“Peccato che Joyce non abbia insegnato l’italiano a Svevo”

Peccato che Joyce non abbia insegnato l’italiano a Svevo

L’Università americana di Wayne ha pubblicato la conferenza su Defoe che, nel 1912, il grande scrittore irlandese tenne a Trieste nella nostra lingua. Uno stile Impeccabile

Giuseppe Prescott, dell’Università americana di Wayne, mi manda in omaggio un opuscolo su Daniele Dejoe  con una conferenza di James Joyce, fatta in italiano all’ Università popolare di Trieste, nel 1912.

L’opuscolo riproduce il testo originario e la traduzione eseguita dal Prescott. Tutto è di grande interesse, e offre l’occasione di pensarvi sopra. Joyce era un grande ammiratore di Defoe e aveva tutte le duecento e dieci opere di questo autore. All’Università popolare di Trieste fece due conferenze in italiano dedicate al verismo e all’idealismo nella letteratura inglese, una per Defoe e l’altra per Blake. Questa su Defoe, pubblicata per merito del Prescott, rivela come Joyce, in Trieste, quando vi abitò quale professore di inglese, conoscesse la lingua italiana stupendamente. Si può dire che egli convalidava l’italianità di Trieste con la sua prova di parlare ai triestini con una purezza di lingua, quasi avesse parlato ai fiorentini, se costoro è ammissibile che parlino con purezza.

Minutaglie

Il testo originale ha alcuni trascurabili errori che oggi si potrebbero attribuire alla dattilografa, come brittanica, suoi debito, appoplessia e altre minutaglie trascurabili, ma il resto scorre chiaro e attraente per la forza delle idee e delle immagini.

Sapevo che Joyce conosceva l’italiano con una precisione puntigliosa per esperienza personale.

Nel 1927, quando lo incontrai a Parigi, nel ritrarlo fisicamente scrissi che il suo occhio «sinistro» aveva la pupilla celeste dilatata come se nella pittura ad acquarello vi si avesse messo troppa acqua.  Nino Erank mi disse che si arrabbiò per quel sinistro che egli interpretò i senso malevolo, mentre i verità avrei dovuto scrivere « a sinistra», per evitare l’equivoco.

Ma se si pensa che Italo Svevo era suo amico e compagno abitudinario durante il soggiorno triestino vien da chiedersi come non abbia approfittato della perfetta conoscenza della lingua italiana del professore d’inglese. Forse tra loro parlavano in triestino o in inglese e parlavano non di problemi linguistici ma di quelli della nascente psicanalisi, e fu male per noi.

Quando Somarè dell’« Esame» doveva ristampare « Senilità »,volle dare a me l’incarico di rivedere il testo, senza che avessi la competenza. Avere la competenza per trattare della lingua italiana è arduo, perché è uni lingua bastarda.

Italo Svevo con la copertina di “Senilità”

Un gioiello

Dopo molta fatica posso dire di avere indicato sole alcune influenze da evitare ma vivessi cento anni avrei sempre da riscontrare difetti nel mio stile. Non mi piacciano le influenze scolasti che, come «strada facendo» « anni fa », e quelle che chiamo ragionieristiche come « tutto sommato », « in fin dei conti» e altre. Ma mettermi a revisionare « Senilità» di Svevo era come ritradurre in italiano un libro già tradotto dal tedesco.

Svevo, tanto amico e consueto di Joyce, come mai non ha imparato da lui a scrivere in italiano come questi sapeva? La prova l’abbiamo da questa conferenza su Defoe. E’ un gioiello di stile, e più che essere resa nota all’Università americana di Wayne, lo doveva essere nelle nostre scuole letterarie, a doppio vantaggio di conoscere l’importanza di Defoe nella letteratura inglese e come si scrive in italiano un saggio critico. Joyce mi diceva che Dante si era servito di una parola del dialetto triestino scrivendo, «suso» per sopra, ma questo era un omaggio all’ottimismo dei triestini.

Certo, è augurabile che nelle terre del confine giulio si scriva e si parli bene l’italiano, ma purtroppo spesso si fa altrimenti.

Per finire, sono costretto a citare alcuni passi della conferenza di Joyce in italiano tenuta all’Università popolare di Trieste nel 1912: «Questo libro (il Robinson Crusoe) era stato offerto dall’autore a quasi tutte le case editrici della capitale le quali con grande perspicacia lo avevano rifiutato ». E ancora «I pedanti si affaticavano a scoprire i minuscoli sbagli in cui il grande battistrada (Defoe) del movimento veri sta era incorso». E si veda il finale della conferenza come scorre e sale epicamente senza che una sola parola tentenni: « Il vecchio leone va in un luogo appartato quando viene la sua ora suprema. Sente il ribrezzo del suo corpo sfiancato e stanco e vuole morire dove nessun occhio possa vederlo. E così talvolta l’uomo, che nasce nel pudore piega anche lui al pudore della morte e non vuole ch’ altri si rattristino allo spettacolo di quel fenomeno osceno col quale la natura brutale e beffarda pone fine alla vita di un essere umano ».

Joyce a Trieste non era professore d’inglese per i triestini, ma di lingua e stile italiani anche per gli italiani.

Giovanni Comisso

Il Gazzettino letterario, 6 luglio 1965

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