni Comisso

E’ un bosco che conosco dalla infanzia. Vi ritorno ogni tanto dopo lunghi anni, ma niente si muta. Neanche il corso delle piccole acque nelle rughe del pendio che lungo il sentiero in salita vengono raccolte dai boscaioli nelle conche di calcare per dissetarsi.

Credo che da innumerevoli secoli sia uguale, da quando discioltisi i ghiacciai immani e ritrattosi il mare si sono formate queste colline una dietro l’altra in fila, vicino alle montagne di roccia. Il mare ritraendosi ha scarnificato queste montagne e della loro polpa ha formato queste colline su tre file parallele, come le secche che si formano e si disfanno ogni giorno lungo la riva marina ora lontana.

Sono passati i secoli e di quelli quando le onde tumultuavano alte ne è rimasta l’orma nel calcare che le fresche acque discoprono, sono bianche conchiglie impastate all’antica sabbia, fragili come di gesso, appena si riesca a staccarle.

Sono passati gli anni e sono come secoli. Dopo la mia infanzia avida di questo verde sospeso, di questo silenzio e di questa freschezza dell’aria odorosa di felci e di ciclamini, qui è passata la guerra e il rombo delle artiglierie celate nelle piccole valli ha agitato come un vento di tempesta queste placide fronde.

Ora si sente giù sui campi il picchettio dei contadini che affilano le falci e le loro voci di tanto in tanto, e qualche sparo dei cacciatori, e l’abbaiare di un cane. Sono solo col mio bosco, e non è mutato, e di passo in passo che salgo esso mi ricrea uguale agli anni lontani.

Alcuni anni, molti anni, molti secoli: il tempo non è passato dentro di noi, il tempo non è passato fuori di noi.

La piccola fonte batte le sue gocce sulla foglia come allora, mi chino a bere nella conca l’acqua leggera e scopro tra i lunghi e sottili fili d’erba brillanti di gocce di rugiada una minuta grotta nel calcare tutta foderata di muschio. Se fosse vasta per accogliere un uomo sarebbe una mirabile casa.

E’ deserta, disabitata, il muschio è verde e dorato, risvegliato dal mio respiro, dalla cavità esce un piccolo insetto cuneiforme, si inerpica su per lo stelo di una campanula azzurra e di là scatta come un proiettile e scompare. Sulla parte più umida del calcare vi sono i segni delle zampe d’un uccello, che deve essere venuto ad abbeverarsi, e vi ha lasciato una penna grigia e verde, per un attimo questa mirabile casa é stata sua.

Dentro alla campanula vi sono minutissimi insetti storditi d’azzurro e di polline.

Rasento il volto sulle erbe e mi pungono, si difendono taglienti, ma mi accorgo che difendono un ragno che sta tendendo la sua tela mattiniera prima che il sole penetri tra le fronde a risvegliare il volo , delle farfalle.

Ha già teso la raggiera, ha composto il centro, e congiunti i vari raggi a distanze larghe, di traverso perché stiano ben tesi, ora dalla periferia completa la tela. E’ rapido, passa, e con le zampe di dietro fissa il filo, gira concentrico, restringendo sempre di più la tessitura, tiene le misure esatte. La tela è grande, la regge da un lato uno stelo, che termina in un pennacchio biondo, dall’altro i lunghi fili d’erba e uno stocco di salvia.

Un raggio di sole scende lungo il declivio tra le frondi e asciuga la rugiada sull’erba, ritornano le voci dei contadini giù sui campi e l’abbaiare dei cani dalle case sui colli.

Il ragno ha finito la sua tela e si è posto al centro immobile in attesa, ma tutti gli insetti volanti sono sull’altro ciglio del sentiero dove batte il sole, alcune api veloci passano da una salvia all’altra, già infarinate di polline e le farfalle bianche, nere, turchine sono sull’alta erba del pendio sottostante, dove il bosco si dirada, volteggiano sulle ombrellifere, sulle margherite, sulle campanule, sulle salvie, si inseguono, si disputano l’amata precipitando nel folto dell’erba.

Il ragno sta fermo ed attende, voglio premiare la sua crudele pazienza, voglio cercare qualcosa per lui.

Tento di prendere le farfalle, queste farfalle della mia infanzia; con le mani non si possono prendere; col cappello, lo spostamento dell’aria le allarma e le allontana: non so più prendere le farfalle. Il tempo è passato dentro di noi.

Approfitto di una contesa d’amore, riesco a prenderne due, le lascio cadere mezzo stordite sulla tela e, subito invescate, danno grandi strappi con le ali, il ragno si precipita immediato su quella che si agita di più, la morde alla cervice, sanguinario, tenace fino a quando i battiti delle ali si smorzano, poi smette, l’avvolge di altro filo, si stacca dalla tela, si arrampica sullo stelo della campanula, compie strane evoluzioni, strani armeggi, tende altri fili, e scende di nuovo alla preda.

La fascia, la stacca dalla tela e allora la vedo pendere assicurata ai fili tesi dianzi, come un salame in una cantina, di scorta nella sua cantina ombreggiata e fresca per i momenti di maggiore appetito. Poi si rivolge all’altra farfalla e compie la stessa operazione. E come ha finito non ritorna al suo centro di osservazione, al suo palese posto di imperio, ma si ritrae su tra i fili di erba a nascondersi come lo avesse preso il rimorso e l’onta per i due delitti commessi, superiori alla sua aspettazione.

Mi rialzo, mi allontano, un uccello stride da una fronda all’altra. Un altro ripete lo stesso cinguettio fremente, penso sia la mia presenza ad allarmarli, mi acquatto vicino ad una quercia che sporge dalla terra le sue radici coperte di muschio.

Mi nascondo nell’ombra, ma lo stridio accresce ed altri uccelli rispondono più lontano. D’un tratto mi accorgo che le erbe vicine alla fonte si muovono, sul sentiero già tutto battuto dal sole scende sinuosa e rapida una biscia, una lunga biscia, che va verso il sole, attraversa il sentiero e penetra nel folto dell’alta erba fiorita dove danzano le farfalle. Stupito, incantato, non mi sono mosso. Stridevano ancora gli uccelli.

Mi sono abbandonato contro il tronco della vecchia quercia quasi estenuato da un doloroso languore: una volta in questo bosco della mia infanzia, venti, trenta anni fa, molti anni fa, molti secoli fa non vi erano biscie ad allarmare gli uccelli tra le frondi, ed io cercavo sicuro i ciclamini e le fragole selvatiche: il tempo è dunque passato anche fuori di noi.

Giovanni Comisso, 20 settembre 1941

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